Il nostro padrone/Parte seconda/X
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X.
Rientrando a casa non trovò sua madre, e andò a cercarla dalla sua vicina di casa. Marielène stava davanti ai fornelli, e rispondeva distrattamente al professore d’italiano che, costretto a casa da un forte raffreddore, sedeva accanto al camino e domandava alcune spiegazioni lessicali.
— Fundu, albero o pianta, non è vero? Fundu dess’elike, fundu dessu Kerku, fundu de mela; sono ricordati nel Condaghe di San Pietro. Benissimo! Questo vocabolo non si può separare dal neogreco φοῶντα, cespuglio, arboscello. Anche in latino abbiamo funda, e persino in turco.... Crede lei che per fundu si possa intendere, in sardo moderno, anche cespuglio, broussailles?
Ma la padrona di casa, arrabbiata contro la serva che era andata alla fontana e mancava da due ore, non rispondeva a tono, e fissava con uno sguardo feroce la sua casseruola, imprecando e maledicendo come se stesse a manipolare un veleno.
A un tratto, nel vano della porta ancora illuminato dal crepuscolo, apparve la figura di Sebastiana. Alta e bella, con la sua tunica avvolta elegantemente attorno al busto, ella colpì talmente il professore, che egli si alzò e la salutò inchinandosi, come davanti ad una duchessa in abito da ballo.
Ella si avanzò, porgendo a Marielène un mazzo di ramoscelli di mirto gravi di coccole, e disse:
— Mi sembri stizzita...
Marielène prese il mirto e domandò tragicamente:
— Dimmi, chi ha inventato le serve?
— Le padrone, — rispose il professore.
Sebastiana rise, sebbene le parole e l’aspetto di Marielène le ricordassero i tristi giorni della sua servitù, e porse un ramoscello al suo ammiratore, non sdegnando di guardarlo negli occhi e sorridendogli con civetteria.
— Fundu... — egli mormorò, accarezzando il ramoscello. — Questo è fundu?
Sebastiana stava per rispondergli, quando Marielène si slanciò verso la porta, urlando e con la mestola sollevata: la figura della serva, con l’anfora sul capo, si avanzava dal cortiletto, e senza l’intervento del pacifico professore sarebbe accaduta una tragedia...
*
L’ultima domenica di carnevale Bruno scese a Nuoro verso mezzogiorno, e ancor prima di rientrare a casa sua andò da Sebastiana per dirle che Predu Maria sarebbe ritornato in paese il martedì seguente.
Sebastiana intingeva nel miele bollente alcuni dolci di pasta, e gliene offrì.
— Grazie, no, — egli disse, rifiutando.
— Non sono buoni come quelli di tua moglie, lo so!
Bruno non rispose, ma la guardò, ed ella ricambiò lo sguardo; ma i suoi grandi occhi non erano più come prima, timidi e ardenti; erano quasi foschi, pieni di passione e di rimprovero. Egli se ne andò con l’impressione che ella fosse cambiata a suo riguardo. Che era accaduto? Perchè quell’accenno a sua moglie? Forse Sebastiana era gelosa. Sì. Erano arrivati a questo punto: egli era geloso di Predu Maria, ed ella era gelosa di Marielène.
— Purchè non succeda uno scandalo! — egli pensò, attraversando il viottolo.
Quando rientrò a casa, Marielène non gli strinse neppure la mano, e solo, fra un salto e l’altro, dalla cucina alla sala da pranzo, trovò modo di raccontargli l’ultima questione con la serva, e l’acquisto di un nuovo pensionante.
— Vedrai che sviluppo prenderà la pensione, Bruno, anima mia. Forse non ci basterà neppure il locale: ma potremo fabbricare dalla parte del Corso: c’è Pintore che vende il suo cortile.... Tu, come stai? Non ti sei sentito più male? Adesso ti darò da mangiare: vuoi i ravioli?
Egli sedette accanto al fuoco e mangiò i ravioli. Marielène era insolitamente rossa in viso; ma egli osservò che ella era ancor più dimagrata, secca, nera e come arsa dal continuo calore dei fornelli.
— Tu lavori troppo, Elena! Dimmi, per questa serva, dunque, come si fa? Bisogna risolvere il problema. Ti sei dimagrata, Elena: finirai con l’ammalarti.
