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168 | emilio salgari |
Harum, quando parlavano di ridiscendere a Teheran per istrappare la giovinetta dalle mani dello sciàh e per punire i traditori. Un cupo dolore lo rodeva, e rimaneva delle lunghe ore immobile sul suo lettuccio, lo sguardo fisso nel vuoto.
Il decimo giorno si alzò e per la prima volta uscì dalla capanna, sorretto da Mirza e da Harum, sedendosi su di una roccia. Nello scorgere laggiù, nella immensa pianura, le scintillanti cupole dorate di Teheran, che il sole facea fiammeggiare, lagrime ardenti gli spuntarono sulle ciglia.
— Mio Nadir, — disse Mirza con dolce rimprovero, — non piangere, figliuol mio.
Il giovanotto non rispose: colla testa stretta fra le mani, come se volesse comprimere i tetri pensieri che gli tumultuavano nel febbricitante cervello, continuava a guardare la città fatale e piangeva in silenzio.
— Sii forte, Nadir — continuò Mirza. — Non piangono i figli degli sciàh, nè i montanari del Demavend.
— Lascia che pianga, mio buon Mirza — disse il giovanotto con rabbia. — Ho il cuore spezzato!...
— Ti vendicheremo, Nadir.
— Ma chi mi ridarà la fanciulla che ho tanto amato? Ah Mirza! Sono l’essere più sventurato che viva nell’intera Persia.
— Basta, o Re della Montagna — disse Harum. — Vuoi tu riaprire la ferita, che non è ancora rimarginata?
— Che m’importa! – esclamò il giovane montanaro. — Forse che io posso vivere senza di lei? Che diverrebbe la mia vita senza il sorriso di quella creatura soave? Credi tu, Harum, io possa sopportare a lungo questo martirio?... Ah! L’orribile pensiero che sempre mi perseguita!... Io qui, vinto, ferito, col cuore straziato, la gioventù infranta, e lei laggiù, schiava avvilita del mio rivale!... Mirza! Harum! Io voglio scendere a Teheran!...
— Non ancora, figliuol mio — disse il vecchio. — Non è ancora tempo.
— Ma che aspetti?... Che speri tu?...
— Che cosa spero? — disse Mirza con voce grave. — Di ridarti la perduta felicità, Nadir.
— Tu vuoi illudermi, Mirza.
— No, Nadir — rispose il vecchio con voce ancora più solenne.