Il guarany/Parte Seconda/Capitolo XII
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CAPITOLO XII.
I MESSAGGI DI PERY.
Alvaro levossi in piedi, come se le labbra della giovane avessero insinuato nelle sue vene una goccia di quel veleno sottile dei selvaggi, che uccideva con un atomo.
Pallido, attonito, figgeva in lei uno sguardo freddo e severo; il suo cuore leale, la sua anima nobile, esagerava al segno la pura affezione che portava a Cecilia, che l’amore d’Isabella pareagli quasi un’ingiuria; era almeno una profanazione.
La giovane colle lagrime agli occhi sorrideva amaramente; il movimento rapido di Alvaro avea cangiato la loro attitudine; adesso era ella che stava prostrata a’ piè del cavaliere.
Soffriva orribilmente; ma la passione la dominava; il silenzio di tanto tempo le bruciava le labbra; il suo amore avea bisogno di respirare, di espandersi, ancorchè dipoi il disprezzo o perfin l’odio venissero a ricalcarlo nel cuore.
— Prometteste di perdonarmi!... diss’ella in tuono supplichevole.
— Non ho nulla a perdonarvi, donna Isabella, rispose il giovane rialzandola; vi chieggo solo che più non parliamo di una simil cosa.
— Ebbene! Ascoltatemi un momento, un solo istante, e vi giuro, per la madre mia, che più non udrete una parola da me! Se lo volete, neppure vi guarderò in avvenire! Non ho bisogno di guardarvi per vedervi!
E accompagnò questo parlare con un gesto sublime di rassegnazione.
— Che desiderate da me? dimandò il giovane.
— Desidero che siate mio giudice. Dopo condannatemi; la pena, venendo da voi sarà per me un conforto. Me lo neghereste?
Alvaro si sentì commosso da quelle parole dette con un accento di profonda disperazione.
— Non commetteste un crimine, e quindi non avete bisogno di giudice; ma se volete un fratello per consolarvi, ne avete in me uno devoto e sincero.
— Un fratello!... sclamò la giovane. Sarebbe almeno un’affezione.
— È un’affezione calma e serena, che ne val bene un’altra, donna Isabella.
La giovane non rispose; capì il dolce rimprovero che ci avea in quelle parole; ma sentiva pure l’amore ardente che le riempiva l’anima, che la soffocava.
Alvaro si rammentò la raccomandazione di don Antonio de Mariz; e quello che a principio sarebbe stata una semplice compassione, si convertì in affetto.
Isabella era sventurata fin dall’infanzia; dovea dunque consolarla, e fin d’allora adempiere all’ultima volontà del vecchio fidalgo, che amava e rispettava qual padre.
— Non ricusate ciò che vi chieggo; diss’egli affettuosamente: accettatemi per vostro fratello.
— Così dev’essere; rispose Isabella tristamente: Cecilia mi chiama sua sorella; voi dovete esser mio fratello. Accetto! Sarete buono con me?
— Sì, donna Isabella.
— Un fratello non deve chiamare la sorella pel suo nome semplicemente? dimandò ella con timidezza.
Alvaro esitò.
— Sì, Isabella.
La giovane ricevette questa parola con gioia immensa; le parve che i labbri del cavaliere, pronunciando così famigliarmente il suo nome, l’accarezzassero e la baciassero.
— Obbligata!... Non sapete qual bene mi fate chiamandomi così. Occorre aver sofferto molto per trovar la felicità in cosa sì da poco.
— Narratemi i vostri affanni.
— No; lasciateli meco; forse alcun giorno potrò farlo: adesso voglio soltanto mostrarvi che non sono rea quanto pensate.
— Rea! Di che?
— In amarvi, disse Isabella arrossendo.
Alvaro si fece di nuovo freddo e riservato.
— So che vi tengo a disagio; ma è la prima e l’ultima volta; uditemi, poscia mi sgriderete, come deve un fratello colla sorella.
La voce d’Isabella era sì dolce, il suo sguardo sì supplichevole, che Alvaro non potè resistere.
— Parlate, sorella mia.
— Sapete chi sono; una povera orfana, che perde la madre molto per tempo, e non conobbe il padre. Vissi della compassione altrui; non mi lamento, ma soffro. Figlia di due razze nemiche, dovea amarle ambedue; e frattanto l’infelice mia madre me ne fece odiar una, il disdegno con cui mi trattarono, mi portò a disprezzar l’altra.