— Lascia stare! È la mia vita. E tu non lavori, Bruno? Tu lavori più di me.
Sì, egli lavorava; ma oramai il lavoro non era più, come un tempo, la sua felicità.
Dopo colazione salì nella camera da letto, accese la pipa e si affacciò alla finestra, la stessa dalla quale una sera egli, vedendo Sebastiana nel suo piccolo orto pieno di rose, al chiaro di luna, si era ritratto come dall’orlo di un precipizio.
Adesso l’orto, giallo di sole e nero d’ombra, stendevasi solitario, zappato di fresco, rallegrato dai fiori violacei dello zafferano: ma egli vedeva egualmente la figura agile e voluttuosa della sua vicina di casa sorgergli davanti guardandolo con passione. Stette a lungo alla finestra come immerso in un sogno. Udiva grida lontane, suoni di fisarmoniche, squilli di sonagli; nell’aria errava un odore di pasta fritta e di miele caldo. Una maschera a cavallo, coperta di pelli e di sonagli come un guerriero barbaro, passò di corsa su per il viottolo, emettendo grida selvaggie.
Predichedda entrò nella casa della maestra, e poco dopo ne uscì accompagnata da Sebastiana; entrambe vestivano il loro bel costume festivo, come se stessero per recarsi in chiesa, ma Bruno indovinò subito ciò che esse pensavano di fare, e decise di seguirle.
Vestito a nuovo, col suo cappello a larghe falde, gli occhi metallici e i baffi dorati, egli aveva l’aria un po’ insolente del conquistatore: i paesani lo salutavano con un certo rispetto, e le donne lo trovavano bello.
Il Corso era già animato da torme di monelli, di contadini, di pastori tornati in paese per godersi l’ultima domenica di carnevale. Le maschere a cavallo, vestite di stracci e di pelli, passavano di corsa urlando tra la folla che si divideva al loro passaggio.
Collane di sonagli circondavano il collo dei cavalli dalle criniere intrecciate e dalle code ritorte adorne di nastri gialli e verdi. Altre maschere, a piedi, marciavano in fila o a gruppi, al suono delle fisarmoniche; qualcuna buttava in aria manate di confetti rossi, e allora i monelli si slanciavano a torme, come branchi di capretti, aggruppandosi attorno ai passanti, e rovesciandosi e percuotendosi come piccoli diavoli.
Bruno, che passava rasente ai muri per non essere travolto dall’onda dei ragazzi, o da qualche maschera a cavallo, impiegò molto tempo per arrivare fino alla piazza; e là si fermò finchè non vide due mascherine vestite con lunghe camicie da signora, cuffietta da notte in testa, una col nastro rosa, la più alta col nastro celeste. Egli le riconobbe subito: d’altronde appena lo scorsero le due cuffiette cominciarono a tempestarlo di confetti e di castagne secche, e quando lo videro circondato da una torma di monelli urlanti si allontanarono di corsa.
Egli seguì la più alta con uno sguardo geloso. Ah, ella si divertiva! Ella non era inquieta e triste come lo era lui: ella forse aveva un appuntamento con qualche mascherotto selvaggio, e avrebbe ballato e riso, senza ricordarsi di altro.
In apparenza indifferente e calmo, cominciò ad andare su e giù per il Corso, tra la folla che diventava sempre più fitta e varia. Le due cuffiette correvano e saltavano davanti a lui, fermandosi talvolta in mezzo ai gruppi di mascherine accompagnate da uomini che suonavano e ballavano, e ad un tratto egli vide il nastro celeste volteggiargli attorno, assieme con la testa di un frate, e sentì un impeto di gelosia e di tristezza, e il suono delle fisarmoniche gli sembrò una nenia funebre. Gli parve d’essere come un esule, in mezzo alla folla mascherata e allegra; un esule melanconico, straniero a tutti, da tutti trascurato.
