Il mio diario di guerra/III/Al capezzale di Benito Mussolini

Al capezzale di Benito Mussolini

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III - Il Re visita Benito Mussolini e i suoi compagni feriti

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Al capezzale di Benito Mussolini

Corrispondenza di Sandro Giuliani al Popolo d'Italia



Dal Carso, 1° Marzo


L’altra sera, dal Popolo d’Italia, ho appreso il tragico incidente di guerra che per poco non costò la vita al nostro valoroso combattente.

La mia trepidazione, il mio dolore furono il dolore e la trepidazione vostra. Non occorre che ve ne scriva.

Poco più tardi potevo procurarmi dei giornali di Roma. Si diceva che le ferite di Mussolini erano molte, ma non gravi; mi tranquillizzai un poco; non tanto però da saper rinunciare all’istintivo proposito di correre da Lui, di abbracciarlo, di avere una più esatta e sicura idea del suo male.

Chiesi ed ottenni subito il necessario permesso notevole cortesia della quale sono assai grato al Direttore della mia unità.

Dove fosse l’Ospedaletto 46 non fu possibile saperlo. Non risultava che esso esistesse. Pensammo ad un errore. Convenimmo nel credere che si trattasse del 046, in funzione presso Cormons. E la mattina dopo partii. [p. 226 modifica]

Quali siano state le delusioni e l’amarezza provate arrivando, vi sarà facile immaginare. Trovai l’Ospedaletto, ma il ferito nostro non c'era! Perdetti così, inutilmente, la mia giornata, riuscendo tuttavia a sapere che il 46 era molto lontano: ad Aquileja.

Tornai alla mia residenza con l’anima in pena, sconfortato, avvilito. Mi restava una sola speranza: quella di avere un secondo permesso. E lo ebbi, infatti.

Ripartito stamani per tempo, autorizzato ad usufruire d’ogni mezzo di trasporto, mi diressi ansiosamente alla mèta. Marciai in tutti i modi, con tutti i mezzi: con camions, con carri d’artiglieria, con carretti carichi di materiale, in molti tratti... pedibus calcantibus. Ma marciai sempre.

Alle quattro del pomeriggio, a Sagrado, mi imbattei in Manlio Morgagni — il direttore amministrativo del nostro giornale — e nel collega Garinei del Secolo. Tornavano da una visita a Mussolini. Appresi da essi che l’eroico soldato aveva molta febbre e che l’Ospedaletto 46 non era più ad Aquileja, ma a Ronchi.


Da Sagrado a Ronchi — sei o sette chilometri — non trovai alcun mezzo di trasporto. Giunsi lo stesso, però. E giunsi presto!

All’ingresso dell’Ospedaletto — situato in una bella palazzina rimessa a nuovo dopo le «ingiurie» della guerra — mi si precluse il passaggio.

Il sottufficiale d’ispezione aveva una consegna [p. 227 modifica]precisa e non era disposto ad infrangerla a nessun costo.

— I medici hanno proibito ogni visita. Ce ne sono state troppe! il ferito è molto sofferente. Ha la febbre a 40, stasera. Egli stesso desidera di essere lasciato in pace. Mi dispiace tanto, ma è impossibile. —

Declinai la mia qualità di redattore del Popolo, dissi la mia angoscia per la sorte di Lui, parlai dei mio affetto fraterno per il mio Direttore e Maestro...

Nulla!

Domandai di parlare col Direttore dell’Ospedaletto, con qualche medico... Fui accompagnato dal tenente dott. Scipioni. Ripetei l'esser mio, lo scopo del mio viaggio; domandai se era solo concepibile che fossi venuto da tanto lontano per... tornarmene via senza aver veduto Mussolini!

L’ufficiale comprese.

— Aspetti! Ma le raccomando: visita breve. —

Promisi e... non mantenni.

Due minuti dopo, ero vicino a Lui. Il nostro incontro fu sinceramente commosso. Io lo baciai in fronte. Egli sorrise lietamente. I suoi occhi luminosi facevano il posto alla parola. Dicevano chiaro che la mia apparizione inattesa era molto gradita. Per un poco tacemmo. Lui soffriva. Io non sapevo come cominciare...


