Il mio diario di guerra/II/Dalle falde dell'Jaworcek alle vette del Rombon

Dalle falde dell’Jaworcek alle vette del Rombon

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Dalle falde dell’Jaworcek alle vette del Rombon
II II - Un mese tra le montagne della Carnia

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Dalle falde dell'Jaworcek alle vette del Rombon



15 febbraio


Caporetto. E’ la quarta volta che passo da questa piccola città slovena, che i nostri occuparono appena varcato il confine. Al Comando di tappa trovo ancora lo stesso capitano e i sottufficiali che c’erano nel settembre. Nulla di cambiato. La città mi appare più pulita, oserei dire ringiovanita, ma più silenziosa e deserta. Pochi soldati, pochi carri. Il vertiginoso movimento dei primi mesi di guerra esiste ancora, ma è stato deviato alla periferia dove è sorta la città militare con strade larghe e ampie piazze. Anche la popolazione non è cambiata. Entro in alcuni negozi e trovo ancora le facce enigmatiche che notai la prima volta. No. Questi sloveni non ci amano ancora. Ci subiscono con rassegnazione e con malcelata ostilità. Pensano che noi siamo di «passaggio», che non resteremo; e non vogliono compromettersi, nel caso in cui ritornassero, domani, i padroni di ieri.

Pomeriggio grigio. Mi dirigo verso il Cimitero [p. 98 modifica]militare. C’erano nel novembre trecento fosse, ora ce ne sono settecento. La siepe di filo di ferro è sostituita da un muro di cinta. La cappella reca nella sua parte esterna questa epigrafe:


per rivendicare i termini sacri

che natura pose a confine della patria

affrontarono impavidi

morte gloriosa.


il loro sangue generoso

rende sacra

questa terra redenta


2 novembre 1915



Si scavano altre fosse laggiù... Ritrovo sulle croci i nomi di alcuni miei compagni dell’11°. Esco dal Cimitero e mi reco al Tribunale Militare. C’è udienza. Si discute il processo contro il sergente Nicelli di un reggimento di fanteria, imputato di diserzione. Il P. M. chiede l’ergastolo, ma il Tribunale esclude la diserzione e condanna Nicelli, per abbandono di posto, a venti anni di reclusione, previa degradazione. Il Nicelli ascolta il verdetto con indifferenza e se ne va fra i carabinieri. Segue un soldato semplice, siciliano, imputato di un delitto analogo e viene assolto. [p. 99 modifica]

16 Febbraio.

Zaino in spalla, di buon mattino. A piedi sino a Ternova, in camion da Ternova a Sepenizza. Qui mi vien detto che la mia compagnia si trova alla destra dell’Isonzo, in una località detta Sorgente.

In marcia! Ecco l’Isonzo sempre impetuoso, sempre ceruleo, ma, giungendo alle sue rive, vicino alla passarella, vengo accolto da alcune cannonate da 280. Vecchia conoscenza. E come non bastasse il 280, entra in azione un 305. Sosta di un’ora. Passaggio del fiume. A pochi metri dalla passarella c’è un 305 inesploso e monumentale come il carabiniere di guardia. Alcuni minuti di strada e sono ai baraccamenti invernali occupati dalla mia compagnia. I vecchi commilitoni, che avevano avuto qualche notizia del mio arrivo, mi salutano e mi abbracciano con effusione vivissima. Petrella, mio compagno di trincea, mi bacia. Conoscenza di alcuni ufficiali nuovi, fra i quali il tenente Danesi, giovanissimo, appena uscito dalla scuola di Modena. I vecchi amici sono quasi tutti presenti. La compagnia è in rango, armata. Sono proprio arrivato al momento opportuno. E’ giunto l’ordine improvviso di salire nella zona del Rombon e precisamente sul Kukla che gli alpini hanno perduto dopo un attacco di sorpresa. E’ già notte quando la compagnia si mette in marcia. Notte di stelle! Camminiamo — in silenzio — per qualche chilometro, lungo la strada imperiale di Plezzo; poi, giunti dopo Osteria al Ponte Rotto, prendiamo a sinistra e cominciamo a salire. [p. 100 modifica]Panorama meraviglioso. Abbracciamo con lo sguardo tutta la Conca di Plezzo, inondata dal plenilunio. Otto ore di marcia. Attraversiamo Plusna, rasa al suolo dagli austriaci, e giungiamo alla tappa. In una baracca angustissima, capace di appena venti persone, troviamo posto tre plotoni. Facciamo mucchio. E’ accanto a me un bersagliere nuovo venuto cogli ultimi complementi. E’ un contadino umbro, tale Arcioni, un tipo posato e tranquillo, che sembra disorientato e smontato. Mi domanda:

— Fratello, è vero che siamo venuti qui per un’avanzata?

— Non lo so. E se anche fosse?

— Lo domando, per curiosità...

— Non so nulla. Coraggio! —

Sono stanchissimo e, appena disteso a terra, mi addormento.


17 Febbraio.

Nevica. Corvée: tavole per le baracche e pali di ferro per «cavalli di Frisia». Zaino in spalla! La compagnia si sposta tutta in prima linea, nell’ultima trincea. Si fa ancora una buona marcia per una mulattiera quasi impraticabile. Monto di vedetta alla estrema destra della trincea. Sono riparato da sacchetti di neve gelata e da uno scudo di ferro. Tutto il parapetto della trincea è di sacchetti riempiti di neve: fragilissimo. Dinanzi alla nostra trincea c’è un reticolato in gran parte sommerso [p. 101 modifica] dalla neve; un centinaio di metri più in su, si profila il semicerchio del reticolato austriaco. Fra i due reticolati ci sono delle masse grige informi: sono cadaveri abbandonati. Notte serena, di plenilunio. Siamo in mezzo alla neve. L’occhio abbraccia un cerchio vastissimo di montagne che mi sono familiari. Alla mia destra si profilano il Monte Nero, il Vrala, il Vrsig, il Grande e Piccolo Jaworcek. Spettacolo fantastico. Ordine di innastare le baionette di sparare qualche colpo, intermittentemente. Il capitano Bondi, che ha il comando interinale del battaglione, passa verso la mezzanotte in ispezione la trincea.

— Nessuno deve dormire! — egli ci dice. — Non impressionatevi per le bombe a mano. — Freddo acuto. Siamo completamente all’aria aperta. La trincea non offre ripari di sorta. Ho sparato durante la notte mezza dozzina di caricatori. Gli austriaci hanno risposto fiaccamente. C’è un ferito, fra noi, ma leggero.


Venerdì 18 Febbraio.


Giornata serena, ma freddissima. Guardando verso l’Italia, si vede tutta la pianura di Udine e in lontananza, oltre le lagune, la linea azzurra, appena percettibile, dell’Adriatico.

Tre shrapnels austriaci, provenienti forse dallo Jaworcek, battono sulla trincea degli alpini, sottostante alla nostra. Vedo passare, di corsa, alcuni [p. 102 modifica] feriti leggeri. Altri vengono trasportati in barella. Cominciano a tuonare i nostri 149. I proiettili sibilanti passano sulle nostre teste a pochi metri d’altezza e piombano sulla trincea austriaca. Guardando contro il sole, si vede giungere il proiettile; sembra una bottiglia nera con un leggero movimento di oscillazione. Tutti i proiettili scoppiano: ciottoli e pali vengono a cadere sino nella nostra trincea. Stormi di corvi volano descrivendo ampi cerchi sulla Conca di Plezzo. Sotto alla nostra trincea ce la fossa di due soldati caduti nei primi combattimenti. Tutta la compagnia è rimasta per ventiquattro ore consecutive di vedetta alla trincea.


