Il re della montagna/15. Il ferito
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Cap. XV.
Il ferito.
Le stelle cominciavano ad impallidire in cielo, mentre una luce biancastra s’alzava sopra le immense pianure del levante, destando le aquile ed i falchi, che riprendevano i loro arditi voli negli spazi celesti, quando i due montanari, portando il giovane Re della Montagna, accuratamente avvolto in uno splendido scialle di Cascemir, giungevano dinanzi ad un modesto abituro piantato sulla cima di una rupe isolata, a poche centinaia di passi dalla zona nevosa.
Un silenzio assoluto regnava in quell’alta regione della gigantesca montagna. I rumori della pianura, in mezzo alla quale biancheggiava la capitale del potente sciàh, non giungevano fino a quelle vette, ed il vento non trovava boscaglie, nè cespugli da susurrarvi dentro.
Perfino le aquile ed i falchi si tenevano lontani da quelle rocce nude e scabre, che non offrivano selvaggina, e non salivano fin là a far udire i loro squittii e le loro rauche e discordi grida.
I due montanari si arrestarono un istante, spaziando gli sguardi sospettosi sui fianchi della montagna gigante. Giù in fondo alle valli, che scendevano nella pianura, una massa nera calava frettolosamente, scomparendo sotto i cupi boschi e riapparendo sui sentieri: erano i rapitori, le guardie che lo sciàh aveva scagliate contro il vecchio castello dello sventurato giovane e che riportavano a Teheran la fanciulla. Più sopra, fra le boscaglie e le rocce, un nuvolone di fumo, che di quando in quando si tingeva di rosso e s’alzava vomitando ondate di scintille, indicava il luogo ove sorgevano le grosse torri. Più lontano, giù in fondo, verso il nord-est, una superficie bruna che si tingeva di azzurro, con dei riflessi madreperlacei, indicava il mar Caspio.
Il vecchio Mirza crollò il capo, tergendosi due lagrime che gli rotolavano giù per le gote, e mormorò:
— Povera fanciulla!... Mio povero Nadir!... Quale terribile colpo per entrambi!...
— Entriamo, vecchio amico — disse Harum. — Mi pare che Nadir torni in sè.
— Dio sia ringraziato — disse Mirza. — Speriamo di salvarlo.
Entrarono nel tugurio. Era una specie di capanna costruita con tronchi d’albero, portati lassù chissà con quante fatiche, a due tetti pioventi coperti di foglie e di enormi sassi, perchè potessero resistere ai furiosi venti della montagna.
Nell’interno vi erano due vecchi divani, delle pelli di onagro, delle corna di egagro, alcuni falchi incappucciati posati su dei bastoni e trattenuti da catenelle d’acciaio, adoperati per le cacce degli uccelli; un moschettone ed alcuni kandjar.
I due montanari deposero con infinite precauzioni Nadir su uno dei due divani, poi, accesa una lampada, lo esaminarono con ansietà. Il giovane Re della Montagna respirava ancora; ma il suo viso era pallido come quello d’un morto, i suoi occhi infossati, i suoi lineamenti alterati da un dolore intenso. La sua splendida giubba di broccato era lorda di sangue, e così pure i suoi calzoni di seta e la larga fascia che cingevagli i fianchi.
Mirza gli tolse le fasce che coprivano il petto, e che gli aveva messe durante la salita della montagna per arrestargli il sangue, e mise allo scoperto la ferita.
Era orribile: la larga sciabola del cavaliere del re, dopo di essersi arrestata sulle robuste costole del giovane montanaro, aveva squarciato il petto in senso verticale per una lunghezza di venti centimetri. Il sangue, non più frenato, subito zampillò con gran violenza, fuggendo sotto la camicia di seta del ferito.
— Dammi un po’ d’acqua – disse il vecchio ad Harum.
Il montanaro gli porse una tazza ed un pezzo di seta strappato dalla camicia del giovanotto. Mirza lavò accuratamente la ferita, ricongiunse con mano abile le carni squarciate, poi frugò nella cintola e levò un astuccio d’oro, adorno di zaffiri.
— Che cosa fai? — gli chiese Harum.
— Tengo qui un rimedio prezioso, che i soli sciàh posseggono — diss’egli.
— Che cos’è?
— Della mummia.
— Non ti comprendo.
— Ti spiegherò dopo.
Aprì l’astuccio e levò una materia nera, somigliante ad una specie di bitume, e la stemperò sulla ferita, che poi fasciò lestamente, senza che più uscisse una goccia di sangue.
— Guarirà? — chiese Harum.
