Il mio delitto/XI
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XI.
In poche parole voglio dipingervi l’ambiente in cui ho passato i primi anni di matrimonio, quegli anni che precedettero il dramma che mi ha trascinato in questo luogo di miseria.
Malgrado il mio studio per avere un complesso classico ed intonato, non volli la monotonia di un solo genere per tutto l’appartamento; ogni stanza ha un’impronta speciale, v’è tutta l’arte e la raffinatezza moderna ispirate al gusto dei secoli passati in modo che le varie epoche armonizzando fra loro formino un nido simpatico e piacevole.
La stanza che preferivo era un salottino ammobigliato sul gusto del tempo di Luigi XV, tutto imbottito come una bomboniera, coi mobili piccini a curve graziose, ricoperti di raso color perla a fiorellini rosa.
Mi par di vedere nella parete di mezzo un mobile color bronzo dipinto a fiori che mi serviva di scrivania e sul quale tenevo i miei ninnoli preferiti, quelli che desideravo aver davanti agli occhi e accarezzare nei momenti di ozio. Dalla parte opposta rivedo un bellissimo stipo dello stesso genere con degli amorini dipinti che mi sorridevano in mezzo ai fiori. Presso la finestra c’era il mio tavolino da lavoro ed una poltroncina dove stavo seduta una gran parte della giornata, accanto un divano uguale per le mie amiche. Dalla parte opposta spiccava un vaso di Sèvres con un camaerops gigantesco che mi riposava la vista colle sue foglie sempre verdi, poi un camino molto civettuolo, con uno specchio, e intorno altre poltroncine.
Sulle pareti avevo soltanto i ritratti dei miei genitori e sopra un cavalletto circondato da una stoffa di broccato che cadeva a pieghe, un ritratto di Margherita che m’avea regalato in cambio del mio il giorno delle nostre nozze.
Così i begli occhi neri profondi mi sorridevano sempre e mi consolavano quando gli altri, quelli veri, non erano là ad illuminare il mio salottino.
Per molto tempo sul tavolino di quel mio angolo tranquillo passarono i romanzi più alla moda e le riviste più apprezzate; poi cedettero il posto a dei lavori d’ago molto interessanti. Quante chiacchiere con Margherita mentre le nostre dita facevano correr l’ago sopra delle stoffe vaporose e leggere come nubi ed eravamo tutte intente a fabbricare camicie che parevano dover servire per la bambola, e delle cuffiettine tutte trine e leggere come piume! Eravamo tanto contente in quell’occupazione, Si chiacchierava senza tregua e colla nostra fervida fantasia si vestivano con quegli oggetti lillipuziani dei braccetti bianchi e grassottelli, delle testine bionde e ricciute, degli angioletti insomma di là da venire, ai quali erano rivolti tutti i nostri pensieri come a personaggi molto importanti.
L’arrivo dei signorini che aspettavamo tutte e due a breve distanza una dall’altra era un argomento inesauribile di discorsi, e quella nostra comunanza di sorte e di pensieri serviva a stringere di più quel vincolo d’affetto che ci legava da tanto tempo.
Quanti progetti facevamo per l’avvenire! Quanti castelli in aria sul conto dei nostri figliuoli!
Prima di tutto, nella nostra vanità di mammine novizie, si volevano belli; buoni e saggi sarebbero divenuti in seguito, e si correva la città, si comperavano tutti i ritratti di cherubini e di bamboline belle che si potevano trovare per averle sempre davanti agli occhi; in breve i nostri salotti erano divenuti delle vere esposizioni di ritratti di bimbi che si ammucchiavano sui nostri tavolini, al punto da scacciarne tutti gli altri oggetti. E come ci divertivamo in quelle occupazioni! Si compiangevano i nostri mariti che non vi s’interessavano quanto noi, e pareva ci calcolassero come bimbe. Anch’essi erano spesso l’argomento dei nostri discorsi, e in quei primi tempi non avevamo occhi che per le loro buone qualità, mentre eravamo cieche pei loro difetti. Ruggeri era molto superiore per intelligenza e serietà a mio marito, tanto che Margherita lo trovava troppo superiore a si e diceva che non era degna d’uomo simile, e aveva paura della sua felicità.
Mio marito in casa parlava poco, ma aveva lo spirito facile e leggero, una certa prontezza di risposte, una certa disinvoltura nei movimenti, si che in società figurava molto meglio di Ruggeri ed io mi compiacevo di vederlo apprezzato tanto dagli altri e gioivo dei suoi trionfi; con me era buono, gentile e compiacente e ciò mi bastava, non avevo allora molte esigenze, assorbita com’ero dal pensiero del mio bimbo.
In quel tempo tanto io che Margherita frequentavamo poco la società; ci dava noia quel cambiar continuamente d’abbigliamento e ci si divertiva meglio a stare insieme noi due e fare una vita tranquilla.
I nostri mariti, specialmente il mio, non erano tanto casalinghi, ma andavano per loro conto al teatro o in società, ed eravamo felici quando ci regalavano qualcuna delle loro serate. Ruggeri però stava più spesso con noi, tanto che Manfredi diceva che ci guastava e che non era di buon genere lo star sempre vicino alle gonnelle della moglie.
