Il romanzo d'un maestro (De Amicis)/Piazzena/IX
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L’ISPETTORE CRITICATUTTO.
E visse in pace fino alla nuova visita ispettorale. Ebbe allora il doppio dispiacere di non riveder più il suo buon ispettore di Garasco, ch’era stato traslocato dal capoluogo del circondario, al solito, per urti avuti con le autorità, e di esperimentare nel peggior modo gli inconvenienti della mutazione. Il nuovo ispettore, un uomo sui quarant’anni, piccolo, con un pizzo alla napoleonica, e tutto vestito di nero, col velo di lutto al cilindro, non era soltanto il rovescio dell’altro per indole e per maniere, ma anche nelle idee, e, forse per proposito per coscienza, in tutte le idee, e quello che più turbò il maestro, aveva un linguaggio lucido e acuto, che mostrava ingegno, e feriva alla radice tutti i suoi dogmi didattici. Egli entrò nella scuola, trascinandosi dietro come uno stato maggiore il sindaco, il soprintendente, il delegato, e un giovane sconosciuto, di cui non si capiva l’ufficio, e pure non rimproverando il maestro, gli trovò a ridire su ogni cosa, trovò tutto male, tutto da rinnovare ab imis fundamentis.
Inteso un pezzo di lezione, che interruppe a mezzo d’un periodo, domandò al maestro: — Dunque, ella segue il metodo interrogativo?
Il maestro espose la sua idea: usava l’uno e l’altro metodo, l’espositivo e l’interrogativo o soggettivo, secondo i casi; li alternava, ma dando la preferenza al secondo, specialmente con gli alunni di 1a. Così faceva da due anni, e non se ne trovava mal soddisfatto.
L’ispettore scrollò il capo. Egli era assolutamente contrario al secondo metodo, che non tirava su che dei cianciatorelli presuntuosi. Era tempo buttato via. Due su dieci ne profittavano, gli altri facevan da pappagalli, indovinando la risposta dalla domanda. Era un vero palleggio di ciancie; un metodo comodo, senza dubbio, per il maestro; ma che aveva fatto il suo tempo. La scuola la doveva fare il maestro solo, e non tutta la classe con lui, con certi dialoghi che somigliavano alla conversazione d’un uomo con l’eco. Il maestro doveva parlar sempre, ripetendo quanto occorreva, e perfezionandosi quant’era possibile nell’arte d’esporre; e come gli alunni dovevano imparar tutto dalla bocca di lui, così non trattati, non sunti, non copiature. La gran maestra, l’unica maestra, la voce.
Poi, avendolo tastato sull’argomento dell’educazione, gli domandò con leggera ironia: — Ella dunque studia i caratteri?... E lavora i cuori, per conseguenza. — E anche su questo aveva delle idee opposte, ma opposte affatto. Secondo lui, il maestro aveva da insegnare, e nient’altro. Tutto il tempo dedicato, come s’usava, a modellar le anime, era tempo rubato, senz’alcun frutto, all’istruzione. Il maestro non poteva fare nè il padre, nè la madre, nè il direttore spirituale: era un fabro d’intelligenze, e nulla più; e gli pareva che bastasse. D’altra parte, non c’era altra educazione che l’esempio; fuor del quale, non si facevan che chiacchiere su chiacchiere, che passavan per il ragazzo come l’acqua per le grondaie. — L’uomo — concluse — non lo forman che la vita, le passioni, i bisogni. Ella crede di educare un uomo su quei banchi, e lavora sopra una creatura ipotetica, che la crisi della pubertà, e la prima esperienza dell’amore, dell’ambizione e della passion del danaro, — le tre grandi prove, — trasformerà tutt’a un tratto, fuori di tutte le previsioni umane. Dunque, fiato perso.
Fece qualche interrogazione: gli alunni risposero. Ma egli notò che “recitavano„ e disse al maestro: — Faccia studiare a memoria il meno possibile. Si ricordi del motto del Rutich: — la recitazione a memoria è un oltraggio alla natura e alla ragione. — Diede un’occhiata ai componimenti, e condannò l’abuso dei componimenti nelle scuole elementari: era inutile far faticare i ragazzi a esprimer delle idee che non hanno: era come esercitarli a vestire il vuoto. Biasimò anche i temi patriottici, perchè non bisognava legar nella mente dei fanciulli al concetto della patria e d’altre grandi cose l’idea d’uno sforzo intellettuale, che le rendeva loro odiose o indifferenti per abitudine. Fece leggere, e criticò l’ortofonia; i cui difetti derivavano da un incompleto sistema ortografico, ed esortò il maestro a adottar l’uso di indicare il doppio suono alla s e alla z, e di segnare l’accento tònico così sulle parole piane che sulle sdrucciole. Gli annunziò in ultimo la pubblicazione prossima di una sua circolare, nella quale avrebbe esposte tutte le sue idee. Insomma, il mondo da rifare. E, lasciando il maestro con l’anarchia nella testa, se n’andò, seguito dal suo corteo.