— Come state?

— Sto bene!

— Avete molta febbre? [p. 228 modifica]

— Passerà! —

La cartella termografica segnava 39,9. Gli manifestai i miei sentimenti migliori, i voti dei compagni, degli amici, degli estimatori suoi, di tutti gli onesti, di tutti i buoni, perchè la guarigione fosse sollecita e completa.

— Guarirò completamente e presto. —

L’aiutai, insieme ad un infermiere, a cambiar posizione nel letto. Lo interrogai sulle cause dello scoppio.

— Non le so bene — egli rispose — Poi raccontò il fatto come è raccolto nel suo Diario.


Domandai a Mussolini come avvenne la sua assegnazione ad una squadra di lanciatorpedini.

— Nel modo più semplice — egli rispose con grande serenità. — Il primo di febbraio potevi andare in Italia per un periodo di tempo più o meno lungo. Ho preferito — e l’ho fatto di mia volontà — di passare al comando di una sezione lancia torpedini, agli ordini di un ufficiale. Alla guarnigione italiana ho preferito le doline del Carso; sulla quota più tragica. Ecco tutto. —

Così dicendo, egli scrollava lievemente la testa sul guanciale. Gli occhi si spalancarono... anche di più.

Un sorriso di compiacenza — quel suo bel sorriso caratteristico, nervoso e cristallino che voi ben conoscete — gli illuminò il volto pallido. Lo accarezzai sulla fronte. Il gesto mi ricordò che egli aveva la febbre alta. La mia presenza diventava, involontariamente, un martirio. Lo facevo parlar [p. 229 modifica]troppo. Me ne accorsi. Glielo dissi. Lo esortai a non sforzarsi. Poi soggiunsi:

— Darò notizie di questa mia visita ai nostri compagni, agli amici.

— Sì, fatelo. E dite chiaro e forte che per il trionfo degli ideali di giustizia che guidano gli eserciti della Quadruplice, avrei accettato, senza rimpianti, anche un più duro destino. Dite che sono orgoglioso di avere arrossato col mio sangue, nell’adempimento del mio più rischioso dovere, la strada di Trieste! —


Parliamo d’altro per un poco. Poi induco il valoroso al silenzio, affondando le mani in enormi fasci di telegrammi e di lettere che sono sul comodino, su una sedia, ai piedi del letto.

Tra i primi dispacci che mi càpitano in mano, ne trovo uno assai premuroso e cordiale del ministro Comandini. Ne vedo quindi di persone di ogni condizione sociale: dal nobile Guido Notari dei Duchi della Rovere ai più modesti ed umili operai.

Il ministro Comandini ha telegrafato così:

«Commosso per il battesimo glorioso che ti ha piagato e fortificato, ti mando i più fervidi voti di guarigione sollecita e completa».

L'eroica madre di Filippo Corridoni telegrafa da Pausula poche parole:

«La mia famiglia è estremamente commossa e le è vicina» [p. 230 modifica]Nelle poche parole è tutta l'anima della donna semplice e stupenda.

Margherita e Cesare Sarfatti si esprimono così:

«Salutiamo il caro amico, l’eroico combattente, ammirati, trepidanti, auguranti».

E il Dottor Risi:

«Saluto le tue gloriose ferite che in idealità nobilissima leniscono e guariranno».

E l’on. Bossi, da Genova:

«Personalmente e per il Comitato nazionale antitedesco, auguro fervidamente di rivederti presto più che mai valida guida nelle lotte del fronte interno, non meno importante del fronte esterno, dove ti temprasti ed emergesti tanto».

Ma uno spoglio completo è impossibile.

