Il romanzo d'un maestro (De Amicis)/Piazzena/VIII
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LA BATTAGLIA CAMPALE.
Da quello stato d’animo venne a toglierlo, verso la fin di settembre, la morte quasi improvvisa di don Pirotta. Già prima egli era in dubbio se, spirato il biennio, avrebbe rinnovato il patto col Municipio per altri due anni; ma, dopo quella morte, avendo subodorato che era intenzione della Giunta di cercare un maestro prete per raccogliere in una sola persona i due uffici, chiesto consiglio per lettera al suo protettore di ***, si licenziò spontaneamente, e pensò a provvedersi un altro posto. Questo licenziamento improvviso, appena risaputosi, ebbe per effetto di mitigare leggermente l’espressione di torvo rancore con cui il parroco gli rendeva il saluto, e di far sì che, a scuole incominciate, egli non gli facesse più sentire la sua inimicizia che come un brontolìo di tuono lontano, senza minaccia di immediata tempesta. Non solo; ma il maestro fu ben presto affatto dimenticato da lui, in conseguenza d’un avvenimento clamoroso, che restò nella storia del paese.
Poco prima che si riaprissero le scuole era ritornata da Torino, dopo un mese d’assenza, la maestra Fanari, con un vestito nuovo di lana grigia, filettato di raso, che aveva fatto senso nel paese, e con un viso fiorente e soddisfatto, con non so che di più morbido e di più guizzante in tutta la persona, ch’era una vera provocazione agli scrutatori del gran mistero. Qualcheduno aveva ben tentato di dar corso alla voce ch’ella fosse stata un mese a Torino per deporvi tutt’altro che il peso delle sue fatiche scolastiche. Ma la calunnia non aveva attecchito. E d’altra parte, a volerci credere, che sugo c’era? Significava riconoscere che la corbellatura, a cui il villaggio sottostava da un anno, era stata compiuta e coronata in tutte le forme. Il meglio, dunque, era di tornare alla vigilanza e alle ricerche, tanto più che pareva che ci fosse un filo. Una settimana dopo il ritorno della Fanari, sul far della sera, aveva fatto una breve apparizione al caffé un signore sconosciuto, con una bella barba bionda; il quale, uscendo, aveva infilato il vicolo dove abitava la maestra; e quella sera stessa, a notte, s’era visto la finestra della camera di lei, che sempre era rischiarata fino a tardi, chiusa con le imposte e tutta nera; e trovando naturalissimo quello che invece era inverosimile, s’era detto: son stati prudenti finora; ma dopo essersi visti un mese a Torino tutti i giorni, non potendo resistere alla troncatura dell’abitudine, hanno fatto una mattata, nasca che nasca. Ma tutto era rimasto lì. Per quanto presto fossero corsi alcuni la mattina dopo a far la guardia alle cantonate, non avevan visto uscir nessuno dalla casa. N’era uscita essa sola, all’ora solita, con quell’amore di vestito grigio, e aveva salutato le sentinelle con un sorriso gentile, sottolineato da quella diabolica smorfietta del labbro inferiore. Non importa: si sarebbe stati ancora a vedere. In quelle faccende, dicevano, rotto una volta il freno alla prudenza, ci si ricasca. Un giorno o l’altro si sarebbe fatta beccare, e allora le avrebbe scontate tutte assieme.
