Il romanzo della fortuna/XI
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XI.
Alveare umano.
Fratello e sorella, all’ora consacrata per la chiusura del negozio, dopo che Giovanni aveva poste le asse sulla vetrina e la sorella immancabilmente gli domandava: — Hai chiuso bene? — uscivano cheti cheti e prendevano il bastione a destra per recarsi al loro alloggio.
L’alloggio — Chiarina si rifiutava a chiamarlo col nome intimo di casa — consisteva in due camere al terzo piano in uno di quegli immensi fabbricati moderni brulicanti di una popolazione eterogenea, rigurgito di ogni classe della società, con prevalenza di operai e di famiglie di piccoli impiegati venuti dalle provincie per esigenza di ufficio, formanti tutti insieme una popolazione mista, con usi, abitudini, dialetti differenti e tali da dare l’impressione di una città nella città.
Il fabbricato sorgeva tra Porta Ticinese e Porta Genova. Tutto bianco, di un bianco economico senz’ombra di colore, mostrava subito dall’esterno lo scopo di speculazione per cui era stato fatto, e benchè avesse qualche pretesa di lusso affidata a due balconi di pietra fiancheggianti la porta ed alla entrata col pavimento di mattonelle a rombi rossi e azzurri, l’aspetto generale era piatto, volgare, senza carattere. Formato di tre ali in muratura rizzavasi per l’altezza di quattro piani circondando da tre lati il cortile, il quale aprivasi dall’altra parte sgangherato e boccheggiante sopra un’area terrosa dove stavano erigendo una fabbrica e di dove venivano a tratti spinte dal vento colonne di polvere e di terriccio.
Se tutto in quella casa era troppo nuovo incominciando dall’intonaco, dai rombi, dai balconi, fino alla scala che slanciavasi ampiamente con intenzioni moderne care all’igiene, era però tutto così mal fatto e mal tenuto che già i rombi di mattonelle da rossi e azzurri che erano sembravano grigi e scomparivano sotto uno strato di melma perenne; le mensole dei balconi lasciavano scorgere le connessure grossolane; le branche della scala avevano una patina untuosa sparsa di gusci d’ovo, di buccie d’arancio e di castagne, di pezzi di carta, di sfilacciature di stoffa, di detriti casalinghi sfuggiti alla cassetta della spazzatura, di liquidi rovesciati ed altre traccie incerte che uomini, bimbi, cani, salendo e scendendo tutto il giorno in numerosa processione, si lasciavano dietro senza che la vigilanza del padrone (il quale non c’era) o la sensibilità dei pigionali (poco sviluppata) imponesse ad alcuno il benchè menomo ritegno.
Faceva da portinaia una erbivendola che aveva la sua botteguccia verso strada ed occupavasi molto più delle sue carote che della pulizia della casa; aveva anzi in proposito formulato un assioma che ripeteva a chiunque volesse intenderlo. Ella diceva che era inutile pulire dal momento che ricominciavano sempre ad imbrattare. Invano la signora del primo piano, vedova di un colonnello e che si faceva chiamare donna Ersilia, entrava da lei colle sottane tenute ben alte da terra e colla voce autorevole di chi ha visto comandare un reggimento le faceva i più aspri rimbrotti. La portinaia erbivendola, senza confondersi, dava mano alla granata e fingeva di andare a pulire le scale, ma il risultato più evidente era quello di aggiungere alla sporcizia di prima qualche foglia di insalata o delle radici fradicie cadute dal suo grem-biule.
Nei locali a terreno in fondo al cortile aveva piantato il suo laboratorio un lavorante di marmi, e la visuale immediata che si presentava a chi metteva piede sui rombi rossi e azzurri della soglia era una sfilata di lastre di bevola con qualche blocco di granito frammezzati da croci, da pile d’acqua santa, da arche funerarie tolte a vecchie chiese, ed altri simili oggetti allegri. Dall’apertura dello stanzone poi, dove lavorava lo scultore con un camiciotto di tela e un berretto di carta, si scorgevano appese ai muri mani e gambe di gesso, e tutto quel biancore terroso strideva nell’ampio cortile sgangherato a cui faceva da cortina finale l’edificio che si stava costruendo, grezzo ancora ne’ suoi muri di mattoni vuoti, colla sforacchiatura delle finestre fitte fitte, rincorrentisi senza tregua di spazio in cinque file serrate.
Nei giorni in cui ferveva il lavoro lo scalpello dello scultore picchiettava metodicamente, facendo sbalzare dal marmo le scheggie sottili, e dalla casa in costruzione rispondeva lo stridore delle carrucole, il tonfo delle assi cadute, il rauco chiamarsi dei muratori, mentre tutto all’ingiro il terreno sparso di cocci, di pietre, di mucchi di calcina sollevava ad ogni momento quelle nuvole dense che il vento di marzo, subentrato alle nebbie invernali, spingeva fino dentro al cortile.
