Il mio diario di guerra/III/Oltre il lago di Doberdò

Oltre il lago di Doberdò

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Oltre il lago di Doberdò



30 Novembre.

Mi hanno detto che per ritrovare il mio reggimento debbo andare a Strassoldo. Parto da Udine alle 17. E’ sera inoltrata quando arrivo a Strassoldo. Paese deserto, poco piacevole. Per questo i soldati lo hanno ribattezzato: Tresoldi. E, forse non vale di più. Nessuno mi sa dir niente di preciso. Provo da dormire in una rimessa. Mi sprofondo nel fieno e trovo il sonno.

Più innanzi saprò qualche cosa di positivo. Me lo assicura un compagno di viaggio, che trovo lungo la strada. E’ un bombardiere, che porta al braccio il distintivo di «militare ardito». L’ha ottenuto — egli mi narra — per il coraggio di cui diede prova, sul monte Cimone, dopo lo scoppio della mina austriaca. Cammin facendo, il discorso cade sulla guerra.

— Hanno fatto male, gli austriaci, a dichiararci la guerra. Li ridurremo alla «mendicazione». — Al Comando di tappa mi mandano in una piccola località vicina. Strada lunga e pesante. Per fortuna c’è un grande sole.

Giungo ad Aquileja, città dalla eterna impronta [p. 164 modifica]romana, a sera tarda. Non mi dimentico di visitare la cattedrale.

1 Dicembre.


Ma non trovo tracce del mio reggimento. E’ stato in riposo, in questi paraggi, mentre io mi trovavo in licenza invernale, ma da qualche giorno è in linea. Oltre Isonzo saprò qualche cosa di preciso. Nelle strade larghe e diritte del basso Isonzo, il movimento è semplicemente formidabile, supera la mia immaginazione. Al bivio di Pieris trovo, conduttore di un camion, un amico interventista della vigilia. Monto sul camion.

Ecco l’Isonzo. Ampio, ceruleo, chiarissimo. Ronchi, quasi intatto. Trovo alcuni sottufficiali miei amici che mi invitano a dividere la loro mensa. Mentre si mangia, gli austriaci mandano quattro granate dirette alla stazione. Grande sinfonia di shrapnels contro un velivolo nemico. Alle ore quattro, partenza. Seguo il mulo che porta la mensa agli ufficiali della mia compagnia. Al bivio Selz-Monfalcone, una grande colonna, fatta con pietre appena scheggiate, reca un’epigrafe che non mi è possibile copiare. I muli vanno in fretta. Il movimento, salvo in alcuni punti, non è congestionato. Passo sotto le cave di Selz. Ora comprendo le difficoltà enormi che dovettero essere superate, per espugnare quel primo grande bastione dell’altopiano carsico. I nostri cannoni tuonano sempre.

I segni delle battaglie sono ancora evidenti. Il [p. 165 modifica]terreno è lacerato. Trincee sconvolte. Casupole rovinate, alberi divelti. Nulla è in piedi. La guerra è passata qui, col suo terribile rullo compressore. Negli angoli, croci solitarie e collettive. E’ il crepuscolo. Mi volto, per guardare la pianura dell’Isonzo. Laggiù, è una striscia di mare.

Doberdò è un nome. Del villaggio non restano che mucchi di macerie. Passiamo vicino ai due laghi o, meglio, due grossi stagni morti. Alcune voci: è la nostra quota. Tumulto di voci. Un camion è fermo: ha portato l’acqua. Trovo i bersaglieri della mia compagnia. Affettuosissime strette di mano. Mi attendevano.

— Si parlava proprio di voi, in questo momento — mi dice un bersagliere amico, di Vernole, provincia di Lecce. Ricordo che egli mi volle portare lo zaino da Quel Taront a Minigos. Non dimenticherò tale atto di affettuosa simpatia da parte di questo umile contadino pugliese.

Salgo ai nostri baraccamenti o ricoveri. «Prendo posizione» nel baracchino del sergente.

Sera di stelle e di luna. Mi presento al colonnello, che si trova in primissima linea.

Nella nostra compagnia ci sono stati quattro feriti da scoppio di granata. Uno dei carabinieri addetti al Comando del reggimento è morto, l’altro ferito.

