Il romanzo d'un maestro (De Amicis)/Piazzena/VII
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LA VITA DEL VILLAGGIO.
Dopo la visita dell’ispettore il maestro ebbe un periodo di pace, durante il quale, peraltro, gli parve varie volte che il vice parroco lo pedinasse alla lontana, dopo l’ave maria, per scoprire se avesse qualche mala pratica notturna; mentre che il parroco, dal canto proprio, seguitava a sbraitare nelle famiglie contro i suoi temi patriottici, ch’egli chiamava pulitamente saloparie, strigliando anche il delegato e l’ispettore. E intanto durava sempre la guerra tra lui e la maestra Fanari, la quale, avendole egli tirato un’altra botta dal pulpito per l’affare della bandiera, aveva pacatamente dichiarato e fattogli sapere che, a una nuova provocazione, gli avrebbe mosso querela per ingiurie pubbliche; ed egli aveva riso rumorosamente della minaccia, in piena sagrestia. Le ostilità, nel frattempo, consistevano nel passarsi accanto senza guardarsi, ma credendo ciascuno d’esser guardato dall’altro, e sorridendo perciò tutti e due, lui in atto di sfida, lei d’ironia, con gli occhi per aria. E il villaggio aspettava una battaglia, continuando le chiacchiere e le ricerche intorno al mistero delle scappate a Torino.
Vennero gli esami, e avendo il maestro superato con fortuna la prova del catechismo, alla quale il parroco assistette in atteggiamento minaccioso, potè dire d’aver sbarcato il primo anno scolastico senza tempeste. E allora decise finalmente di mettersi a studiare di proposito, per tentare poi gli esami di concorso alle scuole municipali di Torino: che era sempre stata la sua ultima mira, fin dalla Scuola. Oramai il suo tirocinio di maestro lo poteva considerare compiuto; non aveva, pel momento, alcun sopraccapo; di villeggianti, intorno al paese, non veniva che qualche famiglia di piccoli bottegai di Torino; tutto era favorevole allo studio. Tirò fuori i suoi trattati e i suoi quaderni, e incominciò.
Ma fu stupito, fin dai primi giorni, di non trovar nello studio alcun piacere, e di stentare ad apprendere più che non gli fosse mai accaduto. Attribuì questo stento a un principio di pigrizia intellettuale contratta nella consuetudine dell’insegnamento; la quale gli rendesse difficile di spingere il pensiero fuori del giro a cui aveva da due anni l’andare. E persistè, sperando di vincere. Ma passarono le prime settimane, ed egli continuava a studiare senza vigore e senza profitto, come se il suo cervello fosse annebbiato. Non sapeva, da principio, esprimere a sè stesso lo stato del suo spirito. Era una noia che gli entrava in casa per la finestra, che gli penetrava nell’anima insieme col silenzio e con la quiete del villaggio. Questo era quieto, infatti, come una trappa. Non c’era che un fremito di vita nella piazza, intorno alla farmacia, all’ora della distribuzione mattutina della posta: venti o trenta persone con giornali o lettere in mano, che facevan crocchio o s’accompagnavano per qualche minuto, e poi si davano il buon giorno, e sparivano di qua e di là. Dopo, per ore ed ore, soprattutto i giorni di sole, non si sentiva più nulla: tutte le porte e le finestre rimanevan chiuse o socchiuse, e pareva che non solo nel villaggio nessuno dovesse più muovere, ma nemmeno pensare, e non vi fosse più altro di vivente che le mosche. In quella quiete, di cui ogni più leggiera interruzione faceva il senso d’un grande strepito, aveva preso anch’egli il vezzo di correre alla finestra, spinto da una curiosità fanciullesca, ogni volta che sentiva il rumore d’una carrozza, e di tender l’orecchio avidamente a ogni parola che udisse sonar nella strada. Anch’egli aveva imparato a conoscer l’ora delle abitudini di certe persone, che eran come lancette d’orologio; e dal suo tavolino riconosceva il picchio del bastone del sindaco sul ciottolato, il tacco frettoloso della moglie del pretore, i colpi di tosse baritonale dell’organista, il passo dei carabinieri, e altri piccoli rumori che, in quei dati momenti, lo riconducevano sempre agli stessi pensieri. Due o tre risate grasse che sentiva fra le quattro e mezzo e le cinque dal caffè vicino, sapeva che erano dell’esattore, il quale si soffermava lì ogni giorno a raccontare le balordaggini della sua serva montanara. Gli pareva di sentire a ore fisse persino il raglio d’un somaro che sonava a quando a quando da un capo all’altro del paese, come lo sbadiglio formidabile d’un gigante annoiato. Nè s’annoiava meno stando in compagnia, poichè trovava nella vita del pensiero la stessa quiete, la stessa monotonia che nella fisica. Erano dialoghi interminabili sulla bontà comparata delle acque di due pozzi, descrizioni d’un’ora che faceva l’uno d’un nuovo sistema di purgatorio fatto fare nel suo cortile, l’altro del modo come s’era sbarazzata la casa dei topi, o discussioni minute intorno a una recente modificazione d’una legge d’imposta, troncate la sera e riattaccate la mattina dopo, portandovi ogni giorno ciascun disputante un nuovo argomento, a cui l’avversario cercava poi nuove obbiezioni quand’era solo. Arrivava a tal segno l’inerzia intellettuale in alcuni, che andando a prendere la mattina quell’unica Gazzetta da cui avevan notizie del mondo, se la ficcavano in tasca, e non la leggevano che la sera. Alcuni anche non aprivano nemmeno quella, e si facevan dare a voce le notizie dai conoscenti. C’era un consigliere che leggeva soltanto la “temperatura delle città principali„ facendo ogni giorno la stessa esclamazione di maraviglia sui gradi di Cagliari e di Firenze. Con nessuno di tutti costoro poteva il maestro parlare dei suoi studi, e nemmeno di libri in generale. Non c’erano che due o tre famiglie che compravano qualche libro nuovo di letteratura, ma con un criterio singolare: badando più alla speciosità del titolo che al nome dell’autore; ed anche, avendo stabilito di spendere in libri ogni anno quelle cinque o sei lire, tralasciavano di comprarne se accadeva loro durante l’anno una piccola disgrazia, come lo scoppio d’una mezza dozzina di bottiglie di vin bianco o la perdita d’un albero da frutto spezzato dal vento.