Tutti si divertivano, attorno a lui; sotto quelle maschere di cera, immobili e macabre, palpitavano visi di donne belle, bocche frementi di riso e di voluttà: egli solo, sotto la sua maschera d’uomo vivo, nascondeva l’aspetto funebre dei morti che camminano ancora. E a poco a poco, mentre la cuffietta celeste gli passava e ripassava davanti come una grossa farfalla pazza di gioia, egli si sentiva assalito da un impeto di ribellione contro la sua fredda virtù di uomo onesto, la sua paura di compromettersi, i suoi calcoli per l’avvenire. Sebastiana forse prodigava i suoi favori ad altri uomini meno stupidi di lui: se fosse stata onesta non lo avrebbe incoraggiato come faceva.... E l’idea che ella fosse una preda facile e non pericolosa gli accese il sangue d’una cupa fiamma: anche lui si sentì violento e coraggioso come quegli uomini che passavano urlando sui loro cavalli quasi indomiti; e da quel momento seguì Sebastiana deciso a conquistarla. Il desiderio e la gelosia lo incalzavano. La cuffietta celeste aveva un grande successo; molti mascherotti la seguivano e la circondavano invitandola a ballare; e specialmente il frate, che con le sue mosse e i suoi gridi gutturali dava l’idea di un diavolo travestito da monaco, la seguiva e la trascinava con sè nei giri d’una danza selvaggia.
Bruno s’accorgeva che gli occhi scintillanti di Sebastiana cercavano spesso i suoi; quando egli riusciva a mettersi in prima fila fra i curiosi ella gli passava davanti quasi sfiorandolo, e ad ogni giro di ballo i loro occhi s’incontravano con intensità indicibile, ed egli si sentiva battere il cuore e dimenticava ogni altra cosa che non fosse lei.
Il sole di febbraio declinava sul cielo turchino; la folla cresceva e le maschere a cavallo dovevano tirare i freni e rigettarsi indietro per non causare disgrazie; ma già molte mascherine si ritiravano; le due cuffiette si cercarono fra i gruppi dei ballerini, e la più alta si curvò sulla più piccola, e il nastro azzurro parve dire un segreto al nastro rosa; poi entrambe si fecero largo tra la folla, e si avviarono tenendosi per mano. Non saltavano più: sembravano melanconiche, stanche, e a un tratto, arrivate al crocevia di due straducole deserte, si fermarono, tornarono a consultarsi, si divisero. Una andò a destra, l’altra a sinistra, quasi volessero far perdere le loro traccie all’uomo che le seguiva. Ma egli raggiunse la cuffietta celeste davanti alla porticina di Antoni Maria.
— Devo parlarti, Sebastiana. Si può, qui? — le domandò.
Ella aprì e appena fu dentro si tolse la cuffietta e la maschera: il suo viso ardeva, luminoso di bellezza e di gioia nell’aureola scura dei suoi capelli quasi sciolti.
— Com’hai fatto a riconoscermi, Bruno? E gli altri mi avranno riconosciuta?
— Il tuo frate, sì, certo. Chi era?
Ella si mise a ridere.
— L’hai riconosciuto tu? Altrettanto io!
— Perchè ti sei mascherata, allora?
— Predichedda era venuta da me pregandomi di accompagnarla in chiesa: invece mi condusse qui, dove aveva preparato le vesti da maschera.
— Adesso dov’è andata?
— A farsi veder mascherata dalle sue parenti. Tarderà a tornare. Che avevi da dirmi?
Ella stava in mezzo alla camera desolata, e non rideva più, guardando con strana attenzione la cuffietta e la maschera che teneva fra le mani. Egli la prese per la vita e la trascinò verso il lettuccio, sul quale sedettero.
— Il frate? Ah, tu credevi che io lo conoscessi? — ella mormorò sorridendo e accomodandosi i capelli.
— Oh, certo, lo conoscerai!
Sebastiana sollevò fieramente il capo e corrugò le sopracciglia, e siccome Bruno la stringeva a sè e cercava di baciarla sulle labbra, volse il viso dall’altra parte, vinta da un senso di rancore e di umiliazione.
— Ti giuro che non so chi sia, quella maschera! Del resto, ho ballato con molti. Che pensi tu di me? Dimmelo! No, lasciami, non baciarmi se prima non mi dici che pensi di me....
Egli le prese la testa fra le mani e la costrinse a guardarlo.
— Ebbene, sì, sono geloso!
— Di chi?
— Di tutti.
— E perchè sei geloso di tutti? Te ne do forse motivo, io? Rispondi!