— Lo spero — disse Mirza, ricoprendo il giovanotto col Cascemir. — La ferita è stata tremenda, ma la lama di quel miserabile cavaliere non ha intaccato alcun organo importante. Temevo che avesse leso un polmone; ma ora sono tranquillo, e la mummia farà in breve la sua opera miracolosa.
— Ma che materia è quella?
— È un farmaco assai efficace per rimarginare le ferite. Lo si raccoglie in certe caverne dei monti Elburs, che gli sciàh fanno rigorosamente custodire e che serbano per loro e pei principi loro amici o di sangue reale. Ho trovato questo astuccio fra i tesori dello sciàh mio signore, e lo conservo gelosamente.1
— Che farà Nadir quando sarà guarito? Povero giovane!... Sarebbe stato meglio che non fosse mai disceso a Teheran a salvarmi la vita!...
— Quando sarà guarito, Fathima non sarà più sua, Harum — disse il vecchio piangendo. — Impazzirà di dolore, questo disgraziato ragazzo. Quale terribile fatalità pesa sulla sua famiglia!... I suoi genitori assassinati, il trono occupato da un usurpatore, e lui qui, ferito, vinto, col cuore spezzato!... Maledetti!... Un giorno Dio vi punirà!...
— Sono troppo potenti, Mirza. Che cosa rimane a Nadir ormai?...
— Là, fra le rovine del castello, sono sepolti i tesori del mio padrone e signore. Raduneremo un giorno i montanari tutti, ed una notte anche noi, assieme ai curdi che assolderemo e alle tribù degli illiati che armeremo, irromperemo su Teheran, ed i traditori morranno!...
— Vi sono dei tesori favolosi adunque nei sotterranei del castello?
— Il tesoro dello sciàh assassinato: oro a montagne e forzieri ricolmi di diamanti. Basterà uno solo, la luna della montagna2, per corrompere i curdi e gli illiati non solo, ma anche le tribù belligere degli Jakaroubâh e dei Kadjars.
In quell’istante sfuggì un gemito dalle labbra del ferito. Mirza ed Harum si curvarono premurosi su di lui.
Nadir aveva aperti gli occhi e li fissava su di loro; stette un momento a contemplarli, poi tese le braccia ed afferrò le loro mani, stringendole. Due lagrime gli spuntarono sugli occhi e scesero lungo le sue pallide gote.
— Fathima — mormorò con un filo di voce.
— Taci, figliuol mio — disse Mirza, singhiozzando.
Nadir emise un profondo sospiro ed una cupa fiamma gli illuminò lo sguardo.
— Me... l’hanno... rapita — mormorò.
Uno spasimo supremo alterò i suoi lineamenti, e si strinse il petto con ambe le mani, raggrinzando le dita sulle fasce insanguinate.
— Rapita — riprese con voce sorda. — Ove... sarà... la mia Fathima?...
— Taci, Nadir — ripetè Mirza.
— Fatalità – continuò lo sventurato. — Cosa avevo... fatto io a costoro... perchè me... la rapissero?... E mi hanno... incendiato il castello... mi hanno ferito... spezzato il cuore... Meglio se mi avessero... ucciso!... Teheran... città fatale... non ti avessi mai veduta... non sarebbe ora distrutta... la mia felicità...
— Nadir! — esclamò Harum, che piangeva come Mirza. — Sì, è mia la colpa, ma io ignorava il destino tremendo che ti doveva colpire. Se non per me, mai forse avresti lasciata questa montagna!
Ma Nadir non lo ascoltava. Il pensiero dello sventurato vagava lontano, lontano.
— Ti vedo — riprese, con voce morente. — Ti rivedo... o mia adorata fanciulla... nella stanza colle cortine di seta azzurra... bella come una dea scesa dal cielo... come un raggio di sole... Mi guardavi... mi dicevi che ero leale... che ero il tuo Nadir... E me l’hanno rapita!... Città fatale che mi hai sedotto... che m’hai attirato fra le tue spire!... La montagna non bastava a vent’anni!...
Un singhiozzo gli soffocò la voce.
— Basta, Nadir — disse Mirza. — Disgraziato, vuoi farmi morire di dolore? Vuoi che questo povero vecchio, il quale ha affrontato tante bufere, ed ha veduto cadere attorno a sè tutti quelli che amava, e conosce i traditori, gli assassini, muoia prima di vendicarti?
— Vendicarmi!... — esclamò Nadir con voce rauca. — Chi è che parla di vendicarmi?... Che vale la vendetta... ora che la donna che amavo è perduta... per me... e per sempre?... Maledetto è il mio destino!... Lasciatemi morire... qui... sulla mia montagna!...
— No, Nadir, bisogna vivere — disse Mirza. — Un giorno noi ridiscenderemo a Teheran, non più vinti, ma vincitori.
