Il guarany/Parte Terza/Capitolo IV

Parte Terza - IV. La trama

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José de Alencar - Il guarany (1857)
Traduzione dal portoghese di Giovanni Fico (1864)
Parte Terza - IV. La trama
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CAPITOLO IV.


LA TRAMA.

Alcuni schiarimenti sono necessari a render ragione dei fatti, che or ora abbiamo narrati.

Quando Loredano videsi obbligato per la minaccia di Alvaro a partire per il Rio de Janeiro, restò sbalordito; ma dopo alcuni istanti un sorriso diabolico crispò le sue labbra.

Cotesto sorriso fu un pensiero infame, che splendè nel suo spirito come la fiamma di quei fuochi fatui, che brillano in seno alle tenebre nelle notti molto calme.

Loredano riflettè che nell’atto che tutti lo supponevano in viaggio, potea preparare l’esecuzione del suo disegno ed effettuarlo in quella medesima notte.

Nell’intrattenimento avuto con Ruy Soeiro gli comunicò le sue istruzioni, brevi, semplici e [p. 36 modifica]concise; consistevano in liberarsi degli uomini, che potevano porre impedimento alla sua impresa.

Perciò i suoi complici aveano avuto ordine, quando andassero a dormire, di collocarsi allato a ciascuno degli uomini della banda, fedeli a don Antonio de Mariz.

In quel tempo e in quei luoghi non era possibile dare ad ogni avventuriere la propria cameretta; pochi godevano di questo privilegio, e anche in tal caso erano tenuti a far parte della loro stanza ad un compagno; gli altri dormivano nel vasto stanzone che occupava quasi tutta quella parte della casa.

Ruy Soeiro, conforme all’avviso di Loredano, avea disposto le cose in modo, che in quel momento ciascuno degli avventurieri fedeli a don Antonio de Mariz avea al suo lato un uomo che parea addormentato, e che solo aspettava un segno convenuto per immergere il pugnale nella gola del suo compagno.

Al tempo stesso eranvi agli angoli della casa grossi mucchi di paglia collocati vicino alle porte o lungo le grondaie, che altro non attendevano che una favilla per appiccare l’incendio in tutta l’abitazione.

Ruy Soeiro, con una sagacità e una prudenza degna del suo capo, avea disposto tutto ciò; parte durante il dì e parte nelle ore silenziose della notte, quando ogni cosa era in calma.

Non si dimenticò della raccomandazione speciale di Loredano, e si offerse volontariamente [p. 37 modifica]ad Ayres Gomes per fare la guardia notturna con uno de’ suoi compagni, visto che si temeva di un qualche assalto del nemico; il bravo scudiero, che lo avea per uno dei più valenti della banda, cadde nel laccio e accettò l’offerta.

Signore del campo, l’avventuriere potè allora terminare liberamente i suoi preparativi, e per maggior sicurezza trovò anche il modo di tener discosto lo scudiero, che da un momento all’altro potea sopraggiungere e dargli impaccio.

Ayres Gomes, in compagnia del suo vecchio amico mastro Nunes e di altri due vecchi camerati giunti in quello stesso dì, stava vuotando una bottiglia di vin di Valverde, che beveano lentamente, sorso per sorso, per dissimulare così la tenue porzione del liquore destinato a umettare la gola dei quattro formidabili beoni.

Mastro Nunes applicò voluttuosamente le labbra all’orlo della tazza, sorbì un po’ di vino, e dipoi facendo scoccar lievemente la lingua nel cielo della bocca, riadagiossi ben bene sul tripode ov’era seduto, incrociando le mani sopra il ventre prominente con una beatitudine celeste.

— Fin dal momento che arrivai stetti sempre in sul domandarvi una cosa, amico Ayres; e mai non mi venne fatto.

— Non lasciate passar l’occasione adesso, Nunes. Sono qui per rispondervi.

— Ditemi, chi è quel tale che accompagnava don Diego, e cui date un diavolo di nome che non è portoghese? [p. 38 modifica]

— Ah! volete parlar di Loredano? Un vagabondo!

— Conoscete quest’uomo, Ayres?

— Per dio! se è dei nostri!

— Quando vi chieggo se lo conoscete, voglio dire se sapete d’onde viene, chi era e che cosa faceva?

