Il mondo è rotondo/XXII
Questo testo è completo. |
◄ | XXI | XXIII | ► |
Capitolo XXII.
Il re dei Bolcevichi.1
Si approssimava intanto il tempo che Scolastica doveva sgravare. — Se non è oggi sarà domani — aveva detto la signora Alice.
E Beatus disse alle donne: — Allora vediamo di far presto.
Egli non voleva assistere a quello spettacolo, e disse ancora: — Fate tutto quello che volete, prendete quel denaro che vi sarà necessario. Poi, quando tutto quel tafferuglio sarà finito, voi mi scriverete, e io tornerò. La cosa poi che nascerà, voi poi la spedirete alle balie, alle nutrici, dove meglio a voi parrà. Ma fuori di casa.
E se ne era andato ad Assisi, una città quieta, dove sperava di poter finalmente scrivere quella relazione, che mai gli veniva fatta.
Ma quando all’albergo domandò una camera, si trovò ridicolo. Aveva dato la sua casa per la serva incinta, e lui ne era uscito. Sì, un po’ ridicolo. Ma doveva star lì ad assistere al parto?
«Sono spettacoli anche indecenti, e cose da donne.»
Ma poi, senza sapere perchè, forse per il vizio di aver studiato, si ricordò che in Atene antica gli uomini leggiadrissimi affidavano alle donne di casa la cura di lavare e fare la vestizione dei cadaveri.
Perchè gli vennero in mente i cadaveri? Qui si trattava di un neonato o di una neonata. Ma forse così gli avvenne di pensare perchè nella sala da pranzo dell’albergo non c’era che lui e un prete.
Questo prete era lunghissimo, tremolante e con le pupille bianche: e nella sala illuminata di luce elettrica, colui pareva un anacronismo: uno di quegli uomini che, con antiche parole magiche, accompagnano quelli che entrano nella vita e quelli che ne partono.
Ora un giorno avvenne che Beatus era uscito per la campagna, e, riguardando Assisi, questa gli parve come una antica nave trionfale: il tempio di San Francesco, con quegli sproni sul monte, pareva il castello di prora e sull’alto gli parea di vedere San Francesco, come un vessillo umano, che cantava: «Laudato sii tu, mio Signore».
Ma ritornando poi all’albergo, e passando lungo le mura del detto tempio, gli venne veduta una scritta concepita e tracciata così: W. L’Enin.
Come era suo costume, anche qui Beatus si soffermò.
Non c’era dubbio: l’autore, anonimo come un poeta dell’epos, voleva significare, Viva Lenin!
«Come è plastico questo popolo d’Italia! — fu il primo pensiero di Beatus. — Era stato lui, il popolo d’Italia, ad abbattere il Sacro Romano Impero dell’Austria, che pure aveva per emblema il santo segno dell’aquila! Fu ieri! Ma oggi non se ne ricorda più. Ora scrive su le mura dei più venerabili edifizi: Viva Lenin! Il santo segno dell’Impero fu abbattuto; ed ecco appare: Viva Lenin. È forse questa la nemesi della storia?»
Era un pensiero travolgente; ma ne subentrò un altro non meno strano in forma pur di domanda: «Come ha fatto questo popolo italiano a conquistare la sua libertà? Bisognerebbe dare a questo popolo italiano conoscenza della sua storia....»
Parve allora a Beatus cosa buona inserire un capitoletto su questo argomento nella relazione che doveva stendere per S. E. il ministro: ma poi gli parve che se il popolo d’Italia avesse consapevolezza della sua storia, non sarebbe più il popolo italiano.
Ma riguardando quella scritta, altri pensieri sopravennero.
I caratteri erano tracciati per quanta ampiezza comportava il braccio dell’autore, e ciò significava grandezza; ed erano fatti col bitume, e ciò significava indelebilità. E v’era in quei caratteri alcun che di stravolto, e ciò significava terrore.
La scritta pareva domandare a Beatus: «Vile borghese, non ti faccio io paura?»
«Se ti fa piacere, sì!»
«Vile borghese — pareva ancora domandare la scritta — non sono bello io?»
«Se ti fa piacere, sì.»
«Sai tu che ti posso fare del male?»
«Tutto mi può fare del male.»
«Mi dispregi tu forse?»
«Tutt’altro! Anzi meritevole di grande considerazione.»
Di chi era quel nome: Lenin?