Il «morale» dei bersaglieri mi sembra elevato, certamente superiore a quello della zona Gamica.

— Abbiamo tanti cannoni! Avanzare sarà facile! — Un senso di fiducia è diffuso in tutti. Andremo [p. 166 modifica]innanzi. La parola d’ordine che circola fra noi, è questa:

— O Duino mangia i bersaglieri, o i bersaglieri mangiano Duino! —

Ore 10 di sera.

Mentre scrivo, i nostri cannoni urlano senza tregua. Sulle quote è un bagliore di raggi e di proiettori. Non so come riassumere le impressioni tumultuose di questa prima giornata di trincea sul Carso. Sono profonde, complesse. Qui la guerra si presenta nel suo aspetto grandioso di cataclisma umano. Qui, si ha la certezza che l’Italia passerà. Arriverà a Trieste e oltre!

2 Dicembre.


Notte tempestosa di bombardamento intenso. I nostri cannoni non hanno avuto un momento di tregua. Stamani piove. Sono le undici. Tre grosse granate austriache. Continua il bombardamento da alcune ore. Passano sulle barelle i nostri feriti. Non sono molti e nemmeno gravi. Ma c’è un morto lassù. Una granata lo ha schiacciato sotto una roccia. Alcune granate sono cadute nel lago sollevando colonne di acqua. Verso sera, sono entrate in azione le nostre batterie. Da qualche ora, gli austriaci tacciono. I nostri cannoni tambureggiano. Mentre scrivo sono giunte tre grosse granate austriache e uno shrapnel. Altre quattro. Nel mio ricovero si gioca tranquillamente a tresette.

Lungo le rive del lago ci sono dei frammenti di [p. 167 modifica]membra umane. Nella selletta due cadaveri di austriaci stanno decomponendosi. Poco lungi, un altro morto insepolto. Giungono, col vento della sera, ondate di tanfo di cadaveri. Nella selletta ci sono due cimiteri: uno austriaco e l’altro italiano. Ieri una grossa granata disseppellì alcuni morti. Macabro. Ora comprendo come il solo nome di Doberdò terrorizzi gli honved ungheresi. Espugnare queste rocce: quale meravigliosa pagina di eroismo latino!


3 Dicembre.

Ho lavorato come un mulo per costruirmi il mio ricovero blindato. Ho un socio che Mi aiuta e che dividerà con me il posto all’albergo! Fuoco intenso delle artiglierie per tutta la giornata. Nel pomeriggio, sette Caproni sono passati su di noi. A sera fatta, incursione di velivoli nemici.


4 Dicembre.

Pioggia, stanotte. Mattinata livida e tranquilla. Mentre scrivo passano quelli che hanno «marcato visita».

Il tempo è indubbiamente alleato dei tedeschi. La pioggia ci costringe a dei «rinvii» che permettono agli altri di fortificarsi. La pioggia ci demoralizza. Noi siamo figli del sole! La terra del Carso è attaccaticcia, Non v’è modo di liberarsene. E’ [p. 168 modifica]rossa più del sangue umano. Sono stato a fare una visita al Cimitero ungherese o italo-ungherese. Su una tavola della porta sta scritto:

exoriare aliquis ex ossibus nostris ultor.

Ci sono molte croci, ma quelle del Cimitero italiano sono più numerose. Di feriti, finora, quattro soltanto, per lo scoppio di una granata; uno solo di questi, grave, ma non mortale.

Pomeriggio quasi calmo.

Nel crepuscolo della sera, le gobbe delle quote del Carso, si presentano come divorate, lacerate dalla scabbia. Cielo nubiloso. Solito reciproco e abbastanza innocuo cannoneggiamento serale.

Stasera, niente posta.

Una voce: il bombardamento per l’avanzata comincerà stanotte. Vedremo e sentiremo. Mentre scrivo, sulle creste dietro a noi è tutto un vampeggiare e un tuonar di cannoni. Che sia il preludio?