La notizia intanto era corsa nel villaggio e l’avevano portata al parroco, frangiata, con la speranza ch’egli tirasse dal pulpito una stoccatina, che avrebbe fatto un effettone. L’aspettazione fu delusa. Per quanto egli fosse ardito, gli era parso temerità, senza dubbio, di arrischiarsi a un’accusa così grave sopra un fondamento così incerto. Ma un altro fatto sopravvenne, che diede il tratto alla bilancia. Ricorreva nell’ottobre la festa patronale, con la processione solenne, in cui si portava in giro la statua della santa, ed erano ogni anno destinate a questo due contadinotte, scelte fra le più agiate e le più belle, chiamate priore, le quali usava che comprassero di borsa propria un gran velo di tulle, da ricoprire il crocifisso. Il parroco, che già da tempo vedeva male quella spesa morta, decise quell’anno di farla volgere a miglior uso, ed esortò le ragazze a rinunziare al velo e a dare il denaro alla cassa di San Pietro. Le ragazze titubarono, perchè con quella spesa facevan figurare le loro famiglie, e il velo più o men ricco era come un’insegna della loro dote; poi, per non metter tutto sulla propria coscienza l’atto del rifiuto, fecero come suol farsi in quei casi: andarono a chieder consiglio a chi erano certe che l’avrebbe dato conforme al loro desiderio, alla signorina Fanari, maestra delle loro sorelle. E questa non solo approvò il loro desiderio, ma suggerì all’una e all’altra le buone ragioni che avrebbero potuto addurre al parroco, quando un’altra volta, incontrandole, fosse tornato all’assalto: che, in fin dei conti, era un’ambizione lecita ed onesta, poichè non spendevano per adornar sè, ma per far onore al crocifisso; che s’era sempre usato così; che se avessero impiegato la somma altrimenti, non tutti l’avrebbero saputo o creduto, e sarebbero state accusate di pitoccheria; e che in ogni modo a smettere quell’uso non volevano esser le prime. Studiaron bene tutt’e due la lezione, e andarano senz’altro dal parroco a recitarla. Questi, che aveva buon naso, sentì subito che dovevano essere state imboccate, e invece di minacciar la scomunica, com’era suo costume, ringoiando la rabbia che gli veniva su, condusse bel bello le due ragazze a spiattellare il nome della suggeritrice. Allora scoppiò. Ah l’ebrea! La sfacciata framassona! Aveva deciso, dunque, di appestargli il paese! Aveva proprio giurato la guerra a Cristo e alla Madonna! Ah, era tempo di finirla! — La cosa si divulgò. L’anatema dal pulpito non poteva più mancare. La mattina della domenica la chiesa era affollata, e la folla in grande aspettazione. C’era, fra gli altri personaggi, il delegato, venuto con l’ingenua illusione che la sua presenza potesse tenere in rispetto l’oratore. C’era la maestra Fanari accanto alle sue alunne, tranquilla in apparenza, benchè guardata da tutti. E fu quella tranquillità coraggiosa che irritò più acerbamente il suo nemico. Anche il tempo era a tempesta: tremavan le vetrate della chiesa, sbattute da un vento furioso, che faceva un lamento d’anime dannate. Il parroco gonfiò il collo fin dall’esordio, benchè trattasse di tutt’altro che della maestra. Non s’eran mai viste le sue due antenne di braccia tagliar l’aria così impetuose e così rigide, nè i suoi capelli grigi agitarsi a quel modo intorno alla sua testa secca, come serpentelli furiosi. Ma non si tenne un pezzo fuori dell’argomento: si slanciò all’assalto tutt’a un tratto, perdendo subito le staffe. Non fu un’allusione coperta la sua, come altre volte; ma un’invettiva diretta e prolungata, a cui non mancava che il nome. “La maestra che semina l’irreligione.... che perverte il cuore delle fanciulle.... che non si farebbe neanche scrupolo di bere una scodella di brodo prima di accostarsi alla Santissima Comunione„.... — Ma disse di più: — la condotta losca.... le scappate alla città.... i forestieri misteriosi.... — Fin dalle prime parole tutti gli uditori s’erano rivolti a lei, che pareva impassibile. Poi, prolungandosi l’assalto, molti si alzarono in piedi, come per vedere una lotta a corpo a corpo. Le alunne guardavano impaurite il parroco e la maestra. Alle ultime parole, si levò un mormorìo. La maestra era diventata bianca come una morta; ma teneva sempre il viso alto, fieramente. L’agitazione dell’uditorio avvertì il parroco che aveva passato ogni misura, e allora mutò soggetto, bruscamente. Ma nessuno intese più il resto della predica, che terminò fra i rumori.
