Il romanzo della fortuna/XVII
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XVII.
Madama Cauda.
Seguirono anni di un lavoro intenso. La vita sentimentale di Chiarina affogò, sparve nell’orbita febbrile della attività di Giovanni. Intanto che ella attendeva al negozio egli era entrato prima come subalterno, poi come socio in un altro ramo di commercio. La sua lucida intuizione. degli affari, il suo buon senso, la sua onestà lo portavano avanti rapidamente, e poi egli aveva quel dono naturale della simpatia che nessuna legge potrà mai largire in eguale misura a tutti gli uomini. Egli era fortunato.
Chiarina si specchiava in lui come fa una madre nel proprio figliuolo. Non era un po’ un po’ figlio suo quel fratello ch’ella aveva guidato fin dai primi anni, nel quale si estrinsecavano tutte le virtù della sua razza? Quel Giovanni buono, sano, intelligente, vigoroso, non era il frutto migliore lasciato da’ suoi genitori, l’albero forte che avrebbe continuato a ramificare anche quando ella fosse scomparsa?
— Bacherozzolo, bacherozzolo — le diceva egli ridendo vedendola sempre intenta alle umili cure della casa — quando filerai seta per te?
Ma ella la filava tutti i giorni la sua seta migliore, quella che le tesseva intorno la sottile rete d’affetti che la facevano vivere.
Vicine, lontane, al di là dell’esistenza, molte erano le persone che Chiarina amava, e poichè dell’amore aveva scelta l’essenza più pura non era per lei l’amarezza del disinganno. Ella era ben certa di poter dare, dare sempre, e tanto bastava alla sua felicità.
Anche al dolce pensiero cullato in segreto Chiarina non chiedeva nulla per sè; ma il suo amore al pari della fiamma pur bruciando solitario la rischiarava e nella sua luce ella procedeva dritta a testa alta senza esitazioni. Pensava: Nessuno lo avrebbe saputo mai. Questa era la sua forza.
Infatti tutti coloro che la vedevano rizzata sul suo seggiolone dietro il banco, co’ suoi scialletti in diverse gradazioni di foglia morta, un po’ più secca, un po’ più giallina d’anno in anno, ma insensibilmente e senza bruschi trapassi, con quel sorriso opaco, con quegli occhi di scure veroniche, non avrebbero formulato intorno a lei neppure il sospetto di un pensiero che lontanamente somigliasse all’amore. La signora Chiarina, per tutto il quartiere, non era una donna. E se qualche volta avveniva che udendo parlare d’amore e d’amanti le salisse una rapida fiamma al viso, i più furbi dicevano: Poverina, arrossisce perchè non sa che cosa sia!
Banco e casa. Un’ora alla domenica nella bella chiesa di S. Eustorgio; qualche visita ai signori Firmiani: qualche parola scambiata colla signora Cauda, qualche opera buona compiuta insieme. Tale la vita esteriore di Chiarina. Le cure alla sorella della povera Gigia le assorbivano quel po’ di tempo disponibile tra una faccenda e l’altra. Ella aveva oramai la certezza di averla salvata e quando venne per l’operaia in nastri il giorno di cambiare alloggio, Chiarina sapeva che non avrebbe più osato infierire contro la bimba. Basta una sola coscienza coraggiosa che si levi dinanzi a coteste belve per intimorirle e ridurle all’inazione. Sapeva ciò.
Giovanni aveva approfittato di quello sgombero per allargare la propria abitazione. La camera dell’operaia aggiunta alle sue gli offrì il modo con una opportuna tramezza di foggiarsi un appartamentino di quattro stanze dove una servetta veniva regolarmente ogni mattina a fare la pulizia. Ma tutto ciò senza chiasso, tranquillamente, serbando l’attitudine modesta dei primi giorni e il gusto della parsimonia. Per questo Giovanni crollava il capo quando vedeva scendere dal quarto piano le operaie in ghingheri, ebbre del loro lusso posticcio e delle foggie raffinate che la diffusione dei figurini di mode mette alla portata di qualunque sartina.
C’era tra le altre la moglie di un muratore che avendo trovato in un giornale illustrato da un soldo il ritratto del piccolo re di Spagna con un gran collare di pizzo si affrettò a preparare per il suo bambino un collare il più possibilmente simile spendendo per esso mezza giornata del salario del marito.