5 Dicembre.

Cielo buio e terra più livida ancora. Finito il mio ricovero. E’ venuto l’ordine di spostarci. Succede sempre così. Ora mi trovo in trincea sui margini del lago di Doberdò. Radi uccelli bianchi e neri volano sulle acque che il vento mattinale increspa appena. Io lavoro a farmi una nuova tana. Lago di Doberdò! Chi vive a lungo presso le tue rive, perde l’abitudine umana del riso. Qui la tragedia, prima ancora di essere negli uomini, è nel [p. 169 modifica]terreno. Da tre ore i cannoni austriaci ci bombardano. I nostri rispondono. Qualche volta non si capisce quali siano i colpi in partenza e quali quelli in arrivo. Nel cielo è tutto un sibilare di granate che vanno e che vengono. Durante un bombardamento, io non amo la compagnia. Mi piace di starmene solo. Ho la superstizione che sia più difficile trovarmi.

Un lembo di azzurro verso Duino. I pali metallici che conducevano l’energia elettrica da Monfalcone a Gorizia, si rincorrono per lungo tratto e visti in lontananza, di notte, sembrano croci gigantesche di un cimitero sterminato.

Quanto sangue ha bevuto e berrà questa terra rossa del Carso?

Un tenente, che viene a trovarmi, mi dà le prime notizie sugli effetti del bombardamento di stamani.

I cannoni continuano ad urlare. Sono le quattro. Il tenente che comanda la mia compagnia mi invita a dividere la mensa serale degli ufficiali. Sono con lui vari sottotenenti, di cui uno ha il comando del mio plotone.

Il ricovero è così basso, che non si può stare nemmeno seduti. Notte. Raffiche di vento e di pioggia. Dalle 9 alle 10 intensissimo bombardamento alla nostra sinistra. E’ un mugghiare ininterrotto di grossi calibri. Un tambureggiamento sordo che giunge alle orecchie come il boato di un uragano. Piove, ma io e il mio compagno siamo abbastanza bene riparati nel ricovero nuovo che ci siamo costruiti in poche ore di lavoro. Anche stasera, niente posta. Meglio cercare il sonno. [p. 170 modifica]

6 Dicembre.


Stanotte, il mio compagno mi ha svegliato bruscamente.

— «Cristiga»! Siamo in mezzo all’acqua! —

Accendo un mozzicone di candela. Il ricovero è inondato e l’acqua vien giù a catinelle. Ci proviamo a vuotare la tana con le gavette, ma è fatica inutile. Ci decidiamo a mettere tre tavole in alto e lì ci distendiamo — bagnati fradici — ad attendere l’alba. D’ora in ora, si accendeva un fiammifero, per constatare la crescita dell’acqua. Finalmente, l’alba. Verso Aquileia, c’è un vasto tratto di sereno, ma dietro a noi, verso l’Austria, il cielo è cupo. Se venisse il sole! Il buon giorno ci è stato dato stamane dai cannoni austriaci: tre colpi di piccolo calibro finora. Comincia il solito martellamento dei nostri. Quando piove, nelle trincee del lago di Doberdò, si sta peggio che sull’Adamello in una notte di tormenta. Queste sono trincee costruite sotto il fuoco dei cannoni e risentono dell’improvvisazione. Sono muretti di sassi. I dispersi: ce ne uno, nostro: un bersagliere ciclista caduto colla faccia protesa in avanti mentre andava all’assalto. Vicino a lui, il moschetto con la baionetta innastata. E’ là, solitario. Perchè nessuno si cura di seppellirlo? Forse per conservare alla famiglia un’ultima illusione sul «disperso»? Un po’ di sole. Bombardamento pomeridiano inevitabile. Loro tirano sul Kri-Kri, sul rovescio di quota 208, e nella selletta fra prima e seconda linea nostra.

Verso la pianura s’inalzano adagio adagio tre [p. 171 modifica]grandi palloni-drago. Qualche colpo dei loro fa cilecca. Specie i grossi calibri.

Passano in alto, lentamente, quasi ansimando e gemendo i grossissimi proiettili che vanno molto lontano. Io, tutto solo, fuori della mia tana — a mio rischio e pericolo — mi godo lo spettacolo auditivo e visivo. Rombo di un velivolo nostro che fila verso Gorizia. Dal Golfo di Panzano s’addensano nuove nubi temporalesche. Finché dura lo scirocco non farà bel tempo. Crepuscolo tranquillo. Sono andato a trovare un amico tenente, romano, che ora comanda una sezione di mitragliatrici. Non lo vedevo più dal Rombon. Egli mi ha narrato che i disertori austriaci hanno manifestalo tutti un sacro terrore dell’artiglieria italiana. Molti di loro venivano dalla Galizia.