Di un uomo emerso dalla storia. La guerra era stata la sua levatrice. Dai solchi sanguinosi degli odi umani egli era nato.
Come aveva fatto quel nome dalla lontana Sarmazia ad arrivare sino alla città solitaria e santa?
Eppure era arrivato!
Beatus riguardò ancora il tempio, tripartito a tre piani come i regni d’oltretomba, ed ebbe la sensazione che la scritta trafiggesse a morte il nobile tempio. La nave non navigava più! Ma chi sa, forse, da quanto tempo non navigava più.
Ora navigava la nave del re dei bolcevichi.
Qualcosa deve ben navigare!
Quello che avveniva allora nel mondo era un grande fenomeno: brividi di terrore percorrevano la terra. Alcunchè di feroce e di stravolto era nei volti degli uomini. Facce nuove erano apparse. Ora Beatus ricordava: anche in quella terra umbra, dove già fiorirono le più soavi cantilene delle preghiere, la gente pareva si vergognasse dell’antica gentilezza.
Le notizie che giungevano nel nostro occidente dal paese del re dei bolcevichi forse erano fantastiche, ma avevano il fascino di un mondo irreale.
Colà il re dei bolcevichi aveva portato via ai grandi della terra i loro grandi balocchi. In questa operazione aveva portato via anche la vita a quei signori o li aveva trasformati in balocchi: e aveva rovesciato dal cielo i balocchi su le moltitudini.
Non mai la orgogliosa civiltà degli uomini aveva prodotto più meravigliosi balocchi. «Ma perchè costrurrò io la bella casa, e tu la abiterai? la soffice sedia e tu vi siederai? la carrozza che vola e tu trasvolerai? Perchè farò io il miele come l’ape stolta per dare squisite vivande al tuo ventre? Il mio ventre è il tuo ventre! Il tuo corpo è il mio corpo! La tua voluttà è la mia voluttà! Tutti i balocchi in comune: in comune anche il più grande balocco: la donna.»
Così dicevano le genti.
E il re dei bolcevichi operava un’amputazione nella vita. Solo i lavoratori dei balocchi della vita hanno diritto alla vita, e ai balocchi della vita. Quale voce! Essa si diffuse per tutta la terra.
Questo convoglio del genere umano che procedè lento per secoli, portando con sè tutto il peso secolare della sua storia, tutte le sue tombe, tutte le sue domande senza risposta mai, «chi sono io? donde vengo? a che tendo?»; e il re dei bolcevichi lo sganciò, e procedè coi suoi operai materiali della vita!
«Signor re dei bolcevichi — gridavano a lui — tu lasci indietro tutti gli archivi, e tutta la sacrestia dei sacri arredi, e tutti i sacerdoti dell’intelligenza, disposti a far scuola nel modo più elementare, a dividere ancora il mondo in acqua, aria, terra, fuoco se così è necessario per l’intelletto dei tuoi bolcevichi. Noi saremo i tuoi giullari, Signore; noi porteremo i tuoi colori».
Ma il re dei bolcevichi li respinse, e in questa operazione avvenne che anche a taluno di essi tagliò con la scure le mani e ad alcuno tagliò la testa. Solo gli operai della materiale fatica! Essi hanno dimenticata l’anima loro, e il fiore della primavera: essi hanno una sola anima comune: essi e il metallo delle macchine sono diventate un sangue solo. Sono essi dio, giudice, legge.
Gli operai della materiale fatica, fra noi, intanto giacevano inerti e i loro occhi erano rivolti da quella parte da dove sarebbe apparso il re dei bolcevichi.
Aspettavano il re dei bolcevichi e non volevano più lavorare per l’altrui piacere i balocchi della vita!
Pareva l’anno mille, che attese l’avvento del nuovo Messia.
Quelli intanto che possedevano i balocchi della vita, ne facevano orgia e sperpero prima che il re dei bolcevichi arrivasse: e un po’ tremavano.
Come attorno al ferro incandescente si vede l’aria soffrire per l’immenso calore, così attorno ai corpi inerti delle moltitudini vaporava il calore dell’odio e del desiderio.
Quando il re dei bolcevichi fosse apparso, le moltitudini nostre si sarebbero levate col furore dell’odio alla conquista del paradiso terrestre, promesso dal nuovo Messia.