— Laggiù... a Teheran! — esclamò Nadir con un triste sorriso. — Teheran!... Teheran!.. Quanto mi costa una tua visita!... Meglio sarebbe stato... che mai avessi lasciato la mia montagna... che mai avessi veduto i cavalieri del re... caracollare per la tua pianura... che mai avessi mirato i bagliori... delle tue cupole dorate... e che mai quella voce misteriosa... m’avesse susurrato... che la montagna non mi bastava...
Poi fu preso da un impeto di furore e cercò di strapparsi le fasce che gli coprivano la ferita; ma Mirza ed Harum lo trattennero. Lo sventurato giovane, in preda ad un delirio spaventevole, non riconosceva più i suoi amici e non udiva più la loro voce.
Si dibatteva come un forsennato, tentando di gettarsi giù dal letto, e invocava con voce straziante l’adorata fanciulla, che in quel mentre le guardie dello sciàh traevano a Teheran. Quell’accesso però fu di breve durata; a poco a poco le forze gli vennero meno e si assopì profondamente, o, meglio, fu colto da una specie di svenimento che gli durò parecchie ore.
Quando si risvegliò pareva più tranquillo. Sorrise tristamente a Mirza e ad Harum, che non lo avevano lasciato un solo istante, poi si rinchiuse in un feroce silenzio e non parlò più nè della fanciulla, nè di Teheran, nè dei rapitori, nè del suo castello.
Alla sera i superstiti della terribile pugna giunsero alla capanna. Erano sedici, per la maggior parte feriti: si erano salvati balzando dalle finestre del fiammeggiante castello, ed avendo scoperte le tracce di Harum e di Mirza, le avevano seguìte, giungendo lassù.
Furono tosto interrogati dal vecchio, il quale temeva che delle guardie del re si aggirassero ancora nei dintorni del castello; ma nulla avevano veduto di sospetto. Le truppe erano discese nella pianura, e le avevano scorte, all’alba, entrare in Teheran; sul luogo ove sorgevano le vecchie torri non vi erano che dei cumuli immensi di macerie, che ancora bruciavano.
Apprendendo che Nadir era vivo ancora, la gioia di quei prodi montanari fu immensa, e, temendo che le truppe del re tentassero un altro colpo di mano, si scaglionarono fra le rocce della grande montagna, vegliando attentamente tutta la notte, insensibili ai venti gelati della zona nevosa ed ai dolori delle loro ferite.
L’indomani nuovi drappelli di montanari salirono alla povera capanna di Harum. La notizia della distruzione del castello, dell’assalto delle truppe del re, del rapimento della fanciulla amata dal giovane Nadir si era sparsa per la montagna, ed i cacciatori ed i banditi accorrevano dalle vallate inferiori, dai picchi elevati, dalla catena degli Albours e da quella del Taberistan, per vegliare sul ferito. La voce che quel giovanotto era di sangue reale e che avrebbe dovuto sedere sul trono degli sciàh persiani, si era diffusa, e tutti accorrevano a schierarsi sotto le sue bandiere e per impedire da parte dell’usurpatore e dei traditori un nuovo delitto.
Ormai il Demavend era diventato inespugnabile. Quattrocento montanari, rotti a tutte le fatiche, prodi, risoluti anche a farsi uccidere pel loro giovane re, si erano sparsi per i suoi fianchi, occupando le fitte boscaglie, sorvegliando le gole ed i sentieri, impedendo il passo a tutti. Pratici come erano dei luoghi, ci sarebbe voluto un esercito per snidarli.
Taluni più arditi si erano spinti fino ai piedi della montagna e di là sorvegliavano i villaggi di Demavend, di Ask e di Karù, acciocchè nessun soldato potesse appressarsi, nessuna spia salire. Si poteva dire che una rete di acciaio e di fuoco avvolgeva la montagna intera dalle più alte vette alla base.
La guarigione di Nadir intanto, potentemente aiutata dal miracoloso farmaco di Mirza, procedeva speditamente; la ferita, più dolorosa che pericolosa, quantunque così estesa, si rimarginava con rapidità incredibile. Ma lo sventurato giovanotto non pareva che per questo fosse soddisfatto. Non parlava mai, non mormorava più il nome della sua Fathima, sorrideva tristamente al vecchio Mirza e ad Harum, quando parlavano di ridiscendere a Teheran per istrappare la giovinetta dalle mani dello sciàh e per punire i traditori. Un cupo dolore lo rodeva, e rimaneva delle lunghe ore immobile sul suo lettuccio, lo sguardo fisso nel vuoto.