— Vede bene — diceva allora la portinaia erbivendola piantandosi trionfalmente davanti alla signora del primo piano — che non si può tenere pulito qui. E donna Ersilia, che rappresentava in quella casa l’aristocrazia e il buon gusto, doveva accontentarsi della spiegazione.
— Il male è — suggeriva poi donna Ersilia alla signora che divideva con lei il privilegio di abitare al primo piano — il male è che in questa casa, tranne noi due, non vi sono persone distinte.
Ma la signora a cui veniva fatta questa insinuazione non sembrava affliggersi della mancanza. Sposa recente di un uomo molto più attempato di lei, veniva chiamata dal vicinato la bella sposa ed ogni sua cura era rivolta ad adornare codesta bellezza. Certo se donna Ersilia faceva sfoggio di vecchi abiti di raso e di vecchie pellicce di martora arrossata, la bella sposa aveva per lei le ultime stoffe venute di Francia e i collari di volpe azzurra, e non si preoccupava affatto se i suoi stivaletti dall’alto tacco urtavano qualche torso di cavolo qua e là. E siccome non c’era pericolo che rialzasse le vesti nel passare in mezzo a qualsiasi lordura, si malignava che lo facesse apposta per sciuparle più presto allo scopo di farne delle nuove.
Se questa era l’intenzione dell’elegante signora non sembrava però quella del marito, per cui le liti fiorivano fra i due coniugi più spesse che non le rose a maggio, e allora donna Ersilia, torcendo il naso e prendendo le sue arie da imperatrice, diceva alla portinaia: «Proprio, in questa casa, tranne me, non vi sono persone distinte».
Il secondo piano, anzichè in due, era diviso in tre appartamenti. Vi abitava il dottore del quartiere colla moglie e cinque piccoli bambini; gente modesta e operosa che si alzava di buon mattino, il dottore per correre alla sua condotta, la moglie per accudire a quei cinque bambini e alle faccenduole domestiche, aiutata appena da una ragazzetta del contado, a cui dava dodici lire al mese di stipendio, ma col permesso di portare gli zoccoli. Ella stessa si permetteva solo uscendo di mettere una calzatura rigorosa, per cui usava di tutte le risorse dell’economia per supplire all’abbondanza disastrosa di cinque figliuoli in sei anni di matrimonio; e per questo soleva in casa vestire assai dimessa, con certe casacche molto idonee a nascondere il petto rientrante e l’addome sporgente delle donne logorate nella eccessiva maternità.
Accanto al dottore viveva stretta in sei camere una famiglia numerosa di femmine vecchie e giovani, ma tutte orribilmente brutte e che dormendo a tre a tre trovavano modo di subaffittare la migliore e la più grande delle loro stanze a un giovane giornalista. Vi erano poi sullo stesso pianerottolo due camere separate dove appariva a tratti ora un uomo, ora una donna, e che rimanevano anche chiuse per intere giornate.
Il terzo e il quarto piano si trovavano disposti in altro modo. Invece del pianerottolo la scala metteva capo a una lunga ringhiera sulla quale si aprivano gli usci delle diverse abitazioni, quasi tutte di una o due camere occupate da operai e da piccoli impiegati, tutti carichi di figli, per cui le scale erano percorse continuamente da ragazzetti d’ogni età; e chi discendeva piano nella paura di cadere, chi correva, chi saltava, chi si metteva a cavalcioni del parapetto lasciandosi scivolare fino in fondo; chi, dovendo portare un involto od una cesta, preferiva ruzzolarla di branca in branca a pedate; chi zuffolava, chi rideva, chi piangeva, chi faceva correre le cicche (1) sul pianerottolo e i carrettini sulle ringhiere, chi si azzuffava negli angoli, chi pigliava improvvisamente una volata di scapaccioni da una madre inviperita con lungo seguito di rimproveri e di strida.
E questo era solamente il davanti della casa. In fondo al cortile, dove stava il lavorante di marmi, una seconda scala, più brutta e
(1) A Milano si chiamano cicche certe palline di vetro a diversi colori colle quali i ragazzi giuocano volentieri.
più sucida, accoglieva un altro brulichio di operai e di fanciulli, le grida dei quali si mescevano in alcune ore del giorno al rumore dello scalpello formando un ronzio indistinto e fastidioso.
Era in questa casa, in fondo alla ringhiera del terzo piano, che Giovanni aveva trovato due camere per sè e per la sorella. Ampie, chiare, pulite, non sfuggivano però alla legge comune per tutti gli altri inquilini del rumore e della polvere. Ciò che mancava sopratutto a Chiarina era un po’ di verde; da nessuna parte si scorgeva nè un albero, nè un cespuglio, nemmeno un vaso di fiori che sarebbero senza alcun dubbio intristiti in quell’aria polverosa; ciò le faceva rimpiangere la sua glicine di un tempo e i suoi bei garofani. Per consolarsi la vista con un po’ di verde naturale si doveva fermare qualche volta dinanzi ai ciuffi di insalata, ai sedani rigogliosi ed agli spinacci della portinaia.