— Affè che no! Comparve qui un giorno a chieder ospitalità; e dipoi, alla partenza d’un uomo, prese il suo posto.

— E in qual tempo, se vi ricordate?

— Aspettate! Ho i miei cinquanta e nove sulle spalle...

Lo scudiero contò sulle dita, consultando il suo calendario, che era la sua età.

— A quest’ora sarà un anno; ai primi di marzo.

— Ne siete ben certo? sclamò mastro Nunes.

— Certissimo: è un conto che non falla. Ma che vi prende?

In fatti mastro Nunes era sorto in piedi come trasognato.

— No! Non è possibile!

— Nol credete?

— È ben altro, Ayres! È un sacrilegio! un’opera di Satana! una simonia orrenda!

— Che dite mai, brav’uomo; spiegatevi una buona volta.

Mastro Nunes riuscì a riaversi dal suo turbamento, e palesò allo scudiero i suoi dubbii a riguardo di frate Angelo e della sua morte, di cui [p. 39 modifica]non sarìa possibile rendersi ragione: gli notò la coincidenza della scomparsa del carmelitano colla comparsa dell’avventuriere e il fatto di essere della medesima nazione.

— Dipoi, concluse Nunes, quella voce, quello sguardo!... Oggi, quando il vidi, raccapricciai, e mi ritrassi impaurito giudicando che il frate fosse risuscitato dalla terra.

Ayres Gomes alzossi furioso, e saltando sopra il suo giaciglio afferrò lo spadone che teneva al capezzale.

— Che volete fare? gridò mastro Nunes.

— Ammazzarlo, e questa volta per bene; acciocchè non ritorni.

— Dimenticate che è lontano di qui?

— È vero! mormorò lo scudiero, facendo serio chiolare i denti di rabbia.

Udirono un lieve rumore alla porta; i due amici lo attribuirono al vento e non si volsero; seduti in faccia l’uno dell’altro, continuarono sottovoce la loro conversazione interrotta dalla strana rivelazione di Nunes.

In questo mezzo di fuori accadevano cose che avrebbero dovuto eccitare l’attenzione del bravo scudiero. Il rumore che avevano sentito era stato cagionato dalla volta data da Ruy alla chiave, chiudendo la porta.

L’avventuriere avea udita tutta la conversazione; sbalordito a principio, ricuperò gli spiriti, e pensò che in ogni caso era bene restar padrone del secreto di Loredano per ogni futuro evento. [p. 40 modifica]

Confidando in questa eccellente idea, Ruy si pose la chiave in tasca e andò a riunirsi al suo compagno, che stava di sentinella vicino alla scala.

Attendeva Loredano, che dovea entrar in casa a notte avanzata, per dirigere tutta quella trama ordita con singolare abilità.

Loredano avea facilmente ingannato don Diego de Mariz; sapea che l’ardente cavaliere andava a marcia forzata, e che non si arresterebbe in cammino per ragione qualsifosse.

A tre leghe dal Paquequer finse di aver rotta la cinghia della sua cavalcatura, e si trattenne per acconciarla; nell’atto che don Diego e i suoi compagni continuavano la loro via nella persuasione che li seguirebbe di volo, egli era tornato sui propri passi, e nascosto nelle vicinanze aspettava che si facesse notte.

Quando si accorse che tutto era silenzio, avvicinossi; diè il segnale di convenzione, che era il canto del gufo, e s’introdusse di furto nell’abitazione.

Il rimanente che seguì già lo sappiamo. Vedendo che tutto era preparato e pronto al primo segnale, Loredano diè cominciamento all’esecuzione del suo disegno e riuscì a penetrare nella camera di Cecilia.

Prendere la fanciulla tra le braccia, rapirla, attraversare lo spianato, arrivare alla porta dello stanzone abitato dagli avventurieri, e pronunciare il segno convenuto, era cosa che facea disegno di effettuare in un attimo. [p. 41 modifica]

Che Cecilia, strappata dal suo letto, gettasse qualche grido da lui non potuto soffocare, poco importava; prima che alcuno si fosse svegliato, sarebbe giunto dall’altra parte, e allora, ad una sua parola, il fuoco e la morte sarebbero venuti in suo soccorso.

Ruy gitterebbe la fiamma nella paglia apparecchiata a quest’effetto; e il pugnale di ciascuno de’ suoi complici si immergerebbe nella gola degli addormentati.