— Là, è un paradiso a paragone del Carso — dicono. — L’artiglieria russa fa pum-pum-pum a lunghi intervalli, ma non fa il fuoco a tamburo come l’italiana. —

Il rancio giunge alla sera. È l’unica distribuzione dei viveri in 24 ore. La razione è ridotta. L’appetito è sempre quello. Serata movimentata. Verso le nove, un attacco nemico si è delineato alla nostra sinistra, su quota 208. Dopo un vivo fuoco di fucileria, sono entrati in azione i nostri piccoli calibri. Sono uscito dal ricovero per vedere di che si trattava. Un nostro proiettore illuminava la selletta fra la quota 208 e la nostra. Tutto il costone era punteggiato dallo scoppio ininterrotto dei nostri shrapnels e delle nostre granate. Il tambureggiare violento era di quando in [p. 172 modifica]quando soverchiato dallo scoppio dei grossi proiettili. Tutto il costone era avvolto in una nube di fumo, rossigna, squarciata spesso dai raggi. Tutti i bersaglieri, armati, sono usciti dai ricoveri. Il fuoco dei nostri cannoni ci elettrizza. Una quarantina di minuti è durato il tambureggiamento. Ora è finito Passando dai ricoveri, ho raccolto le impressioni dei miei commilitoni.

— Qui si vede la forza degli italiani!

— Non è più come sullo Jaworcek

— Adesso sono loro che si «spicciano»!

— Devono avere avuto una buona scopola!

— Hanno fatto male a muoversi i tedeschi, moltissimo male! —

Passa un nostro ferito, colpito da una scheggia di granata al piede.

Alla 6ª compagnia c’è stato un morto. Ora è silenzio. Soltanto le vedette sparano straccamente. Vicino a me, i mitraglieri di una «sezione» lavorano a farsi i ricoveri. Canticchiano sommessamente:

Bella bambina,

Capricciosa garibaldina,
Tu sei la stella,

Tu sei la stella di noi soldà.

La voce dei nostri cannoni: ecco l’argomento travolgente per tenere elevatissimo il «morale» dei soldati. Cielo velato dalla foschìa. Attorno alla luna è un cerchio.

— Cerchio lontano, pioggia vicina, — mi dice [p. 173 modifica]un tenente e aggunge: — Me ne rincresce, perchè ciò rimanda la nostra avanzata. — Ce un po’ d’impazienza in tutti, anche nei più negativi! Avanzare! La lotta, col suo apparato avventuroso, emozionante, e malgrado i suoi rischi, affascina il soldato. La stasi debilita. L’azione rinfranca. Stanotte bisogna dormire con un occhio aperto.

7 Dicembre.


Tanto per cambiare, piove a dirotto. Il nostro ricovero è un guazzetto di acqua e di fango. Stamani, in un’ora di sosta, le nostre artiglierie avevano aperto un fuoco violentissimo sulle posizioni nemiche. Ora tacciono. Quelle austriache brontolano alla nostra sinistra. La pioggia è il quinto nemico nostro ed è, forse, il più massacrante di tutti.

Gli automobilisti non sono imboscati perchè sono indispensabili. Quelli che tutte le sere ci portano acqua e viveri a duecento metri di distanza dalle nostre trincee di prima linea, rischiano la pelle come noi. Non è molto che un camion con un carico di granate è stato colpito in pieno, lungo la strada di Doberdò, da un proiettile nemico. Coloro che lo guidavano sono andati in pezzi.