19 Febbraio.


La solita corvée. Bisogna andare a prendere i viveri al Comando di Brigata. Un’ora di marcia, faticosa. Chi ha i chiodi aguzzi o i ferri, può camminare. I bersaglieri mettono i piedi nei sacchetti per la terra e non scivolano più. Durante il tragitto, l’artiglieria nemica ha bombardato la posizione, ma la mulattiera è sotto a un costone, che forma un angolo morto bellissimo. Sotto quelle rocce si è sicuri e si può — come facciamo — assistere tranquillamente allo scoppio fragoroso dei proiettili nemici. Passa un generale. Lo seguono molti ufficiali. Un sergente dell’8a compagnia, tal Peruzzone, genovese, è stato colpito mortalmente da una fucilata al petto. E’ caduto senza un gemito. Gli scavano una fossa sotto la neve. Sole [p. 103 modifica]grandissimo, quasi primaverile. Si lavora a preparare «cavalli di Frisia» e reticolati. I soldati, nelle baracche, scrivono, scrivono... Mi fermo con un gruppo di giovani ufficiali che fraternizzano con me. C’è il tenente medico Musacchio, il «quasiavvocato » Peccioli che mi ricorda le manifestazioni e le barricate romane del maggio; il già avvocalo Rapelti, pure romano; Santi e Barbieri della mia compagnia. Altre conoscenze: l’avv. Ghidini, volontario negli Alpini, avvocato bolognese. Ordine di servizio per la mia compagnia; il primo e secondo plotone vanno di guardia alla trincea; il terzo e quarto devono spostare avanti i reticolati. Ci vestono di bianco. Appena giunto al mio posto di vedetta, all’estremità destra della trincea, la vedetta austriaca mi tira una dietro l’altra due fucilale che si spezzano contro lo scudo. Metto la canna del mio fucile alla feritoia e rispondo. L’austriaco a sua volta risponde. Il duello dura alcuni minuti. Lo spostamento dei reticolati avviene senza incidenti e senza vittime. Notte freddissima e stellata. Siamo completamente all’aperto. Quindici gradi sotto zero. Se si resta immobili, le scarpe gelano e aderiscono al suolo duro e sonoro come un metallo.


Domenica 20 Febbraio.


Sole. Poche e rade fucilate tra le vedette delle squadre in trincea. Alcune cannonate, innocue. Con una bottiglia di «Barbera amabile» che il [p. 104 modifica]bersagliere Moroni Tomaso di Osimo mi ha regalato e con lo scaldarancio, facciamo un eccellente vino brulé che ristora i miei compagni. Ora, i cannoni austriaci di grosso calibro tirano nella Conca di Plezzo, verso la stretta di Saga per colpire le nostre batterie di 149. I 280 e i 305 scoppiano dinanzi e indietro, sollevando nuvole di fumo. E’ un pezzo che gli austriaci «cercano» la nostra batteria, ma non l’hanno ancora trovata. Verso sera il sottotenente Barbieri mi dice che il colonnello vuole vedermi. Il nostro colonnello, venuto a comandare il reggimento in sostituzione di Barbiani, si chiama Berulo cav. Giuseppe. Un uomo di media statura, asciutto, di poche parole. Capelli bianchi e un pizzetto pure bianco alla Lamarmora. E’ stato ferito sul Carso. Mi presento, saluto.

Una cordiale stretta di mano.

— Ho voluto conoscervi, nel momento in cui, compiuto il vostro dovere per un giorno e una notte di guardia alla trincea, siete disceso per un po’ di riposo. So che siete un buon soldato. Non ne ho mai dubitato. —

Il colonnello passa ad altro e mi dice:

— Sono stato parecchie volte di picchetto a Milano, per causa vostra e dei vostri amici.

— Altri tempi! — rispondo.

Il colonnello vive la nostra vita, soffre degli stessi disagi di un semplice soldato. Egli poteva restare in seconda linea con uno degli altri battaglioni, ma ha voluto essere col battaglione più esposto al pericolo. Ciò è molto simpatico e i bersaglieri apprezzano questo gesto. Il colonnello dorme su [p. 105 modifica]alcune tavole in una specie di cuccetta alta un metro da terra. Sotto di lui, a terra, dorme il suo aiutante, il sottotenente milanese Olinto Fanti, mio buon amico.

Da un altro lato dell’angusta baracca che serve anche da «posto di medicazione» degli alpini, dormono i tenenti medici Gargiulo e Congiu. Il primo meridionale, l’ultimo sardo. C’è anche Don Giovanni, cappellano degli alpini, un pezzo d’uomo dall’aria assai mite.