Madama Cauda predicava su tutti gli usci: «Non sono questi i miglioramenti che dovete inseguire e procurare di raggiungere. Studiate l’igiene, praticate la pulizia, siate economi, spendete il vostro denaro in cibi sani e non in cianciafruscole. Se vi cresce una lira mettetela da parte...».
Prediche al vento. Una volta, sopra uno di quegli usci, sorprese una bimba lacera e piagnucolosa che si lagnava di non poter recarsi alla scuola in mancanza di un abito decente; e poichè la madre con grandi sospiri le ebbe parlato di miseria disperata la buona madama Cauda le fece arrivare in casa, oltre ad un corbello pieno di vettovaglie, otto metri di cotonnato forte e di tinta solida per farne due vestitini alla fanciulla. «Uno a dosso e l’altro al fosso» pensava l’eccellente madama Cauda nell’uscire dal negozio di Chiarina col suo involto sotto il braccio. Ma una settimana dopo quale non fu la sua sorpresa vedendo sulla fanciulla la sua stoffa modesta tagliuzzata in una gonna da cima a fondo ricoperta di gale e ornata di vellutini.
— Che avete mai fatto! — ella disse alla madre — dove sono i due abiti pratici che dovevate cucire per vostra figlia?
— Non se ne potè fare che uno.
— Naturalmente, con tutte queste gale che ci avete messo!
— Ma è la moda — rispose la madre impavida.
— Lo avete almeno cucito voi?
— Oh! no, la sarta. Io non possedevo i modelli.
— Tutto ciò vi sarà costato molto?
— Credo cinque lire.
Madama Cauda fuggì a precipizio gridando: «E la stoffa ne costava quattro!
Ma madama Cauda aveva il bisogno di lavare tutti i giorni la testa a qualche asino e nessun insuccesso la scoraggiava. Poco tempo dopo ella scoperse sull’altra scala, quella del lavoratore di marmi, la famiglia di un maestro che aveva sulle braccia moglie, figli e suocera e che la tirava sottile assai col suo stipendio di centoventi lire al mese. Colpita dal fatto che un educatore non potesse nemmeno guadagnare a sufficienza per la propria famiglia madama Cauda tanto disse e tanto si arrabattò che nella occasione di una venuta del Re inoltrò la sua brava supplica e gli fece avere un sussidio straordinario di trecento lire.
E già ella aveva calcolalo quante belle righe nere si sarebbero tirate sui conti del fornaio e del pizzicagnolo, quanta provvista di riso in cucina e quante paia di scarpe nuove suddivise fra tutti i membri della famiglia avrebbero fruttate quella manna della beneficenza regale, quando con sua grande stupefazione vide entrare nel cortile un magnifico landau, fare il giro delle arche, fermarsi dinanzi alla scala ed accogliere tutta quanta la famiglia del maestro, moglie, suocera, bimbi scoppiettanti d’allegria e di festosità. Andavano alle corse!
— Proprio non capisco — fece questa volta madama Cauda lasciandosi cadere le braccia. E per un po’ di tempo rinunciò alla beneficenza, accontentandosi di distribuire buoni consigli e precetti di igiene.
Ella era così fatta, la buona madama Cauda; sempre sorridente, sempre pronta a rinnovare le sue fedi, passando con una facilità straordinaria alle cose le più disparate pur di pascere la sua nobile inquietudine, la sua sete di fare il bene. Ella aveva conosciuto tutti gli strati della società; dalle famiglie cospicue dove andava a spremere denaro, ai più miseri tuguri dove lo distribuiva; e si era data per un gran pezzo al mecenatismo degli artisti sconosciuti, facendo pubblicare a sue spese libri che nessuno leggeva e tappezzando il suo appartamento di quadri mostruosi.
Amica di preti e di monache, religiosa praticante alla sua maniera, non provava ripugnanza alcuna a mischiarsi colle femmine perdute che ella visitava apertamente e serenamente convinta di influire a poco a poco sulla loro conversione. Partiva dal principio che a questo mondo non vi sono colpe ma solo errori. Una volta essendosi introdotta in una casa dove non la si aspettava certo e dove le sue intenzioni non furono apprezzate, riuscì appena a salvarsi malconcia e coperta di vituperi: Povere donne! — pensò in quell’occasione madama Cauda — non comprendono nemmeno chi vorrebbe far loro del bene; e spedì in quella casa, raccomandato, un pacco di libri istruttivi e morali.