Nelle loro nuove camere Giovanni aveva adattato per bene la vecchia mobiglia, non senza puntellarla qua e là e sorreggerla con viti e con chiodi. In quella dove dormiva Chiarina, che era la seconda, riunirono i mobili migliori il letto e il canterano della madre: e nella prima, oltre a un lettuccio per Giovanni, c’ erano gli attrezzi di cucina, una credenza e la tavola di legno bianco.
Ma questi poveri mobili portati via dalla loro cornice campagnuola non facevano gran figura nell’alloggio cittadino. Ogni mattina, spolverandoli accuratamente prima di recarsi al negozio, Chiarina pensava quanto sarebbe stata meglio in quella stanza, invece del misero lettuccio colla coperta gialla, una bella ottomana ricoperta di cretonne fiorata, e in luogo della tavola umile di legno bianco sulla quale tanto lardo era già stato battuto e tante minestre scodellate, un tavolinetto di legno di noce con un bel tappeto sopra.
— Ih! Ih! — faceva Giovanni udendo l’esposizione di questi sogni dorati: — bisogna essere ricchi per far ciò.
Intanto fratello e sorella vivevano con una sobrietà da trappisti. Il polentaio continuava a somministrare loro il pasto del mattino e alla sera Chiarina lasciava il negozio una mezz’ora prima per andare a casa a preparare la zuppa della cena.
Le ore più belle erano sempre quelle della sera, quando, accesa la loro lucernetta, se ne stavano tutti e due insieme e tranquilli a chiacchierare dei loro interessi. Chiarina approfittava di quelle ore per cucire e Giovanni, tra una chiacchiera e l’altra, leggeva o faceva conti o si divertiva a scarabocchiare sulla carta le caricature dei vicini.
— Lo riconosci il polentaio colla sua faccia furba di laghista (1) che dà sempre ragione a tutti facendo saltare i soldoni nella tasca del suo grembiule? Mi hanno detto che è proprietario di case in un quartiere lontano, sperando che nessuno lo sappia, così può continuare a lagnarsi del rincaro della farina.
E la nostra portinaia erbivendola non le somiglia? Eccola qui col suo pancione teso, le maniche rimboccate, i cernecchi grigi sulle orecchie dondolanti in misura co’ suoi panieri.
Guarda la signora del primo piano a destra. Una prugna gialla per faccia con un uccello nel mezzo che la becca, e questo è il naso: il parrucchino bianco, l’olio di ricino in bocca, le vesti in mano... non ci manca nulla.
Primo piano a sinistra. Marito immusonito con moglie che se ne infischia.
Secondo piano. Le bellezze della casa. Guarda e ammira. C’è anche quel pigionale... lo hai mai visto? Io lo incontro tutte le mattine. Dicono che è un anarchico; per questo gli ho fatto la testa in forma di bomba.
Chiarina ascoltava ridendo le spiegazioni di Giovanni, a cui i pensieri del negozio non toglievano il buon umore e che provava costantemente il bisogno di fare qualche cosa di nuovo nei momenti d’ozio, fossero pure gabbiette o caricature.
Un po’ prima delle dieci si coricavano. A quell’ora anche la portinaia spegneva il lume sulle scale e sbarrava la porta con un gran rimbombo di catenacci. Era la proclamazione della notte.
I rumori della casa tacevano allora. Il grande alveare sembrava ripiegarsi su sè stesso. Nel cortile deserto la luna batteva sui blocchi di granito, penetrava nella cavità suggestiva delle Arche mortuarie di dove erano fuggiti i cadaveri millenari, lambiva il fusto delle croci con bagliori argentini; e fuori, nell’area polverosa, il fabbricato in costruzione appariva gigantesco colle sue linee taglienti, colla sforacchiatura delle finestre penetrate a parte a parte dalla luna che vi creava giuochi di luce fantastici come dentro le occhiaie di uno spettro.
Tutti i fanciulli dormivano; chi nella sua culla, chi nel letto dei genitori, chi sopra due sedie accostate; e di quel gran mondo rumoreggiante non si udiva più neppure il respiro. Chiuse tutte quelle pupille sì acutamente investigatrici! Ferme sull’origliere le chiome ribelli! Riposanti alfine in attitudine di angeli scolpiti i corpicciuoli caldi di temerarie energie! I fanciulli dormivano.
(1) A Milano chi esercita questo mestiere è quasi sempre oriundo dai laghi di Como o Maggiore, dove gli abitanti hanno fama di astuti e destri.