E pure lo stupiva e lo urtava la severità straordinaria, maggiore assai di quella della gente colta delle città grandi, con la quale sentiva in quelle poche famiglie giudicare gli autori che leggevano; la strana confusione che facevan degli eccellenti coi mediocri; il grande conto in cui erano tenuti certi oscurissimi scrittori regionali, ed anche scribacchianti nulli del capoluogo di circondario, mentre erano ignoranti affatto degli scrittori di primo ordine d’altre parti d’Italia.
Pareva che ostentassero una certa brutalità nei giudizi, per mostrarsi indipendenti dall’opinione stabilita, e allontanare il sospetto che nei villaggi, non sapendosi giudicare di certe cose col proprio capo, si andasse a rimorchio delle grandi città. La moglie d’un consigliere, che aveva fatto il viaggio di nozze nel Lombardo-Veneto, diceva con un atto altero e ostinato del capo che non le era piaciuta “niente„ Venezia.
Con gli uomini, poi, egli trovava ancor più difficoltà che con le donne a tirarli fuor dei discorsi abituali, e più di rado gli occorreva di vedere che s’accalorassero per uno di quegli avvenimenti o una di quelle quistioni per cui s’appassionano gli abitanti delle città, anche minori.
Persino a quella grande quistione sociale, a cui egli rivolgeva spesso, sebbene vagamente, il pensiero, li trovava quasi tutti, con sua gran maraviglia, indifferenti; o fosse perchè, stando fuori della strada maestra del paese, non temessero d’essere raggiunti da alcuno degli effetti immediati e più gravi d’un qualsiasi rivolgimento; o perchè, non conoscendo da presso la vastità e la potenza delle forze ostili, non rappresentate nei villaggi che da un minimo numero e da elementi sparsi e tranquilli, ritenessero quasi fatalmente invulnerabile quella rocca dello Stato che di lontano appariva ai loro occhi enorme, coi merli nelle nubi.
Da nessuna parte, insomma, a nessun proposito, giungeva al suo spirito giovanile una scintilla di passione, la scossa d’un’idea, un stimolo qualunque agli studi. Tutto questo avrebbe rinvenuto nella lettura di quei libri nuovi e caldi che sono come aliti e pulsazioni della vita nazionale. Egli ne trovava bene i titoli e dei cenni nei giornali che scorreva, e ne aveva gran desiderio; ma erano a lui quello che sarebbero dei fagiani dorati a un cacciatore senz’arma; ciascuno di essi gli sarebbe costato due giorni di stipendio, ed egli avrebbe dovuto, per comprarli, assottigliare ancora quella magra porzione di lesso, che bastava appunto a tenerlo ritto. E ai pochi che avevan di quei libri, non avrebbe mai osato di chiederli, anche per timore che lo accusassero di trasandare i suoi studi didattici per letture di fantasia; nè sarebbe stata nuova l’accusa.
Il solo a cui avrebbe potuto ricorrere, anche per imparar qualche cosa conversando, don Pirotta, già malato dall’ottobre scorso, era andato sempre peggiorando verso la fine dell’anno scolastico. Il delegato non aveva che diciassette volumi scompagnati e mancanti di pagine della Storia universale del Segur, e non parlava mai altro che di maestrine.
Gli rimaneva la maestra Manca, dalla quale andava qualche volta; ma la sua intelligenza e la sua cultura erano chiuse da molti anni nello stretto cerchio della scuola, come il suo corpo di monaca nel suo vestito scuro e dimesso, e quando il discorso ne usciva, essa non faceva più che la parte di ascoltatrice. Il maestro era solo, e si trovava in una specie di stato d’inedia dell’anima in cui la sua mente, infiacchendosi, si lasciava andare a poco a poco a una fantasticaggine oziosa, che gli lasciava dentro la stanchezza del lavoro e la vanità e lo scontento d’un sogno. S’annoiava e s’inaspriva. C’era di fronte alla sua una finestra, alla quale stava affacciato per ore ed ore un vecchio malaticcio, coi gomiti sul davanzale e il mento tra i pugni, a guardar nella strada, dove passava ogni mezz’ora una persona e un carro ogni mezza giornata; il che bastava ad occupare la sua mente. Quel vecchio era per lui l’immagine incarnata del villaggio. Qualche volta quegli alzava il viso e lo guardava, tirando uno sbadiglio, e il maestro pure sbadigliava. E allora, all’idea di dover viver così per molti anni, assalito quasi da un senso di terrore, pigliava il cappello e scappava pei campi, come per sfuggire al fantasma del suo avvenire.