Il romanzo della fortuna/XVIII
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XVIII.
La pecora nera.
Si era assai mutato dal primo anno l’appartamento di Giovanni e di Chiarina. Essi ora avevano cortinaggi alle finestre, soppedanei nelle camere da letto e uno più ampio tutto a fiori davanti all’ottomana; e quando sedevano alla loro tavola sempre sobria, ma servita decorosamente sopra una tovaglia bianca e ben stirata, una servetta cambiava loro i piatti. Essi non avevano mai fatto sfoggio di grandezze come la famiglia del maestro, nè si erano smarriti dietro le seduzioni del lusso come la moglie del muratore e qualche altra. Lentamente, silenziosamente, con un lavoro assiduo, con pazienza sopratutto, con forfortuna anche, avevano visto crescere i loro guadagni e solamente quando furono in grado di farlo coi conti alla mano salirono il gradino che dal popolo dove erano nati doveva condurli ad una condizione superiore.
Svoltasi per gradi, la loro evoluzione si andava compiendo armonica in tutti i suoi lati, senza urtare e senza ferire alcuno, incosciente e logica come una bella forza della natura che si slancia descrivendo la sua parabola nitida dal punto di partenza al punto di arrivo. Le qualità che erano in loro fin dalla nascita avevano fatto di Giovanni e di Chiarina due trionfatori nella lotta per la vita. Essi si amavano oramai non solo quali fratelli, ma quali soci che hanno un interesse comune e un lungo vincolo di rapporti intellettuali.
L’ora del pasto serale, quell’ora che fin dagli anni lontani della botteguccia di Matteo era sempre stata così dolce al loro affetto, restava ancora la chiusa felice della giornata. Chiarina ricordava volentieri le lunghe attese sulla soglia della botteguccia per udire da lungi il ruotare del biroccio: e la sua inquietudine nella sera memorabile in cui Giovanni era tornato a casa tardi e fradicio d’acqua per essere sceso nel fosso ad aiutare il signor Bassano. E da allora — diceva Chiarina — che incominciò la nostra fortuna.
— Prima, prima — rispondeva Giovanni: — il germe di essa lo dobbiamo cercare nel quattrinello lucente che tu custodisti per tanto tempo. Senza la tua parsimonia e il tuo gusto per l’economia forse non sarei riuscito a fare quello che ho fatto.
Quando ragionavano così delle loro vicende, seduti l’uno di fronte all’altro, Chiarina non mancava mai di conchiudere sospirando: — E il nostro povero Giuseppe dove sarà?
Ella lo cercava sempre, il figliuol prodigo, nella folla dei mercati che in certi giorni della settimana ingombrava la piazza di Sant’Eustorgio; lo cercava lungo i bastioni dove gli operai andavano a frotte durante i vesperi estivi a prendere il fresco degli ippocastani; lo cercava nei tumulti carnevaleschi della fiera di porta Genova sfilante sotto le sue finestre; e sempre invano! Un vago timore, un presentimento ascoso la turbava in mezzo alle più innocenti soddisfazioni. Come era possibile chle egli li dimenticasse a quel punto? E se non li dimenticava, perchè non dar segno di vita mai, mai, in tanti anni?
Le notizie vennero finalmente, ma tali che Chiarina dovette rimpiangere il tempo trascorso nell’ignoranza!
Fu appunto in una di quelle ore soavi che fratello e sorella passavano insieme, alla sera, l’uno di fronte all’altra.
La servetta aveva sparecchiato e Giovanni stendeva il giornale sulla tavola, quando i suoi occhi caddero sopra un capo di cronaca cittadina che gli fece gettare un grido. Ah! il cuore lo aveva detto da tanto tempo a Chiarina! Ella comprese prima ancora di leggere, prima che Giovanni stravolto le porgesse lo sciagurato annunzio. Doveva essere così!
Un brutto fatto, di quelli che la stampa quotidiana registra sotto il titolo: Gesta dei teppisti, si era svolto in una osteria dei sobborghi con violenza verso il proprietario e spargimento di sangue, e tra i feritori arrestati c’era il nome del loro fratello.
Per buona sorte, ignorando tutti in quella casa che essi avessero un fratello, Giovanni e Chiarina sfuggirono la vergogna pubblica; ma tutto ciò che si può comprimere di amarezza in fondo al cuore fu da essi assorbito in quelle giornate fatali. Giovanni corse subito in questura, senza ottenere tuttavia di poter visitare Giuseppe che era stato trasportato al Reclusorio, e in tali circostanze dolorose egli potè ap-prezzare ancora una volta l’amicizia dei Firmiani, perchè Enzo stesso venne a cercare Giovanni mettendosi a sua disposizione per le pratiche necessarie.
Trascorsero settimane piene di tristezza, durante le quali le due famiglie ebbero spesso occasione di trovarsi insieme stringendo di nuovo i loro vincoli nel segreto doloroso che essi soli conoscevano.
Il signor Firmiani era stato il tutore dei tre orfani e la cattiva riuscita di Giuseppe lo feriva pure indirettamente; nè doveva essere questo il suo solo dolore, poichè già da tempo la fronte gli si incurvava come sotto un peso superiore alle forze e quando i giovani ciarlavano e ridevano dimentichi per un istante colla fortunata vivezza dell’età, egli non sapeva seguirli. Allora Chiarina gli si faceva da presso nella attitudine muta e pur tanto espressiva del cane fedele che divide senza conoscerlo l’affanno del padrone.
Questa vecchia similitudine non avrebbe per nulla offesa Chiarina che nella parola «padrone» non aveva mai scorto nulla di iracondo e di offensivo. Il compagno che sovra uno stretto sentiero ci cammina dinanzi forse è il padrone? È servo colui che segue? Gli accidenti della via sono tanti e gli uomini sono sempre gli stessi. L’anima amante di Chiarina non si perdeva in sofisticherie. Ella stava accanto al signor Firmiani come già era stata accanto alla madre di lui senza viltà e senza orgoglio, ritta e serena nella grande luminosità della sua coscienza.