— Povera fanciulla! mormorò Alvaro ricordando per la seconda volta le parole di don Antonio de Mariz.
— Perciò, isolata nel mezzo di tutti, nutrendo appena quel sentimento acerbo che mia madre lasciava nel mio cuore, sentiva la necessità di amare qualche cosa. Non si può viver solamente di odio e di disprezzo!...
— Avete ragione, Isabella.
— Mi è caro che l’approviate. Avea bisogno di amare; avea bisogno di un’affezione che mi legasse alla vita. Non so come, non so quando, cominciai ad amar voi: ma in silenzio, nel profondo dell’anima mia.
La giovane fissò intensamente i suoi occhi in quelli di Alvaro.
— Ciò mi bastava. Quando vi avea guardato per ore ed ore, senza che ve ne accorgeste, mi giudicava felice; mi raccoglieva colla mia dolce immagine, e conversava con lei o mi addormentava sognando sogni ben lieti.
Il cavaliere sentivasi turbare, ma non osava interrompere Isabella.
— Non sapete che secreti tiene quell’amore, che vive solo delle sue illusioni, senza che uno sguardo, una parola lo alimenti. La più piccola cosa è un piacere, una ventura suprema, Quante volte non accompagnava il raggio della luna, che entrava per la mia finestra, e a poco a poco si venia approssimando: in quel blando chiarore mi parea di vedere il vostro sembiante, e l’aspettava tremante di piacere, come se vi attendessi. Quando il raggio era giunto, quando la sua luce soave cadeva sopra di me, provava un godimento immenso; mi dava a credere che mi sorridevate, che le vostre mani stringevano le mie, che il vostro volto si univa al mio, che le vostre labbra...
Isabella chinò il capo languido sopra la spalla d’Alvaro; il cavaliere, palpitante di emozione, passò il braccio alla cintola della giovane e la strinse al cuore; ma tantosto se ne staccò con un movimento brusco.
— Non vi date affanno per me, diss’ella mestamente, so che non dovete amarmi. Siate nobile e generoso; il vostro primo amore sarà l’ultimo. Potete udirmi senza tema.
— Che vi resta a dire ancora! dimandò Alvaro.
— Resta la spiegazione che testè mi chiedeste.
— Ah! dunque!
Isabella contò allora, come, malgrado tutta la forza della volontà con cui custodiva il suo secreto, si era tradita; contò l’intrattenimento con Cecilia, e il modo come questa le facesse accettare il braccialetto.
— Adesso sapete tutto; il mio amore va di nuovo a rientrare nel mio cuore, d’onde non sarebbe mai uscito, se non fosse stata una certa fatalità che vi fece avvicinare a me, e vi recò a rivolgermi qualche dolce parola. La speranza per le anime che ancora non la conobbero, illude tanto, affascina di tal modo, che ben posso trovar discolpa al vostro cospetto. Dimenticatemi, signor Alvaro; ma non vi ricordate di me per disprezzarmi!
— Mi fate torto, Isabella; non posso, è vero, esser per voi altro che un fratello, ma questo titolo sento che lo merito, per la stima e per l’affezione che m’inspirate. Addio, mia buona sorella.
Il giovane pronunciò queste ultime parole con tenera effusione di cuore, e stringendo la mano d’Isabella, disparve; avea bisogno di rimaner solo per riflettere sopra quello che gli accadeva.
Dopo ciò che avea inteso dalla giovane, era convinto che Cecilia non lo amava, che mai l’avea amato; e questa scoperta la faceva nel giorno stesso che don Antonio de Mariz gli dava la mano di sua figlia!
Sotto il peso di quest’immenso cordoglio, com’è sempre il primo affanno del cuore, il cavaliere appartossi pensieroso, col capo basso; camminò senza direzione, seguendo la linea tracciatagli dai gruppi delle piante qua e là sparsi pel piano.
Stava quasi per annottare: l’ombra squallida e scolorata del crepuscolo stendevasi come un manto di gaz sopra la natura; gli oggetti andavano perdendo la loro forma, il loro colore, il loro aspetto vivo e animato, e ondulavano nello spazio vaghi e indecisi.
