XXI - O Hymen. Hymenæe!

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Capitolo XXI.

O Hymen, Hymenaee!

Ma tutte le volte che Beatus vedeva Scolastica per casa con quel ventre sempre più eretto, non poteva a meno di pensare che lì si formava quel movimento dell’anima.

Guarda in che sito! E avrebbe voluto mettere a nudo quel ventre per vedere che cosa vi succedeva.

Beatus, Beatus! Tu come San Tommaso, come gli antichi dottori, ti affissi lì, in vana contemplazione, per vedere se vedi il nascere dell’anima. Oh, Beatus! tu ti involvi, non ti evolvi!

Ma ora egli sentiva tanta nausea per queste due parole, per quanto già avea sentito di ossequio.

Beatus poteva dire a quella sciagurata: «andatevene, insomma, da casa mia». Probabilmente essa non si sarebbe buttata a [p. 170 modifica]fiume, ma avrebbe buttato quella cosa che aveva nel ventre giù per il condotto di una latrina.

Invece della vita, la morte: due cose forse uguali, benchè sembrino diverse, perchè la vita manda buon odore; la morte, cattivo.

Eppure Beatus non disse a Scolastica: «andate!». Ma un giorno che la sciagurata affannosamente si trascinava su per la scala con la sporta della spesa, disse:

— Fate venire quell’uomo.

— Quale uomo?

Scolastica, col volto deformato dall’ultima gravidanza, era più orrenda che mai.

— Quello che vi ha ridotta così, — e col dito le accennava il luogo del nascimento.

Ma Scolastica non sapeva bene dove colui stesse di casa, e nemmeno chi fosse. Un calzolaio, un ciabattino, che abitava, che andava a bottega in una tal via.

Andò lui in quella tal via e trovò quella bottega; ma quell’uomo non c’era, anzi non c’era nessuno, fuorchè un omaccione che era [p. 171 modifica]il padrone. Costui disse che era lunedì, e cantò a Beatus la canzone del calzolaio:

     Lunedì, San Crispino,
     Martedì, San Crespiniano.

In quella oscura bottega, dove erano accatastati mucchi deformi di scarpe e ciabatte, lo sorprese una cosa bianca, che il calzolaio premeva amorosamente contro il suo petto, e poi toglieva e lambiva, e poi levigava. Era il tacco ertissimo di una calzatura di donna, cioè il piedestallo su cui la donna regge il dondolante ventre.

— O che vuol fare il calzolaio? — domandò l’omaccione vedendo quell’omarino, che si affissava nel suo lavoro.

Rispose di no, e pregò di dire a quel suo lavorante che, come potesse, venisse da lui.

Un giorno colui venne. — È qui — disse Scolastica.

Beatus li fece entrare entrambi nel suo studio dove c’era Loreto, la gabbia dell’usignolo morto e Ruggero Bonghi.

Beatus li fece sedere. Lui si sedette senza [p. 172 modifica]dir nulla. Tranquillo. Ogni tanto accarezzava la testa di Ruggero Bonghi, che mostrava di rivedere con piacere l’antica conoscenza.

Beatus aveva in animo di dire loro alcune di quelle parole consacrate che pronunciano i sacerdoti: «Ebbene, già che le cose sono così, sposatevi, vivete in pace, lavorate, allevate la creatura che sta per nascere....». Insomma qualcosa di questo genere molto morale. Ma poi che li ebbe davanti a sè, e li ebbe scrutati tutti e due, il campanelluzzo cantò e disse: «Non dire sciocchezze, Beatus». Lui era guercio, e aveva la fisonomia felice dell’idiota: teneva le due mani posate sui ginocchi: mani nere, incrostate di pece ed unghie nere, quadrate. Lei, lei aveva tutti i muscoli rilassati come per una grande stanchezza. Il corpo era emaciato e quasi visibile sotto le vesti; ma il ventre sporgeva erto e gonfio: lì erano raccolte tutte le energie: quello era il tabernacolo dove con enorme ardore si formava quel movimento di vita che proromperà: un grido, un vagito, un’epitome delle generazioni e delle vite: l’uomo!