A proposito: la medaglieria religiosa è in diminuzione. Nei primi tempi era un imperversare di immagini sacre. I soldati ne portavano al collo, al polso, sul berretto, nelle dita a foggia di anello. Tutto ciò va cadendo in disuso. La tragica esperienza delle prime linee ha insegnato che un amuleto vale l’altro, che il cornetto vale una medaglia; e un gobbo d’avorio un Sant’Antonio. L’ultima trovata in materia di «scongiuri» è quella di toccarsi le stellette (forse per analogia collo «stellone? ») o di portare questa cabalistica epigrafe:

B I P Zl R 16
C ch. Zl P. S. S.

Migliaia di soldati l’hanno ricevuta passando per i paesi della vallata del Natisone.

Sono incapace di decifrarla. [p. 106 modifica]

21 Febbraio.


Notte di vento violentissimo e gelato. Veniva dal Monte Nero. La tela della nostra fragile baracca si gonfiava, mentre le traverse di legno stridevano e pareva dovessero rompersi da un momento all’altro. Pigiati gli uni su gli altri. Per muoversi dal fondo della baracca alla porta, si cammina sui compagni, colle ginocchia e le mani a guisa di quadrupedi. Nessuno ha chiuso occhio. Alle quattro, sono stato chiamato per la corvée dei viveri, che bisogna andare a prendere dove si fermano i muli, nella posizione dove si trova il Comando di Brigata. Anche nel Rombon i nostri morti sono disseminati qua e là, dove è stato possibile di seppellirli. Sette croci allineate sorgono vicino al Comando di Brigata; due più in alto; qualche altra nei pressi della mulattiera. Mattino di calma. Il tenente Rapetti mi narra un episodio che dimostra quanto giovi ad incuorare i soldati, l’esempio degli ufficiali.

— Il 12° bersaglieri — mi dice Rapetti — era a quota 1270, alle falde del Monte Nero. La nostra trincea veniva battuta da parecchie ore da un violento fuoco di artiglieria. Il sergente Brenna aveva avuto un momento di panico. Piuttosto che rimproverarlo, io mi misi in piedi sulla trincea, mentre granate e shrapnels fischiavano da ogni parte. Il gesto mio, temerario, incuorò i bersaglieri, più di qualunque punizione od eccitamento. Quando, di lì a poco tornai, trovai il sergente Brenna-, che, impassibile e fresco tra l’infuriare dei proiettili [p. 107 modifica] nemici, si mise sull’altenti e disse: — Niente di nuovo, signor tenente. Presenti, diciannove come prima. —

Il colonnello ha chiesto una copia del mio «Giornale di Guerra» dello Jaworcek. Ordine di servizio per la notte: il primo plotone è comandato a porre i «cavalli di Frisia» oltre la nostra trincea. Della prima squadra andiamo volontariamente io e Reali Oreste, milanese. Ci vestiamo di bianco e andiamo su. Prima che spunti la luna, usciamo dalla trincea insieme col tenente Santi. Strisciamo per alcuni metri... Ad un certo momento, il tenente avverte un rumore di passi sulla neve gelata. E’ una pattuglia di austriaci. Sosta. Tutto intorno è silenzio. Ma le nostre vedette non dormono ed ecco crepita il fuoco della nostra fucileria. La patluglia nemica si ritira in buon ordine.


22 Febbraio.


Notte di luna, serena, ma freddissima. Si dice: dai quindici ai venti gradi sotto zero. Ma nessuno si sente male. Malati in tutto: quattro e più che malati, indisposti. Cominciamo a «sfottere» gli austriaci. Sopra a un lungo bastone piantiamo una pagnotta di pane e sopra a un altro, issiamo un cappello da bersagliere. Agitiamo, per qualche tempo, i due bastoni al disopra della trincea, ma gli austriaci non sparano. Una novità: il nostro capitano Mozzoni è tornalo dalla licenza invernale. Passa fra di noi salutandoci tutti. Mi annuncia che, [p. 108 modifica]con molta probabilità, il reggimento cambierà fronte e andrà in Carnia. Distribuzione di caffè, cioccolato, burro, castagne secche. Si beve molto cognac e mollo rhum. I liquori eccitano contro il freddo e soprattutto tengono desti. Da notare: alle quattro e a mezzanotte, ci viene distribuito caffè e latte. E’ un record a quest’altezza! La distribuzione dei viveri è regolare e abbondante: non abbiamo il rancio caldo, ma tant’altra roba lo sostituisce: anche il prosciutto che talvolta è veramente squisito. Il tenente medico Musacchio mi offre la fotografìa dello Jaworcek, con questa dedica:


All’amico Benito Mussolini
offro
affinchè gli ricordi il luogo
ov’ebbe il battesimo del fuoco
e la gioia suprema
di constatare nel cuore dei suoi commilitoni
le nobili qualità della stirpe italica.


Dormiamo sotto a una baracca, ma sulla neve. Ci contenteremmo di un pochino di paglia ma non c’è.


Mercoledì 23 Febbraio.

Notte di guardia alla trincea. Dodici ore sotto a una implacabile bufera di neve. Verso le due si è udito un vivo fuoco di fucileria alla nostra destra nelle posizioni tenute dagli alpini. Siamo balzati [p. 109 modifica]tutti in piedi. Coperti di neve, sembravamo tanti fantasmi usciti da una fossa. Si trattava di un attacco austriaco più simulato che attuato. Il fuoco è durato una quindicina di minuti. Stamani, all’alba, l'8ª compagnia è venuta a darci il cambio. Durante l’operazione, una pallottola sola di una vedetta austriaca ha ucciso due dei nostri: Massari, un richiamato ferrarese dell’84 — un soldato bravo, disciplinato, volonteroso, che era stato con me in trincea sullo Jaworcek — e Manucci. Sono caduti senza un grido, sul margine inferiore del camminamento. Colpiti entrambi alla testa. Dai buchi uscivano fiotti di sangue che invermigliava la neve.

Fatalità!

Il Manucci era già partito per la licenza invernale ed era giunto a Ternova. Qui aspettò sei giorni, perchè le licenze erano state sospese nel settore dell’Alto Isonzo. Dopo sei giorni, ricevette l’ordine di tornare in compagnia. Giunse ieri sera. Stamani è morto. Il Massari era miracolosamente scampato allo shrapnel del 10 ottobre che uccise i suoi due compagni di tenda, i ferraresi Mandinoli e Melloni.

— Portaferiti! —

Ecco De Rita e Barnini. Adagiano in una coperta di lana i due morti e li trascinano piano sulla neve... Un trasporto colla barella è impossibile, data la ripidità e il gelo del camminamento. La nostra trincea è fatta di neve. I sacchetti non contengono che neve gelata. Le pallottole passano come [p. 110 modifica] attraverso la carta velina. Bisogna camminare a schiena incurvata.

Nevica sempre.

Una valanga si è schiantata sulla baracca dove dormono alcuni sottotenenti, le loro ordinanze, Reali ed io. Sotto l’urto, la baracca si è chiusa come un libro. Per fortuna, nessuno di noi è rimasto ferito. Ho aiutato il tenente Malascherpa — cremonese — a liberarsi dai rottami e dalla neve, che, sfondando la tela della baracca, lo aveva quasi sepolto.


24 Febbraio.

Le solite dodici ore di guardia alla trincea. Sono, colla mia squadra, capitato proprio nel punto dove caddero ieri Manucci e Massari. La neve è ancora rossa di sangue. Scendendo — a servizio ultimato — dalla trincea, porto al maggiore Tentori, comandante il battaglione Bassano degli alpini, una copia del Popolo, col trafiletto dedicato al Volonteri di Monza. Il maggiore mi ricostruisce le vicende della notte tragica — 14 febbraio — nella quale fu tentata la riconquista delle posizioni perdute sul Kukla. L’avvocato Alfredo Volonteri - - volontario — morì colpito da una palla in fronte, mentre gridava: — Alpini del battaglione Bassano, avanti, sempre avanti! — Il maggiore Tentori mi racconta anche la fine eroica di un caporal maggiore che, colpito al [p. 111 modifica]ventre, è morto dicendo: — Mi za me moro, ma moro contento per l’Italia! Viva l’Italia! —

Nelle parole del maggiore — un uomo alto, dal portamento nobile e marziale — vibra ancora un intenso affetto per i caduti.