La prima stella immersa nell’azzurro del cielo splendeva di furto, come gli occhi di una fanciulla che si aprono al suo destarsi e si chiudono di nuovo pel troppo chiarore del giorno; un grillo ascoso nel tronco di un albero cominciava le sue stridule note; era l’insetto trovatore che salutava ravvicinarsi della notte.
Alvaro continuava il suo passeggio, sempre pensieroso, quando d’improvviso sentì come una corrente d’aria lambirgli la faccia; alzando gli occhi videsi innanzi una lunga freccia confitta nel terreno, che ancora oscillava pel moto impressole dall’arco.
Il giovane retrocesse d’un passo e portò la mano alla cintola; ma subito, riflettendo, si accostò alla saetta ed esaminò le penne di cui era adorna; erano da un lato penne di azulao e dall’altro di cigno.
L’azzurro e il bianco erano i colori di Pery; erano i colori degli occhi e del viso di Cecilia.
Un dì la fanciulla, somigliante a una gentil castellana dell’età di mezzo, erasi divertita a spiegare all’Indiano come i guerrieri che servivano una dama, usavano portare nelle armi i colori di lei.
— Tu dai a Pery i tuoi colori, signora? disse l’Indiano.
— Non ne ho, rispose la fanciulla; ma voglio cercartene qualcuno; lo vuoi?
— Pery te lo chiede.
— Quali pensi essere i migliori?
— Quelli del tuo volto e de’ tuoi occhi.
Cecilia sorrise.
— Prendili; te li do.
Da quel giorno Pery fregiò tutte le sue saette di penne azzurre e bianche; i suoi ornamenti, all’infuori di una fascia di penne scarlatte tessuta da sua madre, erano ordinariamente degli stessi colori.
Fu per questo che Alvaro vedendo le penne della saetta, si tranquillò; conobbe ch’era di Pery, comprese il senso di quella frase simbolica, che l’Indiano gl’inviava per l’aria.
Infatti quella freccia, nel linguaggio di Pery, non era se non un avviso dato in silenzio e ad una gran distanza; una carta, un messaggiere muto, una semplice interiezione: Alto!
Il giovane si tolse dalle sue meditazioni, e gli sovvenne di ciò che Pery gli avea detto il mattino; senza dubbio quello che faceva al presente avea relazione col mistero, che appena gli avea lasciato travedere.
Percorse coll’occhio lo spazio che gli stava dinanzi, lo affisò nelle macchie di arbusti che lo circondavano; ma non vide cosa meritevole di attenzione, non scoprì segno di sorta che gl’indicasse la presenza dell’Indiano.
Alvaro risolse di aspettare, e piantandosi vicino alla freccia, incrociò le braccia, e cogli occhi fissi nella linea oscura del bosco che si perdeva nel fondo azzurro dell’orizzonte, aspettò.
Un istante appresso una piccola saetta volando per l’aria venne a piantarsi nel sommolo della prima, e la scosse con tal forza che l’asta inclinossi; Alvaro comprese che l’Indiano volea svellere la freccia, e obbedì all’ordine.
Immediatamente una terza saetta cadde a due passi a destra del cavaliere, ed altre pur si succedettero nella medesima direzione, di due in due braccia, finchè una andò a perdersi in un denso albereto collocato a trenta passi dal luogo ove si era arrestato a principio.
Non era difficile questa volta comprendere l’intenzione di Pery; Alvaro che accompagnava le saette a misura che cadevano, e che sapea indicar esse il luogo ove dovea riparare; appena vide l’ultima internarsi nell’albereto, vi corse entro e si nascose dietro le frondi.
Di là, dopo breve intervallo, vide tre uomini che passarono assai presso al luogo ov’era stato poco prima; non li potè discernere per causa delle frondi degli alberi, ma notò che camminavano cautamente, e gli parve che avessero in pugno le pistole.
Si allontanarono avviandosi alla casa: il cavaliere si accingeva a seguirli, quando le foglie si aprirono, e Pery scivolando come un’ombra, senza fare il minimo rumore, avvicinossi a lui, e gli susurrò all’orecchio una parola:
— Son dessi.
— Chi dessi?
— I nemici bianchi.
— Non ti comprendo.
— Aspetta: Pery ritorna.
E l’Indiano scomparve di nuovo nell’ombre della notte, che si avanzava rapidamente.