Mezzogiorno: piove sempre e più forte. Iersera, dopo sei lunghi giorni di privazione, mi è giunto il Popolo, primo numero dopo lo sciopero tipografico milanese. [p. 174 modifica]

8 Dicembre.


Ieri sera, sull’imbrunire, ci siamo spostati alla trincea estrema della nostra linea. Pioveva forte. Ci siamo allogati in una tana fangosa. Rada fucileria. Sciupìo di razzi. Gli austriaci sono a 30-50 metri da noi. Ieri sera lavoravano intensamente. Si udiva lo spicconare e il battere delle mazze. Stamani non piove, ma l’orizzonte è grigio. Le artiglierie lavorano, ma senza impegnarsi troppo. Nei ricoveri abbandonati dagli austriaci sul rovescio del Debeli, abbiamo trovato delle mazze ferrate. Da nostra trincea ha qui un tracciato così bizzarro, che potremmo essere colpiti di fronte e di fianco. Ma fra noi e i tedeschi è convenuto una specie di tacito accordo, per cui non ci spariamo. Noi li vediamo e lasciamo inoperosi i nostri fucili; essi ci vedono (e noi ci facciamo vedere anche troppo!) ed «essi» non tirano. Siamo qui, in queste buche di fango, inchiodati, immobili nell’attesa del nostro destino.

La pioggia di questi giorni ha abbassato un po’ il livello del «morale» bersaglieresco. Siamo tutti bagnati, fradici, non abbiamo che una coperta e il cappotto: siamo privi degli zaini e non li riavremo se non tornando a riposo. Non un lembo di azzurro: cielo uniforme, bigio, come il saio di un frate, e sgocciolante.

Gergo di guerra:

spazzola = fame;

fifhaus = rifugio sotterraneo blindato.

La nostra trincea cinge il campo dell’ultima [p. 175 modifica]battaglia del novembre. Nelle buche dei 305 abbiamo raccolto e sepolto i cadaveri degli austriaci. Attorno, un po’ di calce bianca.

9 Dicembre.


Pioviggina. Però, sembra che l’orizzonte voglia finalmente schiarirsi. Comincia la sinfonia quotidiana dei grossi calibri. Gli austriaci sparano poco con calibri piccoli. Tambureggiamento dei nostri.

Stanotte un prigioniero austriaco si è dato spontaneamente alle vedette della 7ª compagnia. Egli ha raccontato che il nostro fuoco dell’altra sera ha cagionato gravi perdite agli austriaci. Il prigioniero è l’unico superstite di un posto colpito in pieno. Gli altri tre sono morti. Una nostra pattuglia si è recata al piccolo posto ed è tornata con tre zaini tirolesi e sette fucili.

Pomeriggio. Un raggio melanconico di sole. Una granata austriaca è caduta nella «loro» trincea. Immediatamente hanno levato tre razzi per avvertire dell’errore. Fetore di cadaveri insepolti o mal sepolti. Sereno? Un raggio di sole ha squarciato la fitta tendina nuvolosa che ci mortificava e aduggiava da parecchi giorni. Ne approfittano le artiglierie. Un nostro 280 apre nei reticolati della loro trincea un varco di almeno dieci metri. «Loro» ci battono a shrapnels. C’è un ferito alla 7ª compagnia, ma non è grave. Il cielo si rasserena e si rasserenano gli animi. Il concerto continua.

Un grosso proiettile è calato in pieno su alcuni [p. 176 modifica]ricoveri avanzati. Ci sono uomini fuori di combattimento.

10 Dicembre.


Stanotte, dalle 2 alle 3, lavorato a scavare un camminamento fra le nostre prime linee. Nelle tenebre, appena rischiarate dalla luna dietro le nubi, il campo di battaglia dell’ultima nostra avanzata presenta un aspetto fantastico. Non si vedono, nel terreno sconvolto e frantumato, che detriti e rottami di ogni specie. Ondate di lezzo cadaverico. I tedeschi lavorano indefessamente ogni notte dalle sei della sera alle sei del mattino. Cento mazze picchiano le basamine e cento mine scoppiano nella notte. Questo lavoro non ci impressiona eccessivamente. Noi sappiamo che nulla resisterà all’azione delle nostre artiglierie. Stamani cielo grigio. Ore dieci: ripresa un po’ stanca dei grossi calibri. Il concerto si accentua, mentre l’orizzonte si rischiara.