All’uscita, tutti si soffermarono sulla piazzetta, tenendosi i cappelli e le gonnelle, per veder passare la maestra, a cui il vento scoprì i piedini deliziosamente calzati, mentre usciva dalla chiesa. Era ancora pallida, ma s’era ricomposta, e si sforzava di riprendere il suo sorriso abituale. Per qualche momento le rimase intorno uno spazio vuoto; poi le s’avvicinò pel primo il Ratti, indignato, e dopo di lui il delegato, e qualche altro, che le espressero il loro sdegno e il loro rammarico mentre i curiosi facevano un arco di cerchio un po’ addietro, e alcune delle sue alunne, più vicino, piangevano. Essa non pronunciò che poche parole, con la voce un po’ tremula, ma in modo da farsi sentir tutto intorno: — Non c’è di che. Oggi stesso muovo querela. — E voltandosi al delegato, gli disse: — Lei sarà il mio avvocato. —
Il delegato fece una brutta faccia, che il maestro osservò, con disgusto. E non sbagliò nell’interpretarla. Egli aveva dinanzi uno di quei tanti liberaloni dei villaggi, i quali, nonostante la miscredenza ostentata e il vantato furore anticlericale, sono vili, all’occasione, davanti all’audacia del prete, che nel crocchio degli amici deridono; vili per timore della lotta, anche quando sentono la causa giusta: vili per la fiacchezza del loro sentimento patrio e della loro fede politica; vili per un resto di paura indeterminata ereditaria inconsapevole dell’inferno, di cui tremarono da fanciulli. E la famiglia di costoro, in quello come in tutti i villaggi, si estendeva da lui, avvocato e delegato, e da altri della sua classe, fino a quei contadini che, mangiando di grasso all’osteria il giorno di venerdì, e dicendo orrori, tra un boccone e l’altro, del parroco e della sua antica nipote sfrattata e dei contadinotti che gli rassomigliavano, nascondevano in furia sotto la tavola il piatto di carne, quando vedevan passare il tricorno davanti alla finestra. Nondimeno, poichè non poteva cavarsela, il delegato accettò l’incarico e riuscì a raggiustare la faccia, borbottando: — Mi metto ai suoi ordini, con molto piacere. — Dopo di lui, parecchi si offersero come testimoni, e la maestra, ringraziati tutti, e ripreso il suo bell’incarnato di rosa fresca, se n’andò a casa.
Per il paese fu un chiasso enorme. I giorni seguenti, mossi dalla paura d’uno scandalo, si misero di mezzo il sindaco, il soprintendente ed altri, per far recedere la ragazza e indurre il parroco a fare un passo avanti. Ma questi era ancora furibondo, quella rifiutò con alterezza. D’altra parte, era già uscita in un giornale di Torino una corrispondenza anonima, che rendeva impossibile alla Fanari di tirarsi indietro. E la querela, con grande amarezza del partito dominante, ebbe corso.
Il maestro, nuovo a quelle liti, s’indignava della condotta della gente. I più, anche ammettendo che il parroco avea fatto uno sproposito, biasimavano la maestra d’aver dato querela, come d’un eccesso d’audacia; perchè lo spettacolo d’una donna sola, che si difende arditamente, è umiliante per gli uomini che stanno a vedere. Dicevano: se il parroco è andato tant’oltre, è segno che ha tanto in mano da sostenere le accuse, almeno la più delicata. In generale, si desiderava che ne uscisse male la signorina. E il maestro, che, ancora semplice, non si poteva capacitare di quell’animosità, cominciava a domandarsi, con inquietudine, se ci fosse nella sua professione qualche cosa di antipatico o di malauguroso, perchè in quel caso, per esempio, tutti gli onesti non parteggiassero per la ragazza, come voleva il cuore e la ragione. Egli non capiva che la cagion principale dell’avversione era la stessa negli uomini e nelle donne: la certezza, cioè, che ella avesse un amante, e che di nascosto, e a dispetto loro, fosse felice; il che la rendeva più odiosa che non avrebbe fatto qualunque altra colpa o difetto, o anche azione dannosa a tutti. Una sola signora la proteggeva ancora dissentendo dal marito; la moglie del soprintendente pizzicagnolo, che s’era fatta nominare ispettrice, per andar a visitar le scuole ogni tanto, in pompa magna, quando aveva qualche cosa di nuovo da mostrare; e il perchè della protezione era questo: che la maestra, di cui ella stimava il buon gusto e l’educazione cittadinesca, accarezzava con arte fina, dissimulando la canzonatura, le due sue vanità principali, ch’erano di vestir bene e di aver garbo di gran signora. Questa sola non l’abbandonò; anzi le si mostrò più amica di prima, con una ostentazione d’indipendenza d’animo, che ammirava in cuor suo, come una prova di coraggio e di gentilezza veramente signorile: tanto è vero che procaccia amicizie più sode l’adulazione che l’affetto. Tutte le altre la scansavano, per timor sincero o finto che potesse uscir fuori dal processo qualche rivelazione scandalosa. Essa, però, continuava a far le sue gite a Torino, e aveva ripreso il suo sorriso tranquillo e vagamente altero di amante soddisfatta; ciò che pareva il non plus ultra dell’impudenza. — Bisogna che sia bene arrabbiata d’amore — dicevano, trangugiando un’acquolina amara — per arrischiarsi in quella maniera! — E le notizie dell’andamento della causa erano raccolte man mano con grande avidità. L’affare era passato dalle mani del pretore in quelle del sostituto procuratore del re del circondario. Il parroco aveva preso un avvocato in città. Erano stati chiamati dei testimoni. Infine, fu fissato il giorno per il dibattimento. Molti avevano deciso d’andarvi ad assistere. Il parroco e la maestra partirono, a ore diverse, due giorni prima.