Il decimo giorno si alzò e per la prima volta uscì dalla capanna, sorretto da Mirza e da Harum, sedendosi su di una roccia. Nello scorgere laggiù, nella immensa pianura, le scintillanti cupole dorate di Teheran, che il sole facea fiammeggiare, lagrime ardenti gli spuntarono sulle ciglia.
— Mio Nadir, — disse Mirza con dolce rimprovero, — non piangere, figliuol mio.
Il giovanotto non rispose: colla testa stretta fra le mani, come se volesse comprimere i tetri pensieri che gli tumultuavano nel febbricitante cervello, continuava a guardare la città fatale e piangeva in silenzio.
— Sii forte, Nadir — continuò Mirza. — Non piangono i figli degli sciàh, nè i montanari del Demavend.
— Lascia che pianga, mio buon Mirza — disse il giovanotto con rabbia. — Ho il cuore spezzato!...
— Ti vendicheremo, Nadir.
— Ma chi mi ridarà la fanciulla che ho tanto amato? Ah Mirza! Sono l’essere più sventurato che viva nell’intera Persia.
— Basta, o Re della Montagna — disse Harum. — Vuoi tu riaprire la ferita, che non è ancora rimarginata?
— Che m’importa! – esclamò il giovane montanaro. — Forse che io posso vivere senza di lei? Che diverrebbe la mia vita senza il sorriso di quella creatura soave? Credi tu, Harum, io possa sopportare a lungo questo martirio?... Ah! L’orribile pensiero che sempre mi perseguita!... Io qui, vinto, ferito, col cuore straziato, la gioventù infranta, e lei laggiù, schiava avvilita del mio rivale!... Mirza! Harum! Io voglio scendere a Teheran!...
— Non ancora, figliuol mio — disse il vecchio. — Non è ancora tempo.
— Ma che aspetti?... Che speri tu?...
— Che cosa spero? — disse Mirza con voce grave. — Di ridarti la perduta felicità, Nadir.
— Tu vuoi illudermi, Mirza.
— No, Nadir — rispose il vecchio con voce ancora più solenne.
— Ma se ella è laggiù fra le guardie del re!...
— Passeremo addosso alle guardie.
— Ma se è nella reggia?
— Abbatteremo le muraglie della reggia.
— Tu impazzisci, Mirza.
— No, figliuol mio.
— Ma su chi speri?
Il vecchio si alzò, e mostrando al giovanotto la città che biancheggiava nella grande pianura, disse con voce solenne:
— Nadir, fra breve tu dominerai laggiù e risalirai sul trono di tuo padre.
— È impossibile, Mirza!...
Il vecchio continuò:
— Là batte il cuore della Persia intera, Nadir, e quel cuore, per tanti anni muto, ora batte pel figlio di Luft-Alì.
— Ma tu sogni, Mirza.
— Guarda quelle pianure che si distendono ai tuoi piedi, Nadir, e che il tuo sguardo d’aquila abbraccia: vanno dall’est all’ovest, dal nord al sud, dalle sponde del Mar Caspio a quelle del golfo Persico e dell’Oceano Indiano, dalle frontiere della Russia, della Tartaria e dell’Asia Minore a quelle dell’Afganistan e del Belucistan. Queste terre, che un giorno appartenevano al tuo antenato Nadir sciàh, e che un infame tradimento ti tolse, fra breve ritorneranno tue.
— Ma la mia Fathima?
— Ritornerà tua.
— Ma lo sciàh?
— I traditori tutti morranno.
— E chi spezzerà la loro potenza?...
— Chi?... La rivoluzione, Nadir!
— Non ti comprendo, Mirza.
— A Teheran si cospira, Nadir. Il tuo nome corre già sulle labbra della popolazione e delle tribù belligere delle pianure. I curdi sono nostri, ed hanno giurato sul Corano che combatteranno per te; gli Jakaroubâch stanno affilando le armi; gli Erochlon sono pronti a piombare sulla capitale, e sette khan (capi delle tribù militari) e tre begler-beg (principi governatori di provincia) hanno già abbracciata la tua causa.
— Ma chi ha potuto fare questi miracoli!
Un sorriso apparve sulle labbra di Mirza.
— Chi?... Le ricchezze favolose di tuo padre — disse. — L’oro ha vinto e le tribù ed i principi ed i capi non solo, ma anche gli artiglieri del corpo dei cammelli che vegliano alle porte della capitale.
— E noi piomberemo su Teheran?
— Coi nostri montanari, coi Curdi e le due tribù dei Kadjars.
— E riavrò la fanciulla?
— Ed il trono, Nadir.
— Ah Mirza!...
— Silenzio, guarda!...