Ho assistito a sera inoltrata a una scena macabra. Una cassa da morto, fatta rozzamente, è stata caricata su un mulo. Gli alpini lavoravano in silenzio. Dentro ci dev’essere — ho pensato — la salma del povero Volonteri, che la pietà di un amico ha dissotterrato per farla portare in giù, in uno dei cimiteri dei pressi dell’Isonzo.

Venerdì 25 Febbraio.


Notte di tormenta. Stamani nebbia e neve si alternano. Abbiamo lavorato intensamente. E’ la guerra dei braccianti. La vanghetta vale il fucile. Ora il nostro camminamento è profondo. Si può stare in piedi senza pericolo di ricevere qualche micidiale pallottola. Abbiamo rinforzato la trincea con sacchetti di terra. In poche ore ne abbiamo riempito qualche centinaio. E’ giunto il nuovo comandante del nostro battaglione, cav. Galassini modenese.


Il tenente medico Musacchio mi parla di uno strano tipo di ammalato, ch’egli ha visitato stamani. Si tratta di un siciliano che afferma di essere stato «fatturato», cioè stregato, durante la licenza [p. 112 modifica]invernale. Sintomi della «fattura»: debolezza, inappetenza, dolori vaghi e nostalgia. Comprendo che un siciliano soffra di nostalgia, nostalgia del sole, fra tanto gelo e tanta neve!

Gli ufficiali subalterni del mio battaglione sono tutti giovanissimi e ci trattano col «tu» confidenziale. La notte scorsa, secondo quanto mi dice il tenente Azzali della 6ª compagnia, gli austriaci — in vesti bianche — si sono mossi per il solito attacco, ma i bersaglieri del 33°, che non hanno l’abitudine disastrosa di dormire in trincea, hanno, con cinque minuti di fuoco, sventato il tentativo.

Sabato 26 febbraio.


Nottata di guardia. Tormenta di neve sino a mezzanotte. Il capitano ha vegliato tutta la notte insieme con noi. Ha declamato un brano del Nerone di Cossa. Per ingannare il tempo, abbiamo canticchiato. A mezzanotte, Reali, chef de cuisine della squadra, ci ha preparato una specie di punch che bruciava gli intestini; poi ci ha intrattenuti su gli usi e costumi nord-americani. Le notizie da Verdun hanno suscitato grande interesse fra noi.

Verso le quattro, si è udito gridare alla nostra sinistra:

— All’armi! All’armi! —

Siamo usciti immediatamente dalle nostre [p. 113 modifica]buche — quattro in tutta la trincea — e ci siamo messi in linea. Tutto ciò è avvenuto con la rapidità del baleno.

— Le bombe! Le bombe! —

In questo momento il nevischio ci frusta violentemente la faccia. Ecco le bombe. Il sacco era in consegna alla nostra squadra.

— Fuoco! —

Ho sparato tre caricatori. Poi mi sono scaldato le mani alla canna tepida del fucile. Gli austriaci non hanno sparato nemmeno un colpo.

All’alba ho visto un fenomeno strano, dovuto certamente all’azione dell’elettricità. La punta delle nostre baionette brillava come se fosse uscita dal fuoco. Anche il capitano ha osservato il fenomeno. Stamani, sole. Il bianco della neve abbacina. Solito bombardamento degli austriaci, contro le noste irreperibili batterie della stretta di Saga.


27 Febbraio.


Breve sole. Adesso nevica ininterrottamente da quindici ore. Di guardia alla trincea. Se continua a nevicare, la nostra situazione può diventare difficile. Oggi, per la prima volta, siamo rimasti senza pane.

La posizione della nostra trincea non ci permette, in caso di un serio attacco austriaco, nessuna possibilità di scelta: bisogna resistere sino all’ [p. 114 modifica]ultimo uomo. La trincea è scavata proprio all’orlo di uno scoscendimento del Kukla, che precipita quasi a picco, per alcune centinaia di metri, sino al pianoro dove c’è il Comando di Brigata. Ritirarsi, significa precipitare, rotolare nell’abisso. Resistere, dunque, e siamo pronti!