Era così veramente il re dei bolcevichi? o era un astuto verso un suo fine, come fu già quel Veglio della Montagna di cui ragionò Marco Polo, e non gli fu data fede: ma poi si riconobbe esser vero?
Il gran Veglio della Montagna, aveva, anche lui nelle parti d’Oriente, fabbricato un giardino: il più bello e il più grande del mondo. Quivi erano tutti i frutti, e i più bei palagi del mondo: quivi erano donzelli e donzelle. Quando il Veglio voleva mettere alcuno nel giardino, dava, prima, a bere l’oppio; poi lo faceva portare nel giardino. Si svegliava, e veramente si credeva essere in paradiso. E queste donzelle stavano con lui in canti e grandi sollazzi. Poi il Veglio dà ancora l’oppio e lo toglie dal giardino. D’onde vieni? domanda il Veglio. Risponde: Dal paradiso. E quando il Veglio vuol fare uccidere alcun uomo in pro della sua religione, chiama costui e gli dice: Va, fa la tal cosa. Ed egli fa, perchè vuole ritornare al paradiso.
E Beatus guardò ancora il tempio, sull’alto del quale San Francesco tripudiava cantando: «Laudato sii tu, mio Signore».
E si ricordò allora che San Francesco aveva tanti balocchi, ma li buttò via tutti; aveva tanto tesoro, ma lo buttò via tutto. Aveva bellezza e giovinezza, ma si vestì di sacco, e scalzo tripudiava: «Laudato sii tu, mio Signore». E andò a trovare i lupi della terra e amorosamente li confortò a cibarsi del pane degli angioli! Anch’egli vietò ai frati suoi che alcuna cosa fosse propria; ma egli portava con sè un pane soltanto, e non aveva macchine; ma la sua dama si chiamava Povertà, e non Ricchezza.
Anch’egli ai frati suoi comandò il lavoro; ma senza mercede. Le stelle, il sole erano per San Francesco il grande teatro, il canto delle rondini era il grande concerto, l’acqua era la grande ebbrezza. Ma i bolcevichi sono staccati dall’universo e dal mistero.
Ma gli occhi di San Francesco spiravano tepidezza di amore.
Egli, Francesco, sentiva dentro di sè quel suo tripudio, e credeva che fosse alcunchè di immortale. Egli non credeva, o ingenuo!, alla morte.
Egli, Francesco, credeva di poter essere operator di miracoli. Ma i lupi mangiano carne, e non margherite! E i cignali rompono le ghiande coi forti denti!
E l’ignorante, anche!
Egli, Francesco, ignorava che nel ventre di Scolastica si svolge null’altro che un’antica legge di animalità.
Ah, noi fummo ben nutriti di sublimi fole! Chi disse che Dio aveva dato all’uomo il volto eretto per guardare il cielo? che fummo fatti per seguir virtude e conoscenza? Ma no! Sono fantasie che per inerzia di mente si ripetono ancora.
Oh, le antiche fole, la grazia, la rivelazione, il mistero del nascimento, le consacrazioni del nascimento! Quante leggende, quanti riti sono sorti nelle antiche età! I canti dei poeti, le stelle apparse nel cielo, le cune miracolose, i prodigi aspettati, i giorni numerati. Follìe! Nessun prodigio era apparso mai, nessuna voce suonò dal cielo: l’uomo sospingeva l’uomo nelle tombe e rinasceva in perpetuo.
Le leggende, i riti galleggiavano ancora come lumi errabondi su l’oceano della vita, e il re dei bolcevichi li spense.
Avete mai veduto le fiamme che discendono dal cielo e si posano a illuminare le menti? Uscì mai voce dalle tombe? Il pane dell’anima, l’anima che vola al cielo come colomba lieve, la avete voi veduta altrove che nelle fantasie dei poeti? L’issopo che fa bianco lo scorpione umano lo avete veduto voi? Le acque lustrali che detergono le pustole all’umano rospo, le conoscete voi?
Follìe, fole, fantasmi!
L’uomo sospinge l’uomo, e il moto è rapido come vertigine.
Noi non abbiamo nome. E il re dei bolcevichi abolì ai nati il nome e vi appose un numero.
Non è vero? Se non è vero, è però degno di essere vero.
Follìa l’uguaglianza? Ma quale privilegio hai tu che ti distingua? Ti sei lavato nelle acque lustrali? ti sei profumato di issopo? hai tu mangiato il pane dell’anima? No! E per un po’ più di miserabile astuzia che tu possiedi, per un po’ più di vile solerzia, per un po’ di vanagloria, per un po’ di feroce acume che è in te, domandi tu il privilegio?