E ancora una volta, come tante altre, come sempre, ella provava la singolare voluttà della dolcezza nel dolore, sensibilissima specialmente in quella fase di rinnovati rapporti colla famiglia che ella amava sopratutte al mondo. Il processo era aperto, si aspettava la sentenza di giorno in giorno, e questo argomento che dava pure tanta pena a tutti faceva rivivere l’affetto antico, le antiche memorie.
— Siamo quasi parenti — disse una volta Mariuccia.
— Sta scritto nella Bibbia — replicò il signor Firmiani — «vi è tale amico che è più che fratello» ed ecco una causa per Enzo se avesse preso la laurea di avvocato.
Chiarina pensò subito: Dunque non l’ha presa? E perchè? Quelle parole sfuggite al signor Firmiani si attaccarono a reminiscenze lontane, a brani di conversazioni udite per caso, a tutto quel velame misterioso che avvolgeva la vita di Enzo a guisa di una minaccia oscura ed invincibile. Ed ella non poteva sapere mai nulla di preciso.
Un progetto lo teneva occupato appunto in quei giorni; pare fosse la fondazione di un grande giornale. Udiva intorno frasi staccate, vocaboli di cui le sfuggiva l'importanza — «azioni, azionisti, capitale mobile, redazione, corrispondenti» — ma erano tutte cose lontane da lei, tanto lontane che non osava chiedere e nessuno pensava a darle chiarimenti. Lo vedeva felice, col raggio della speranza in fronte. Non era già una gioia?
Intanto usci la sentenza. Giuseppe era stato condannato a tre mesi di prigione e gli occhi di Chiarina offuscati dalle lagrime cessarono dal sorridere ai sogni di Enzo.
Giovanni che aveva assistito ai dibattimenti nascosto nella folla udì la difesa accampare l’abbandono della famiglia, i cattivi esempi, la miseria, udì suo fratello inveire contro le ingiustizie della società; udì il Pubblico Ministero parlare severamente di scioperataggine e di vizi.
— Che sarà mai di lui quando avrà scontata la pena? — chiedeva angosciosamente Chiarina a Giovanni.
Giovanni era triste e preoccupato. La sua lucida intelligenza, il senso pratico della vita che egli possedeva in sommo grado non gli permettevano di farsi molte illusioni. Talvolta Chiarina diceva: — Forse questa dura lezione gli servirà per l’avvenire. — Giovanni però crollava il capo.
I piccoli sollievi che il regolamento del Penitenziario concedono ai carcerati non mancarono a Giuseppe. Aiuto di denari, aiuto di consigli e di affetti, tutto ciò che fu possibile i suoi fratelli lo fecero; ma quando si venne a parlare dei progetti per il futuro e Giovanni gli fece alcune proposte per regolare la sua esistenza vagabonda, Giuseppe si scosse come una belva nel laccio e rispose male.
— Ma non è figlio di nostro padre e di nostra madre? — gemeva Chiarina — non è sangue nostro? Io voglio gettarmi ai suoi piedi e scongiurarlo per la memoria dei nostri genitori a non voler macchiare ancora il nostro nome onorato.
— Lascia — rispose gravemente Giovanni: — se egli non ha visto co’ suoi occhi e non ha sentito col suo cuore, se la ragione che è in tutti i fatti della vita non ha trovato la strada del suo cervello, se la sua dignità, se la sua coscienza di uomo non lo hanno mai arrestato sulla china fatale, che potresti fare tu, povera creatura?
— Alcune volte i malvagi si sono convertiti per una buona parola.
— Sì, quando c’è una molla che possa rispondere all’invito: quando il male è alla superficie... sono casi rari.
— Pensi tu dunque, Giovanni, che sia perduto per sempre?-esclamò Chiarina con inesprimibile angoscia.
— Ascolta — disse Giuseppe ognor più grave. — Io questo non lo so. Per quanto sieno illuminate le nostre previsioni, la parte dell’ignoto è sempre la maggiore in tutte le esistenze. Prova. Ma di una cosa sono sicuro: il maggior bene o il maggior male che un uomo può avere se lo fa sempre da sè stesso.
Tuttavia l’ardore di Chiarina non si acchetava nemmeno alle ragioni di Giovanni. Ella formò segretamente tutto un piano di redenzione per il suo sciagurato fratello. Temendo che le offerte di Giovanni urtassero l’eccessiva vanità di Giuseppe, volle farsi innanzi lei, la donna, la creatura umile e mansueta che non lo avrebbe ferito menomamente nell’amor proprio, poichè gli era stata quasi madre e dalla madre si accetta tutto. Ella metteva a sua disposizione le economie accumulate a poco a poco; il passato si poteva ancora cancellare; tutto si può cancellare, tutto si può redimere con una forte volontà. Perchè non l’avrebbe avuta Giuseppe essendo in giuoco la sua fortuna e la sua vita?
Penetrata dalla propria bontà Chiarina non vedeva che bene. I suoi piedi avevano ali l’ultimo giorno ch’ella andò a trovare Giuseppe al Reclusorio, a portargli il suo perdono e la sua fede di miglioramento. Ma al ritorno la bella fiamma dell’entusiasmo era sparita; a capo chino, colla desolazione in fronte, Chiarina si abbandonò nelle braccia di Giovanni che le era venuto incontro.
— Perduto, perduto!
Così tra i singhiozzi gemette la povera creatura appoggiandosi al cuore virile di Giovanni, dove il dolore stava rinchiuso come dentro a una fortezza.