Beatus vide la parola dello smisurato poeta cristiano che disse: nel ventre tuo si raccese [p. 173 modifica]l’amore, e le parole del poeta gli parvero grandi come la scienza. E le parole della scienza gli parvero grandi come la voce del poeta.

Ma lì quei due esseri! Oh, lo squallido nascimento!

Il pensiero netto di Beatus fu questo: «Se vi buttaste a fiume tutti e due, anzi tutti e tre, fareste cosa ottima».

Beatus guardava quei due esseri inerti davanti a sè e gli parve che l’uomo si potesse definire anche così: homo iners, l’uomo inerte! Che bella definizione!

Anzi gli parve una scoperta! Sì, gli industri uomini, come furono detti da Esiodo, l’audace stirpe di Giapeto, come li chiamò Orazio, l’homo sapiens di Linneo, l’uomo sociale di Dante, l’uomo economico; sì tutti begli uomini. Ma l’uomo inerte è più bello! L’uomo è inerte come il bue nella stalla, come il cane nell’aia, come la serpe al sole.

Quando ha fame, quando ha sete, quando l’ardore del senso si desta; quando un urto, un colore, il rosso, l’oro, lo percuote, allora si desta, diventa furibondo, si avventa e morde anche. Poi si assopisce ancora, e torna [p. 174 modifica]inerte. Chi era l’uomo? lui che era vigile, o coloro che erano inerti? Bel tema per una memoria da spedire all’Accademia dei Lincei! Peccato che Beatus non credesse più alla gloria, nemmeno a quella distribuita dall’Accademia dei Lincei.

Beatus cominciava a gesticolare, ma quell’uomo che stava inerte, levò la mano nera che posava su le ginocchia, come per fermare la manina bianca di Beatus, che volava, e disse:

— Be’, lei mi ha mandato a chiamare, per dirmi cosa?

Allora Beatus si ricordò per quale ragione lo aveva mandato a chiamare, e disse:

— Voi, mio caro, riconoscerete almeno la vostra responsabilità.

Lo stupì lo sguardo di quell’uomo: egli non capiva quella parola responsabilità.

Era un idiota.

Ma, no! Beatus frugò ancora dentro di sè e trovò che l’idiota era lui. Responsabilità? Quale? Non esiste responsabilità.

Quell’uomo capiva benissimo.

— Ecco — disse Beatus —, io vi volevo semplicemente dir questo, mio caro, che voi riconoscerete che siete stato voi. [p. 175 modifica]

E indicò la donna.

Lui era guercio e idiota, ma da idiota che era, aveva il suo ragionamento.

Disse:

— Io o un altro, è lo stesso.

— Come, come? — disse Beatus. — Non direte mica che sono stato io!

— Non dico questo: dico che è successo a me, ma poteva succedere a un altro. Chi lo sa?

— Ma siete stato voi...!

— Sì, sarò stato anch’io — disse lui con mansuetudine, — ma è stata lei, quel giorno, a fare pst pst alla finestra, e allora io sono venuto su.

Scolastica negò che essa dalla finestra, quel giorno, avesse fatto pst pst!

— Va là, che sei stata tu, bella mia, a fare pst pst. L’ ha fatto a me, ma lo poteva fare a un altro. Dico bene, signore?

Beatus rimase sorpreso come colui diceva bene.

Ma Scolastica inferocì, e quel suo volto in cui le linee si accasciavano su le linee in una atonia di cosa morta, si animò e le labbra sibilarono male parole. Era lui che [p. 176 modifica]passava tutti i giorni, e guardava in su, e faceva pst pst. — Non si vedeva nemmeno come era brutto.

— Ah, tu sei carina!

I due si scambiarono ree parole, non mai udite dai benefattori dell’umanità: campion da pipa! manico di scopa! ruffiani figura porca!