Jamiano, il paese che fu raggiunto e abbandonato nella nostra avanzata del novembre, non dista da noi, in linea d’aria, più di 500-700 metri. Un 305 che passa ogni quindici minuti — regolarmente — sulle nostre linee, mugola come un tranvai. Pomeriggio di pioggia sottile, implacabile! Nella trincea, silenzio. Qualcuno canticchia, ma sommessamente, senza convinzione. Qualche colpo intermittente delle artiglierie aumenta la melanconia. L’attacco austriaco dell’altra notte a quota 208 [p. 177 modifica]è stato riferito nel Bollettino del Comando Supremo in questi termini: «Sul Carso continuò ieri l'attività delle artiglierie. La sera, l’avversario, dopo violenta preparazione di fuoco, tentò due successivi attacchi contro le nostre linee a nord-est della quota 208 sud e fu nettamente arrestato e respinto ».

11 Dicembre.


Ieri sera siamo rientrati, dagli avamposti, all’accampamento. Pioveva forte. Molli sino alle ossa, abbiamo atteso pazientemente il cambio. Nell’atto di cedere il mio... appartamento al nuovo venuto — l'ospite ignoto, — questi mi ha chiesto:

— Dove sono i tedeschi?

— Lì, a venti metri.

— Tirano col cannone?

— No, perchè siamo troppo vicini a loro.

— Colle bombe?

— Nemmeno. —

Mezzanotte. La pioggia è cessata e il vento impetuoso fa galoppare le nubi. E’ terminato adesso un violento attacco austriaco di sorpresa, contro la nostra linea. Dormicchiavo. Sono stato svegliato dagli scoppi striduli delle bombarde. Poi la fucileria ha iniziato il fuoco. Violento. Sembra il ticchettio di una gigantesca macchina da scrivere. Sono con me, nella nuova tana, alcuni bersaglieri.

Qualcuno mi dice:

— Picchiano? [p. 178 modifica]

— Pare! E forte! —

Il fuoco dell’artiglieria nemica aumenta di vigore. Gli shrapnels scrosciano sui ricoveri e, poi, è tutta una pioggia di schegge e di sassi. Silenzio d’attesa.

Un grido vicino lacera l’aria:

— Portaferiti! Portaferiti! —

Ora le nostre artiglierie sono entrate in funzione. E’ un concerto infernale.

— Giovanotti, armatevi e tenetevi pronti! — ordino ai compagni.

Un tenente passa correndo da riparo a riparo, urlando:

— Bersaglieri, armatevi, ma non uscite dai ricoveri! — La tempesta delle artiglierie continua, con un crescendo indiavolato. La fucileria, sopraffatta dalle esplosioni, non si sente più. Lo scoppio dei grossi proiettili fa sussultare la collina. Noi, immobili, attendiamo sempre.

E’ finita. Passa un ferito alla testa, ma non è grave. Cammina, senza scarpe, sul fango, saltellando verso il posto di medicazione. Tre barelle di feriti alle gambe. Un altro portao a spalla. Un ferito al braccio. Due sono gravi. Vanno senza un lamento.

— Sergè, quaggiù c’è uno che non si muove più. E’ colla faccia a terra...

— E’ morto?

— Non lo so.

— Voltalo e portami il piastrino di riconoscimento. [p. 179 modifica]— È morto. È il romano. — Un gruppo di bersaglieri è raccolto attorno al cadavere. È stato fulminato da un palletta di shrapnel, mentre usciva dal ricovero. Appello delle squadre. Nel mio plotone nessun ferito. Nelle altre compagnie ci sono alcuni uomini fuori di combattimento.

Mattinata temporalesca. Burrasca. Le artiglierie tacciono. Mezzogiorno solatìo. Usciamo tutti al sole malgrado gli shrapnels. Ci asciughiamo un po’. Nel pomeriggio i loro cannoni tirano qua e la. Mentre scrivo, tirano sulla nostra terza linea, ma le granate cadono nel lago sollevando colonne di acqua. Dal punto dove mi trovo si vede un piccolo tratto di mare. Una domanda che i bersaglieri mi rivolgono spesso:

— Quanto siamo lontani da Trieste? —

Il tenente che comanda la mia compagnia è stato promosso capitano. Gli mando le mie felicitazioni.

— Per «bagnare», le stellette ci vorrebbe un barile di grappa... — commenta un bersagliere che prima della guerra dimorava a Trieste.