Ma la mattina stessa della gran giornata si diffuse per il paese una notizia strepitosa. Il dibattimento non si faceva più. Gli avvocati avevano indotto le due parti a un componimento, e questo era una solenne sconfitta per il parroco. La maestra ritirava la querela, ed egli le pagava un’indennità di mille lire, rilasciandole una dichiarazione scritta, nella quale protestava in termini netti ed espliciti di non aver avuto nemmeno la più lontana intenzione, con quelle parole un po’ vive, ma ispirate da puro zelo per l’insegnamento religioso, di intaccare la sua onoratezza.
Fu un colpo sbalorditoio. La maestra ritornò a Piazzena coi suoi begli occhi amorosi, senz’aria di trionfo, però, e riprese a far scuola il giorno dopo, come se nulla fosse accaduto. Il parroco si tenne nell’ombra per un po’ di tempo. L’atto di ritrattazione fu pubblicato in un giornale, di cui arrivarono nel villaggio varie dozzine di copie, che passaron per tutte le mani. Insomma, fu un trionfo compiuto. E allora accadde quel che doveva accadere. Visto il parroco umiliato e i suoi fautori con le orecchie basse, il partito contrario, che pure aveva lasciato la maestra nelle peste innanzi al pericolo, s’andò a congratulare con lei vistosamente, e alzò le corna contro al nemico che si nascondeva. Ah! era tempo di parlar chiaro, alla fin delle fini! Quel prete indemoniato avrebbe condotto il comune alla perdizione. Non più tardi d’un mese, ancora, non aveva indotto il sindaco, avvisato dell’imminente passaggio di due squadroni di cavalleria, a rispondere alle autorità che era impossibile di alloggiarli, per mancanza di paglia e di foraggi, mentre il paese ne abbondava; obbligando così la truppa a passare altrove, con grave danno del comune; e ciò sotto il bel pretesto che i soldati “portano l’immoralità„ nelle campagne? E quell’altra porcheria di farsi pagare sessanta centesimi i certificati di nascita delle persone nate prima del 1866, in barba all’articolo 147 dell’ordinamento dello Stato civile? E l’infamia di far seppellire i bimbi morti senza battesimo nel piazzale dietro alla chiesa? E quell’imbroglio del legato della contessa? E tutto il passato suo era ribruscolato, fino ai due contadinotti e alla monaca smonacata, e gl’inveivan contro ad alta voce nei caffè e nelle botteghe, minacciando di dargli qualche tient’a mente solenne, appena rimettesse il muso fuor dell’uscio.
Con tutto questo, due settimane dopo, il parroco e il vice parroco tornavano a passeggiare per il paese, l’uno col cappello sulla nuca, l’altro col cappello sull’orecchio, riguardando i nemici col cipiglio antico, e ricevendo le stesse stessissime scappellate di prima, anche da quelli che avevan gridato più forte contro tutti e due. Solamente, per tutto quell’anno, non s’intromisero più nelle scuole. E il giovane maestro non ebbe nemmen più noie dal sindaco per la scelta dei temi. Egli aveva concorso nel frattempo a un posto nel comune di Altarana, un villaggio di montagna, dove un sindaco democratico e innovatore voleva un maestro giovane, e grazie a una raccomandazione indiretta della famiglia Goli, l’aveva ottenuto. Era sicuro del suo pane e non cercava altro.