Di tratto in tratto si faceva qualche comparsa in società, perché Margherita, troppo buona, non voleva rifiutare un invito un po’ insistente, ma si finiva poi col trovarci sempre insieme, nel nostro angolo, come due amanti, e si andava tanto d’accordo che la fonte dei nostri discorsi era inesauribile.
Giunse però il momento in cui il vivere ritirate divenne una necessità e si passavano le sere ora nel mio salottino, Luigi XV, ora nel gabinetto orientale di Margherita ammucchiando le camicine e le cuffiettine nelle nostre ceste da lavoro. A furia di farne eravamo diventate maestre nell’arte di foggiare quegli oggetti, che si perfezionavano ogni giorno, poi si facevano trine finissime per adornare dei lettini soffici come piume e copertine ricamate per riparare dal freddo quei corpicini morbidi e delicati di là da venire, e si lavorava sempre senza stancarci mai. Era una gara a chi faceva meglio e più in fretta; ormai n’erano ingombri i nostri salottini. Qualche volta veniva a Margherita una delle sue buone ispirazioni.
— Senti, — diceva, — se si facesse una scelta, se si regalasse ai poveri le cose che abbiamo fatte nel principio quando le nostre mani erano ancora inesperte e non sono riuscite degne dei nostri figli? Che ne dici di questo mio capriccio?
Pensiamo che certe mamme non hanno tempo per simili cose e nemmeno danari per comperarle, e poi mi pare che ciò porterà fortuna ai nostri figli. Naturalmente io acconsentivo subito e la lasciavo seguire la sua ispirazione: allora era un gran da fare per scegliere gli oggetti più semplici e combinare dei corredini per i poveri che sarebbero stati degni di vestire dei principi. Poi si raddoppiava di lena per riempire i vuoti lasciati nelle nostre ceste.
Un giorno Margherita non venne e mi mandò a dire che non si sentiva bene. Era giunto il momento tanto aspettato e corsi da lei. Mi accolse col suo sorriso angelico, ma avea la faccia contratta e si vedeva che soffriva molto.
Ruggeri era assai inquieto; girava per la casa come un fantasma, pareva pazzo. Io cercavo di calmarlo e infondergli un coraggio che non avevo.
I medici non erano contenti, perchè pareva che le cose non andassero lisce come avrebbero desiderato; Margherita soffriva molto, mi teneva le mani strette come in una morsa di ferro e i suoi occhi neri guardavano con una certa espressione che mi straziava il cuore.
Quando il dolore le lasciava un po’ di tregua e le permetteva di parlare diceva:
— Se sapessi come si soffre!
Poi, secondo il suo solito, anche in mezzo a quelle crudeli sofferenze, dimenticava il proprio dolore per pensare a me e mi diceva:
— Ritirati; mi fa piacere averti vicina, ma ti potrebbe nuocere, pensa al tuo bambino; non dobbiamo pensare che a noi in certi momenti.
Io procuravo d’esser forte, ma soffrivo troppo vedendola in quello stato e per amore dell’essere ch’io sentivo agitarmisi in seno, mi lasciai trascinare in un’altra stanza.
Era un vero tormento per me esser là e non poterla aiutare, ero agitata, irrequieta, ad ogni istante mi avvicinavo all’uscio per sentire quello che accadeva nella sua camera e per chiedere notizie. Seppi che era nato un bambino, ma troppo grosso e forte per una donnina delicata come Margherita; essa avea avuto un momento di sollievo poi era sopraggiunta un’emorragia e si temeva di perderla. A quella notizia non mi fu possibile restare tranquilla, entrai in camera e m’accostai al suo letto. Essa mi strinse la faccia contro la sua e mormorò con un filo di voce:
— Mi sento morire, lo sapevo, ero troppo felice, ti raccomando il mio bambino, lo alleverai insieme col tuo, ti raccomando anche il suo babbo, cerca di consolarlo....
Ruggeri in quel momento stava in contemplazione del suo bimbo e non imaginava la sventura che gli si preparava; i medici non avevano coraggio di dirgli la verità e togliergli ogni speranza. Chi spera s’illude facilmente.
Procuravo anch’io di sperare per dominare il mio dolore, col pensiero costante del mio stato, e contemplavo la faccia serena della mia amica quasi invidiandola.
A un certo punto mi disse:
— Va, ora pensa al tuo bambino, ed anche al mio, devi serbarti per tutt’e due, gli parlerai di me. Poi mi diede un bacio nel quale parve esalare tutta la sua vita.
Fu l’ultimo: m’allontanai dal letto, ma non lasciai la camera finché non vidi spento per sempre il raggio di quei begli occhi che m’avevano consolato nei momenti più tristi della mia vita.
Ormai non mi rimaneva che la missione di consolare gli altri; ma che cosa sarei divenuta senza la benigna influenza di quegli occhi che mi rendevano migliore e mi spronavano al bene?
Sono ancora sorpresa che quella scossa non portasse alcun danno al mio organismo; però dopo quel giorno mi sono sentita più vecchia di dieci anni e la vita mi parve senza scopo e senza sorrisi.