Vedo, tra gli altri, dispacci assai affettuosi del tenente medico dottor Alberto Mostari — ferito insieme a Mussolini nel tragico accidente di guerra — ; del collega Uccelli del Corriere della Sera, dell’avv. Ermanno Jarach di Milano, del compagno Calassi, di Giampaolo Manfredi da Castel di Sangro: di un numeroso gruppo di amici di Roma; del Gruppo socialista torinese dissidente, della Sezione repubblicana milanese, dei Socialisti dissidenti di Firenze, della Lega antitedesca di Milano, dei giornalisti romani e milanesi, della «Fratellanza Fratti» di Forlì, della «Stampa periodica», dei «Fascisti milanesi», dell’ing. Vaisecchi, di [p. 231 modifica]Clemente Pinti, del Comitato delle Federazioni dei Gruppi autonomi di Milano, del Comitato di propaganda patriottica pure di Milano, dell’ex Consigliere comunale Luigi Bonomelli e di moltissimi e moltissimi altri.

Il maggiore dei bersaglieri R. D. dello stesso reggimento del nostro valoroso soldato, scrive così:

«Caro Mussolini, non ti raccomando di farti animo. Ti offenderei, perchè ti conosco mio fiero bersagliere. Ti auguro di cuore pronta guarigione per averti ancora tra i miei e presto. Arrivederci, mio buon camerata della trincea, e viva l’Italia!».

Alfonso Vaiana dice:

«Le idee sopravvivono agli uomini; però quando le idee hanno assertori della vostra tempra, diventano altari sui quali gli uomini si immolano volentieri. Per questo vi auguro la vita e la salute».

E il dottor Ambrogio Binda, capitano medico, da Milano:

«Fervidissimi auguri ed un abbraccio. Ti aspetto qui!».

Vedo poi lettere e telegrammi ben auguranti di Dante Dini, di Giovanni Capodivacca, di Giselda Brebbia, Ida Bacchi, da Milano; Camillo ed Erminia Guaitani da Cassano d’Adda, Luigi Boni da Forlì, l’editore Ferdinando Zappi da Verona, un gruppo di operai da Torino; prof. G, C. Ferrari [p. 232 modifica]da Imola; soldato G. B. Ronconi, Pietro Montani da Reggio Emilia, ecc.

Mi pare di chiudere degnamente la manata di auguri scelti a caso, con la trascrizione letterale di questo messaggio da Ferrara:

«Egregio, come posso augurare bene a mio figlio, combattente sul Carso, auguro a Voi, soldato Italiano socialista, una pronta guarigione. Vostro Angelini Giovanni, umile lavoratore».

Quanta nobiltà e quanto cuore in queste poche righe modeste!


Il tempo urge. Annotta. Mussolini è preso, via via, da un accentuato torpore. Anziché a diminuire, la febbre accenna ad aumentare. Gli sussurro qualche parola. Apre gli occhi, mi tende la mano, sorride lievissimamente.

Che dovizia di affetti in questi telegrammi, in queste lettere!

— Veramente! — risponde il nostro eroico bersagliere. — Veramente! Ringraziate gli amici che sono stati con me in quest’ora. Ringraziateli ai grido di «Viva l’Italia!». —

Il volto di Mussolini, incorniciato dalle bende che gli fasciano la testa, mi appare assai più pallido, ora. Anche la fronte scotta.

Mi chino su Lui. Ci scambiamo un bacio. Mi allontano volgendomi verso il letto. I suoi occhi scintillanti e neri — singolari e suggestivi tra il candore del viso, del letto, delle fasce, di tutto — [p. 233 modifica]sono di strano contrasto con tanto bianco. Ma sono stupendamente sereni.

All’uscita, mi intrattengo con i dottori Scipioni e Calvini.

Le condizioni di Mussolini — essi mi dicono — non sono gravi. Non sono neppure così lievi come qualcuno ha raccontato. Tutt’altro. Egli ha molte ferite trapassanti e a fondo cieco, negli arti inferiori. Una di esse, alla coscia destra, è vasta circa dieci centimetri. Altre ferite interessano il capo, la spalla destra (la clavicola è rotta) e, più grandemente, la mano destra, nella quale si riscontra la lesione del carpo. Le schegge trovate sul suo corpo, in seguito ad esami radiografici, sommano a circa quaranta. Sono state estratte quasi tutte in due successivi tempi (operazioni). La febbre alta che lo ha preso non deve preoccupare. Essa è dovuta ai processi infiammatori della ferita alla gamba, ove profilasi il pericolo di un flemmone. Scemerà. In ogni modo, salvo ogni complicazione, Mussolini ne avrà per almeno una cinquantina di giorni. Se scompare la febbre, potrà lasciare questo Ospedaletto tra circa una settimana. —

Ho raccolto queste notizie per gli amici. Mi sono congedato con l’anima triste e sollevata insieme.

