affaretto delicato. Venne finalmente ancora una volta il solito messo, con un’aria umile che doveva rifletter l’animo della padrona, a pregar con insistenza il maestro che facesse il favore a andare per un solo momento dalla signora, che era molto addolorata e che aveva da dirgli una cosa di molta importanza. La Falbrizio aveva parlato. Il maestro andò.
La signora era addolorata davvero, poichè non aveva già offeso il giovane per alterigia, ma per non aver idea nessuna del grado che un maestro occupasse sulla grande scala delle persone a cui si dà del danaro in cambio d’un servizio; le quali persone essa confondeva tutte, per ignoranza, in una classe sola, come il selvaggio che non fa differenza fra una cazzaruola e un barometro. Per questo, inteso che ebbe dalla Falbrizio specificare i propri torti, sebbene la maestra ostentasse per adulazione di riderne, ed essa medesima non comprendesse le cose in tutta la loro delicatezza, pure ne ebbe rimorso e vergogna, come voleva la sua natura semplice, e inclinata alla benevolenza, e decise di riparare al mal fatto, a qualunque costo. Il maestro andò da lei con ripugnanza, pensando di dover passare davanti alle persone di servizio, che forse sapevano tutto, e che avrebbero sorriso del suo ritorno di servitore riabilitato; ma guardando dal cancello del giardino, e non vedendo nessuno, si rincorò: tutto il servitorame era a cena, e i ragazzi schiassavano nelle stanze di sopra, con la maestra di pianoforte. Entrato appena, vide sbucar dal padiglione la signora, che gli venne incontro con la mano tesa, un po’ rossa in viso, e fissandolo con espressione d’ansietà. — Ah signor maestro! — gli disse, — ho avuto tanto dispiacere! un vevo, vevo dispiacere, mi creda! — Ma non sapeva trovar parole per scusarsi, e in verità non ce n’erano: non avrebbe potuto rimestar quell’argomento senza offendere il maestro un’altra volta. Per pigliar tempo a trovar qualche frase, lo fece entrare e sedere nel padiglione, sopra un divano di paglia che girava intorno, di contro alla luce rossa del tramonto che entrava fra le stecche delle persiane chiuse. E là cominciò ad affastellar parole che non dicevan nulla o dicevan troppo, rifacendosi da capo dieci volte. — Un vevo dispiaceve, mi creda! Se avessi potuto pensare!... Ma immagini un poco se potevo aver
Il romanzo d’un maestro. — II. |
|
3 |