Tutti numeri! Tutti formano il gran «mammut» del conglomerato umano.
Solamente quelli che hanno raggiunta la vetta dell’anima costituiscono un privilegio. Ma costruiremo noi per sette pianeti erranti, sette cieli? Per poche anime degne di immortalità, costruiremo noi l’Empireo? Non esiste l’Empireo.
Gli uomini senza anima devono anzi credere alla morte, e perciò domandano i balocchi; e il re dei bolcevichi dà loro i balocchi. E se gli uomini poi nella materiale conquista si domeranno gli uni contro gli altri e la terra li coprirà, che importa? Se l’uomo meccanico vedrà anzi soltanto la mano che muove la leva e la ruota della sua macchina, e più non vedrà l’intelletto che crea, che importa? Se è spenta la piccola lampada che accende i cuori, e soltanto i fari irradiano la gran luce bianca che fa smarrire la via, che importa?
«Maledetto sii tu, mio Signore!» canta l’esercito del re dei bolcevichi.
In questi vaneggiamenti si perdeva Beatus; e fredde come il fulgore siderale della scienza vedeva le pupille del re dei bolcevichi. Come abbaglianti per un misticismo terreno.
E per prima cosa egli dava agli uomini in comune il gran balocco: la donna.
Tragica e meravigliosa istoria è questa, non mai risolta!
Gli antichi sacerdoti videro nella donna il peccato, e la velarono. Ma essa era immensa. Si provarono i sacerdoti a distruggerla, ma era distruggere la vita istessa.
Accanto le sospesero i cilici, le preghiere. Vi scrissero parole tremende: peccatum! mortale peccatum! Che valse?
Allora la consacrarono con sante leggi: la purificazione, il lavacro dal peccato del nascimento, il presepio con le belve innocenti attorno alla cuna, la maternità consacrata, il ventre della maternità consacrato, i re magi, la famiglia consacrata, il grido di esultanza del padre e della madre. Che valse?
Non mai la voluttà proruppe così folgorante, come in questa civiltà superba.
Mancherà il pane agli uomini, non gli ornamenti per abbellire la donna, strumento della voluttà.
E il re dei bolcevichi sconsacrava la vita, e la riconsacrava dicendo: «è lecito usarne, non è peccato».
Non è vero? È degno di essere vero.
E giusto è allora che scompaia la religione dei padri e delle madri. Basta che esista la generazione. Altro non esiste in natura!
Il re dei bolcevichi aboliva così l’immane, l’inane fatica dei padri e delle madri.
Perchè imporre un nome? perchè consacrarlo? perchè lo sforzo di creare una coscienza? Il re dei bolcevichi darà ai nuovi nati un numero d’ordine e li manderà alle balie, alle nutrici, ai collegi, al buon nutrimento, al buon allevamento.
Il re dei bolcevichi coronava la nostra civiltà con logica sino all’assurdo, con giustizia sino all’ingiustizia. La civiltà, come la serpe, mordeva se stessa.
Forse era bene così: forse era la vita senza più dolore; senza più il pianto.
Ma Beatus si fissò alquanto, e gli parve che la vita senza dolore, senza la coscienza che distingue l’uomo dall’uomo, fosse la morte.
Forse le lacrime sono anch’esse necessarie.
E anche quel nascere senza un rito, senza il grido di esultanza del padre e della madre, gli parve come un non nascere.
Pareva a Beatus di vivere entro un’atmosfera lucida per immoto bagliore: non v’erano più tenebre. Ma l’aria era irrespirabile: mancava il senso sacro della vita. L’equilibrio era folle: mancavano gli elementi imponderabili che la scienza ignora.
A Beatus pareva di esser solo fra ben pasciuti ambulanti cadaveri.
Note
- ↑ Quale sia il valore politico del bolcevismo russo, sarà dichiarato dall’avvenire. All’autore di questo capitolo la cosa importa mediocremente. Qui si accenna al fenomeno morale del bolcevismo, e quale apparve nel nostro occidente, in Italia nel 1918 e 1919 (anni in cui avviene l’azione del racconto) e come fu predicato fra noi, specie nel rapporto della famiglia e della prole: «Noi neghiamo il diritto paterno di educare la prole», ecc.