Beatus stette ad ascoltare questo linguaggio umano, poi li tranquillò tutti e due e disse:

— Dividiamo il pst pst a metà.

Dopo tutto, le spese le aveva fatte lui, il povero rosignolo, il povero gallo.

Ah, triste nascimento! Gli parve che come una maledizione cadesse su la sua casa. Quelle due creature davanti a lui che respingevano il nascimento! L’uomo e la donna lì, davanti a lui, respingevano a gara quella vita che correva al suo nascere.

Beatus ne sentì pietà. Non per quella vita, che era lì involta; ma così in genere, come per l’usignolo, come per ogni cosa che vuol vivere.

Oh, fulgore degli antichi riti! O Hymenaee Hymen, O Hymen Hymenaee! [p. 177 modifica]

E Beatus vide le parole del poeta, che correvano alate:

«La forza dell’uomo rapisce la tenera vergine. Già appare la sposa novella. Cinta ha la testa di maggiorana; ha il giallo manto, e il piede di neve è retto dal rosso calzare. Le fiaccole nuziali, nel vespero, scuotono le chiome d’oro.» Canta, per la notte, il grande inno d’amore! Ma l’impeto d’amore trapassa e si placa per la fecondità e per la prole come per attimi meravigliosi: «O uomo, io voglio che un pargolo, dal grembo della madre sua, porgendo le tenere mani, a te dolcemente sorrida dal semiaperto piccolo labbro».

Lì era il padre che respingeva il nascimento; la madre che guardava quel nascimento come un tumore, di cui aveva chiesto al medico l’estirpazione.

«Beatus — disse il campanelluzzo a Beatus — bada che allora si trattava di popolare il mondo, e oggi siamo in troppi».

— E adesso come si rimedia? — domandò Beatus. [p. 178 modifica]

— Faccia lei — rispose l’uomo con indifferenza — una cosa che vada bene.

Ma Scolastica cominciò a querelarsi contro Beatus e dicea:

— Se lei non mi lasciava sola in casa per tanto tempo, tutto questo putiferio non succedeva.

— Be’, be’, be’! questo poi è un po’ troppo — disse Beatus.

E Beatus si levò da sedere, e Ruggero Bonghi vedendo il padrone eccitato, abbaiò.

Anche il calzolaio riconobbe che Scolastica andava al di là del giusto limite. Proprio il signore non ne aveva colpa.

— Va là! che non ne avevi bisogno della guardia.

Beatus ringraziò.

In fondo un buon uomo. Se fosse stato cattivo, avrebbe potuto anche ricattarlo d’accordo con Scolastica.

Guai se il mondo fosse cattivo, come dicono i pessimisti!

Invece lui si rimetteva al signore. Era disposto a riconoscere il figlio o la figlia, quello che è; ed anche a sposare Scolastica, se al signore faceva piacere. Tanto per lui era lo stesso. [p. 179 modifica]

— Se ci pensa lei, io faccio quello che lei vuole. Io sono così! — e soffiò su la palma della mano.

Lui era felice come un povero autentico che può mettere impunemente la sua firma sotto qualunque cambiale. È sicuro che non pagherà. E questa è una gran consolazione.

— Se lei ci fa le spese, perchè no? La legge è questa: paga chi ha.

Lui non aveva niente: quando aveva quattro soldi, li andava a bere all’osteria. E una volta che il vino è nel corpo, non c’è doganiere che ci possa far pagare il dazio.

Beatus disse:

— Ma, io, mio caro, non son ricco.

Ma quell’idiota fece un risolino e disse:

— Vada là, vada là che lei è ricco tanto! Non me le dia da intendere.

In fondo l’idiota aveva ragione: lui, Beatus, era ricco, spaventosamente ricco: aveva mangiato l’ostia, aveva una responsabilità. Forse — cosa tremenda — poteva anche avere un’anima, e forse immortale.! Certamente aveva buon tempo per star lì, sdraiato su quella poltrona.