Fin dai primi giorni del suo arrivo madama Cauda si pose nel migliore accordo coi vicini. Fu lei la prima a salutarli, tutti, indistintamente, con replicati movimenti del capo, agitando quel suo nasino in forma di pagoda chinese che avrebbe messo di buon umore un beccamorti. Le sue tasche erano una miniera inesauribile di zuccherini per i fanciulli la sua memoria un casellario portentoso di ricette per le madri. Ella sapeva un po’ di tutto: di cucina, di medicina, del modo di preparare un buon ranno e di fabbricare le suole di corda per le pantofole, ciò che le valse principalmente la riconoscenza della moglie del dottore.
Fervente seguace dei dettami della scienza e d’ogni idea nuova in genere nessuno più di lei si appassionava per le scoperte fatte o promesse: il siero per il cancro, la lingua universale, la navigazione aerea, la pace fra tutti i popoli e le nuove religioni e i nuovi assetti sociali. A furia di entrare nelle convinzioni degli altri non le rimaneva tempo Per formarsi convinzioni proprie e questo agitarsi della sua mente nell’inseguire un ideale continuamente fuggitivo le dava una apparenza di instabilità e di contraddizione. Se alla mattina la si vedeva genuflessa ai piedi dell’altare in povere gramaglie e attitudine estatica di preghiera, non vi era per madama Cauda contraddizione alcuna, se poi leggendo gli avvisi dei teatri e trovando annunciata per quella sera l’Aulularia di Plauto o la Mandragora di Machiavelli, si affrettasse a recarvisi, impavida, ingenua, col suo bel faccione sereno che sorrideva a tutti e solo restava immobile davanti alla malizia come fosse per lei di troppo difficile comprensione.
Ella si era volta a volta appassionata per la medicina omeopatica, Per la cura Kneib, per il regime vegetariano e per quello dei sanatori a base di aria ininterrotta. Il suo ultimo verbo era la ginnastica ame-ricana per dimagrare. La moglie del muratore che era scesa una sera tardi per farsi dare dello zucchero la sorprese con un leggero costume da bagno stesa bocconi sul pavimento, appoggiandovi sole le mani e la punta dei piedi, tenendo il corpo sospeso. Non si sbigottì affatto per l’interruzione; si alzò, diede lo zucchero e tornando a stendersi, questa volta sulla schiena, mosse lentamente le gambe sollevandole, prima la destra, poi la sinistra, poi tutte e due insieme. – È semplicissimo — spiegò con tutta serietà — quante donne dovrebbero adottare tale sistema per ridurre l’adipe, invece di stringersi nel busto o di prendere delle porcherie jodiche 1 Aveva un debole per le parole poco comuni. Parlando di un fanciullo che si rosicchia le unghie lo chiamava affetto da onicofagia e i piccoli ladruncoli erano sempre per lei dei cleptomani. Non si sarebbe in alcun modo adattata a parlare del terremoto se non chiamandolo moto tellurico e posta fra il dire: le chiedo scusa, o le chiedo perdono, sceglieva: le chiedo venia.
Unica fra tutti i vicini madama Cauda non aveva ancora avuto occasione di stringere conoscenza colla sua vicina più immediata, la bella sposa che abitava l’appartamento contiguo sullo stesso pianerottolo: ma per aver tardato non perdette la posta, che fu anzi quello l’avvenimento importante dell’anno.
Si era nei giorni più caldi dell’estate e la bella sposa in seguito a una terribile baruffa col marito, occasionata dal rifiuto di un abito nuovo, aveva incominciato a stracciarsi quello che aveva in dosso gridando che preferiva andar nuda piuttosto che mal vestita. Con tutte le finestre aperte i vicini poterono presto verificare il fatto che seguì da presso la minaccia e le ringhiere si popolarono di curiosi. Walter, da una specola, scelta con molto acume, sembrava divertirsi assai.
— Ah! ma è una immoralità! — esclamò madama Cauda — e siccome faceva parte della Società per la tutela dei buoni costumi, si attaccò vigorosamente al campanello della sua vicina, sbarrandone in pari tempo per prudenza la porta colla sua persona rimasta tondeggiante ad onta della ginnastica americana, ed entrando, quando si aperse, a guisa di una bomba.
— Ecco ciò che si chiama prendere d’assalto una posizione — pensò Walter — peccato che l'idea non sia venuta a me.