Si guardarono negli occhi; ma già il loro sguardo non era più, come pochi minuti prima, carico di passione e di desiderio. Ella balzò in piedi, sfuggendo alla stretta di lui, e gli si curvò sopra quasi minacciosa.
— Rispondi! Che motivi ti do, perchè tu possa esser geloso? Ora capisco il tuo modo di procedere a mio riguardo, la tua freddezza, la tua diffidenza. Ah, sei geloso! Di tutti? Ma se io non guardo nessuno; se io sfuggo persino la compagnia di mio marito! Io non voglio bene che a te, capisci? (Lo prese per gli omeri e lo scosse, mentre egli l’ascoltava come sorpreso e contrariato.) A te solo, Bruno; te lo giuro sull’anima di mio padre: non ho mai voluto bene ad altri che a te; non ho guardato che i tuoi occhi. E tu non hai voluto capirlo, un giorno, quando eravamo ancora liberi, e anche adesso non mi credi. Non mi credi, vero, non mi credi?
Egli credeva, sì, e ne provava gioia e dolore, ma la confessione di lei, vibrante di passione sincera, invece di esasperare il suo desiderio parve calmarlo. Egli ebbe di nuovo paura di compromettersi. La figura di Predu Maria gli sorgeva davanti minacciosa; e per alcuni momenti, mentre la donna, curva su lui, lo tentava con tutte le forze della sua passione, egli lottò furiosamente contro sè stesso e contro di lei.
— Tu non devi esser geloso, — ella diceva, anelante e corrucciata. — Se oggi io sono qui, travestita, lo sono per te. Volevo vederti.... lontano da casa tua e da casa mia.... Sapevo che mi avresti seguito.... Quando ballavo e tu mi guardavi, mi pareva di dover cader morta.... ma tu non mi credi, tu, mentre io, delle volte, mi sento impazzire, e provo il desiderio di correrti appresso come se tu mi abbi incantata.... E qualcuno, certo, deve avermi fatto una malìa; altrimenti non ti verrei addietro così, come una donna perduta: perchè io sono onesta, sì, posso dirlo ad alta voce, e se mio marito mi ammazzerà non lo farà certo perchè io sia corsa dietro a molti uomini....
Egli trasalì e parve completamente svegliarsi dal suo sogno.
— Calmati, — le disse, facendola di nuovo sedere sul lettuccio. E tremava tutto; ma il suo tremito era simile al freddo brivido degli alberi dopo l’uragano. — Non gridare, Sebastiana! Lo so che sei onesta, e anch’io sono onesto, e non sarò io che ti farò del male. Noi non dobbiamo far del male, bambina mia....
Ella non capiva, e riprese, sottovoce, cupa e come vinta dalla tristezza di lui:
— A chi facciamo del male? Io non ho figli; tu non ne hai.
— Ma tu hai marito ed io ho moglie. È a loro che non dobbiamo far del male....
— Ma essi non sapranno mai nulla!
— Come sei bambina! Certe cose non si possono nascondere. Vedi, noi adesso ci troviamo qui, condotti da una volontà più forte della nostra: domani non potremo resistere alla tentazione di incontrarci in un altro posto.... e magari nelle nostre case.... La passione trascina, Sebastiana; guai a noi se non ci freniamo a tempo....
Ella lo guardava sbigottita; ma all’improvviso, come suggestionata da lui, si mise a piangere, mormorando:
— È vero! È vero! Possono vederci anche oggi, quando usciremo di qui.... possono riferire tutto a mio marito; possono perderci....
Si strinse a lui, paurosa, e riprese:
— E noi potevamo sposarci un giorno, ricordi? Come saremmo stati felici! Ma tu hai guardata una donna che non amavi, ed io ti ho imitato. Perchè, perchè, Bruno?
— Perchè noi facciamo sempre ciò che è contro la nostra volontà.
— È vero! È vero!
Ed entrambi sentivano di mentire; ma lei si ostinava a piangere una felicità che non avrebbe mai avuto, ed egli si sentiva misero e infelice per l’illusione di lei.
Un rumore nel cortile li richiamò alla realtà. Si alzarono e stettero ad ascoltare; il rumore cessò, ma egli pensò che era tempo di andarsene: qualcuno poteva sorprenderli e sospettare di loro quantunque non stessero a far del male.