A notte alta — splende la luna e tuona il cannone — butto giù queste note affrettate. Fa freddo.

La mattina del 2 aprile Benito Mussolini, [p. 234 modifica]accompagnato dal Dr. Piccagnoni, direttore dell’Ospedaletto da campo ove era stato ricoverato appena fu ferito, giunse a Milano, accolto con vivissime attestazioni di affetto da parte dei Redattori del Popolo d’Italia e di molti amici che ne attendevano ansiosi l’arrivo.

Con grandi precauzioni fu tolto dal tettuccio del treno, e trasportato all’Ospedale territoriale della Croce Rossa di via Arena, ove fu ricevuto dal capitano dott. Ambrogio Binda, legato a Mussolini da vincoli di fraterna amicizia.


Il Dott. Binda così parla del periodo in cui ebbe in cura il ferito.

Lasciando il campo, Mussolini mi scriveva: «Sono stanco, ho bisogno di riposo. Trovami un letto nel tuo ospedale».

Ed entrò nel mio reparto la mattina del 2 aprile.

Mussolini era enormemente deperito, fortemente anemizzato e febbricitante.

Venne ricoveralo in una modesta stanzetta al secondo piano. Doveva sottostare, prima quotidianamente, poi a giorni alterni, a lunghe e dolorose medicazioni, che egli sopportò con uno stoicismo ed una forza d’animo impressionanti anche per noi, rotti a tutti gli orrori delle ferite prodotte dalle armi moderne.

Non volle mai la narcosi, neppure quando si trattò di operazioni necessarie complementari.

Era soprattutto la ferita alla gamba destra, che per la scopertura dei tendini e dei nervi rendeva spasimante la medicazione. [p. 235 modifica]Una sola era la sua preoccupazione: «Dimmi, Binda, riprenderò le funzioni dell’arto? Potrò ritornare in trincea?».

Passava il suo tempo studiando il russo e l’inglese e leggendo opere letterarie e politiche.

Nelle ore pomeridiane aveva la costante compagnia della sua Signora, della buone e gentile signora Rachele, e dei suoi figli Edda e Vittorio. Bruno non era ancora nato.

Durante la sua degenza all’Ospedale, non vi fu uomo politico — italiano o alleato — che, passando per Milano, non abbia sentito il dovere di porgere un saluto ed un augurio al nostro martire.

Aveva una parola affettuosa per tutti i suoi compagni d’ospedale, sui quali non voleva avere precedenza nell’attesa delle medicazioni.

Non ricordo più chi — dei grandi clinici o pensatori — ebbe a dire che la prima medicina per la guarigione è la volontà. Mai, come nel caso di Mussolini, ebbi a constatare la verità di questa affermazione.

Voleva guarire, voleva che la sua gamba riprendesse la funzione; e non c’erano dolori che lo fermassero nei suoi sforzi.

Nel suo corpo rimasero e tuttora vi sono, schegge all’omero destro, alla coscia destra, alle ossa della gamba destra e alla mano sinistra. E qualche volta si fanno sentire!

Nell'agosto, Mussolini lasciò l’Ospedale sorreggendosi con l’aiuto delle grucce, [p. 236 modifica]

Tutta la stampa italiana di quel tempo ha pubblicato la notizia del ferimento di Mussolini con commenti di simpatia e di rammarico.

E la stampa francese, poi, se n'è pure occupata largamente ed ha avuto per lui parole cordialissime di solidarietà.

Tra i giornali esteri vanno notati: Journal des Débats, Le Figaro, Liberté, La France, Libre Parole, Homme Enchàiné, L’Eveil, La Victoire, Humanité, Bataille, Action Francaise e Radical.


Fine.