28 Febbraio.


Oggi abbiamo lavorato di vanghetta e badile. Le solite fucilate tra vedette. Nessun ferito.


29 Febbraio.


Domani avrò i galloni da caporale. Un piccolo avvenimento nella mia vita di soldato. Il capitano ha motivato così la proposta:

«Per l’attività sua esemplare, l’alto spirito bersaglieresco e serenità d’animo. Primo sempre in ogni impresa di lavoro o di ardimento. Incurante dei disagi, zelante e scrupoloso nell’adempimento dei suoi doveri».


Dialogo colto a volo ieri sera:

— Tenente Barbieri, quant’è la forza della compagnia montata stasera di guardia alla trincea?

— Centosette uomini. [p. 115 modifica]— Ma lassù non ce ne sono che settantaquattro contati da me.

— Si vede che i «disponibili» non sono di più. — Fra i cosiddetti «disponibili» c’è sempre qualche «imboscato» che «sbafa» la guardia; cioè, non la fa.

1° Marzo.


Notte di guardia alla trincea. Nevica. Sono sceso all’alba. Battaglia a pallate di neve. Giungono, verso mezzogiorno, alcune bombe austriache! Una vittima. Un alpino del battaglione Bassano. Lo portano in barella al posto di medicazione, ma ci restano un attimo. Brutto segno! L’alpino è mortalmente ferito. Sulla mulattiera c’è una striscia di sangue e di materia cerebrale. Padre Michele mi racconta che al 27° battaglione, che trovasi alla nostra destra, ci sono stati due morti e due feriti da pallottole delle vedette. Anche il tenente Rapetti è ferito, ma non gravemente.


Giovedì, 2 Marzo.


Stanotte di guardia. Neve. Neve. Sono ubriaco di bianco. Era con noi il capitano. Si è allogato alla meglio nella nostra tana, gocciolante da tutte le parti e ci ha letto moltissime pagine del libro del povero Lucatelli: Come ti erudisco il pupo. Mi sono divertito. Sull’alba il sonno mi ha preso. Per [p. 116 modifica]vincerlo ho ingoiato mezza bottiglia di rhum che, come dice l’etichetta, contiene tanto «alcool pari al 21 % del suo volume». Novità. Stamani, presto, una valanga ha travolto quattro alpini e un mulo. Altra novità. Son riaperte le licenze invernali. Spetta anche a me, di diritto. Foglio rosso, tradotta N. 1.

Partono con me Reali, Morano, Tinella, Morani, il tenente Barbieri di Modena. Terza novità. Anche il battaglione scende stasera e va a Serpenizza. Questa notizia mi fa piacere. Il pensiero di lasciare i miei compagni sul Rombon turbava un po’ la mia gioia. Durante il tragitto, gli austriaci ci spediscono tre shrapnels. Qualche altra cannonata scoppia su noi, in prossimità di Osteria, sulla strada maestra imperiale di Plezzo. Notte di sosta a Serpenizza.

3 Marzo.


Le compagnie del mio battaglione sono discese lo notte scorsa. Partenza. Poco oltre Serpenizza, passiamo davanti ai baraccamenti dove hanno pernottato i miei commilitoni. Auguri e saluti. Piove a dirotto. Sosta a Ternova per il bagno e la visita medica. Tappa notturna a Svina, a cinque minuti da Caporetto. Svina è un villaggio di poche case Notte in un solaio, sulla paglia. Non siamo molti, E’ una delle ultime tradotte. I permissionaires tengono un contegno dignitoso e corretto. Non grida, [p. 117 modifica]non schiamazzi: la gioia c’è, ma è contenuta nei cuori. Si formano dei crocchi, dove vengono narrati episodi di guerra. E passano nel racconto il Monte Nero, il Vrata, il Vrsig, lo Jaworcek, il Rombon, le montagne dell’Alto Isonzo, santificate dal sangue italiano.

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