Questa pagina è stata trascritta e formattata, ma deve essere riletta. |
— 132 — |
tiva pure l’amore ardente che le riempiva l’anima, che la soffocava.
Alvaro si rammentò la raccomandazione di don Antonio de Mariz; e quello che a principio sarebbe stata una semplice compassione, si convertì in affetto.
Isabella era sventurata fin dall’infanzia; dovea dunque consolarla, e fin d’allora adempiere all’ultima volontà del vecchio fidalgo, che amava e rispettava qual padre.
— Non ricusate ciò che vi chieggo; diss’egli affettuosamente: accettatemi per vostro fratello.
— Così dev’essere; rispose Isabella tristamente: Cecilia mi chiama sua sorella; voi dovete esser mio fratello. Accetto! Sarete buono con me?
— Sì, donna Isabella.
— Un fratello non deve chiamare la sorella pel suo nome semplicemente? dimandò ella con timidezza.
Alvaro esitò.
— Sì, Isabella.
La giovane ricevette questa parola con gioia immensa; le parve che i labbri del cavaliere, pronunciando così famigliarmente il suo nome, l’accarezzassero e la baciassero.
— Obbligata!... Non sapete qual bene mi fate chiamandomi così. Occorre aver sofferto molto per trovar la felicità in cosa sì da poco.
— Narratemi i vostri affanni.
— No; lasciateli meco; forse alcun giorno potrò farlo: adesso voglio soltanto mostrarvi che non sono rea quanto pensate.