Dipoi, frammezzo a quell’orrore e a quella confusione, quei venti dèmoni compirebbero la loro opera, e fuggirebbero come i malvagi spiriti delle leggende antiche, quando ai primi albori terminavano la tregenda infernale.

Andavano al Rio de Janeiro; quivi legati tutti dal laccio del delitto, da un medesimo pericolo e da una sola ambizione, Loredano facea disegno di trovare in loro degli agenti fedeli e devoti per venir a capo della sua impresa.

Nell’atto che il tradimento insidiava alla quiete, alla felicità, alla vita e all’onore di quella casa, tutti dormivano tranquilli e scevri di cure; non un presentimento sorgeva ad avvertirli della sciagura che li minacciava.

Loredano, grazie alla sua agilità e alla sua forza, era pervenuto fino al letto della fanciulla, senza che il menomo rumore avesse tradito la sua presenza, senza che nell’abitazione alcuno si fosse accorto di quanto avveniva.

Certo quindi del buon successo, Loredano [p. 42 modifica]avvertito dall’innocente tortorella, ignara del male che faceva, affrettossi a consumare la sua opera.

Aprì il cumò di Cecilia, ne trasse robe di seta e lini, e fece di tutto un fardello più piccolo che era possibile; dipoi l’avvolse in una delle pelli che servivano di tappeto, e lo collocò sur una seggiola alla distesa della mano, per non perder tempo in fuggendo.

Era cosa ben singolare il pensiero di questo uomo. Nell’atto di commettere un tanto delitto, ebbe la dilicata idea di voler mitigare la sventura della fanciulla, facendo che nulla le mancasse nel viaggio disagevole che stava per intraprendere.

Quando tutto fu preparato, aperse la porticina che metteva nel giardino, e studiò il cammino che dovea tenere; ed era necessario; perocchè, non appena si prendesse Cecilia fra le braccia, dovea partire e arrivare d’una sola corsa veloce, rapida, cieca.

Quella porticina era situata in un angolo della stanza, rimpetto al vano fra il letto e la parete; collocato in questo luogo, non aveva che a fare un movimento; afferrare la fanciulla e gettarsi fuori della camera.

Nell’atto che stava per accostarsi al letto, udissi un gemito, quasi un sospiro represso e pieno di angoscia.

I capelli si rizzarono sulla fronte di Loredano, e una goccia di sudor freddo, gelato, gli rigò le guancìe pallide e contratte. [p. 43 modifica]

A poco a poco si riebbe dallo stupore che lo paralizzava, e volse lentamente attorno di sè alcune occhiate piene di spavento.

Nulla! Neppur un insetto pareva ridesto in quella profonda solitudine della notte, ove tutto dormiva, eccetto il delitto, la vera versiera della terra, il cattivo genio delle credenze dei nostri paesi.

Tutto era in calma; persino il vento pareva che si fosse ricoverato nel calice dei fiori, e addormentato in quella culla profumata come in un letto nuziale.

Loredano si riebbe dalla violenta scossa, che avea sofferta, fece un passo e si chinò sopra il letto.

Cecilia sognava in quell’istante.

Il suo viso rischiarossi d’un’espressione di gaudio angelico; la sua mano, che posava sul seno, si mosse coll’indolenza e la mollezza del sonno, e ricadde sopra le guancie.

La piccola croce di smalto, che avea al collo, e che erale rimasta fra le dita della mano, le sfiorò le labbra; una musica celeste ferì l’aere, come se Iddio avesse vibrato una delle corde della sua arpa eolia.

Fu da prima un sorriso che le aleggiò sulle labbra; dipoi il sorriso raccolse le sue ali e formò un bacio; alla fine il bacio si aperse a metà come un fiore, ed esalò un sospiro profumato.

— Pery! [p. 44 modifica]

Il collo allentossi dolcemente, e la mano scorrendo pian piano andò di nuovo a posarsi fra lo sparato della casacca di candidissimo lino.

Loredano si rialzò pallido.

Non osava toccare quel corpo tanto casto e tanto puro; non potea fissare lo sguardo in quella fisonomia raggiante di innocenza e di candore.

Ma il tempo urgeva.

Fece uno sforzo supremo sopra se stesso; fermò il ginocchio sulla sponda del letto, chiuse gli occhi e stese le mani.