Il guarany/Conclusione/Capitolo II
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CAPITOLO II.
IL SELVAGGIO NEL DESERTO.
La notte era serena.
La piroga guizzando sulle acque del fiume facea sbocciare quei fiori di spuma, che brillano un momento alla luce delle stelle, e poi si disfanno come il sorriso della donna.
Le aurette avean cessato; e la natura addormentata respirava quella calma tiepida e profumata delle notti americane, tanto piene di incanto e di languidezza.
Il viaggio era silenzioso; quelle due creature, abbandonate nel mezzo del deserto, sole al cospetto della natura, stavano mute, quasi temessero risvegliare l’eco profondo della solitudine.
Cecilia riandava nella memoria tutta la sua vita innocente e tranquilla, il cui filo dorato erasi rotto in modo tanto crudele; ma era specialmente l’ultimo anno di quell’esistenza, dal dì della comparsa imprevista di Pery, che si disegnava nella sua immaginazione.
Perchè interrogava così i giorni che avea vissuti nel paradiso della felicità? Perchè il suo spirito facea ritorno al passato, e procurava di legare insieme tutti quei fatti, cui nella trascurata ingenuità dei primi anni avea dato sì poco valore?
Essa stessa non saprebbe spiegare le emozioni che provava; la sua anima innocente e ignara erasi illuminata d’una subita rivelazione; nuovi orizzonti aprivansi ai casti sogni de’ suoi pensieri.
Ritornando al passato, maravigliavasi della sua esistenza, rimaneva abbagliata, come l’occhio che apresi d’improvviso al chiarore del giorno dopo un sonno profondo; non si conosceva più in quell’immagine d’altra volta, in quella fanciulla tanto gaia e folleggiale.
Tutta la sua vita era cangiata; la sventura avea operato quella repentina rivoluzione, e un altro sentimento, ancora confuso, stava forse per completare quella metamorfosi misteriosa della donna.
All’intorno di lei tutto si risentiva di quella mutazione; i colori prendeano toni armoniosi, l’aria profumi inebbrianti, la luce riflessi soavi, che i suoi sensi non conoscevano.
Un fiore, che per l’innanzi altro non era per lei che una vaga forma, pareale adesso una creatura che sentisse e palpitasse; i zeffiri che altra volta passavano come un semplice alito delle aure, mormoravano in quel momento al suo orecchio melodie ineffabili, mistiche note, che risuonavano nel profondo del suo cuore.
Pery giudicando la sua signora addormentata, remava dolcemente per non turbarne il riposo; la fatica cominciava a vincerlo; non ostante l’indomato coraggio e la possente volontà, le sue forze erano esauste.
Vincitore appena nella lotta terribile contro il veleno, avea cominciato l’impresa quasi impossibile della salvezza della sua signora; già da tre giorni più non chiudeva un occhio, non aveva lasciato riposare un istante lo spirito.
Tutto quanto la natura permetteva all’intelligenza e al potere dell’uomo, egli avea fatto, e tuttavia non era la fatica del corpo che lo vinceva, ma le emozioni violente per cui era passato in quei dì.
Quello che avea provato quando libravasi sull’abisso, e la vita della sua signora dipendeva da un passo in fallo, da un’oscillazione del fragile tronco disposto a ponte pensile, nissuno è capace di comprenderlo.
Quello che sofferse, quando Cecilia nella sua disperazione per la morte del padre lo accusava di averla salvata, e imponevagli di ricondurla al luogo ove riposavano le ceneri del vecchio fidalgo, è impossibile a descriversi.
Furono ore di martirio, di sofferenza orribile, cui la sua anima avrebbe soggiaciuto, se egli non avesse trovato nella sua volontà inflessibile e nella sua devozione sublime un conforto al dolore e uno stimolo per trionfare d’ogni ostacolo.
Erano queste le emozioni che lo vincevano, anche dopo vinte; egli si accorse che i suoi muscoli d’acciaio, schiavi sommessi al suo menomo desiderio, si allentavano come la corda dell’arco dopo il combattimento.
Pensò che la sua signora avea bisogno di lui, e che dovea giovarsi di quei momenti in cui essa riposava, per chiedere al sonno nuovo vigore e nuove forze.
Guadagnò il mezzo del fiume, e scegliendo un luogo, ove non giungeva neppur un ramo d’albero di quei che cresceano lungo la riva, legò la piroga alle alghe che galleggiavano a fior d’acqua.
Tutto era queto; la terra giaceva alla distanza di molte braccia; perciò la sua signora poteva dormir senza pericolo sopra quel mobile campo, sotto l’azzurra volta del firmamento; le onde la dondolerebbero nella sua cuna, le stelle veglierebbero sopra il suo sonno.
Scevro d’inquietudine, Pery accostò il capo alla sponda della piroga: un momento appresso le sue palpebre intorpidite si chiusero poco a poco; il suo ultimo sguardo, quello sguardo vago e incerto che aleggia sulla pupilla già mezzo addormentata, vide disegnarsi nell’ombra una forma candida e graziosa, che si chinava dolcemente sopra di lui.
Non era un sogno quella vaga visione. Cecilia, sentendo la piroga immobile, si scosse dalle sue meditazioni; si assise e sporgendosi un po’ innanzi vide che il suo amico dormiva, e accusò sè stessa di non avergli anticipato quel momento di riposo.
Il primo sentimento che s’impadronì della fanciulla, vedendosi sola, fu quel terrore solenne e rispettoso, che infonde la solitudine nel mezzo del deserto, nelle ore morte della notte.
Pare che il silenzio abbia umani accenti; le ombre si popolano di enti invisibili; gli oggetti nella loro immobilità oscillano nello spazio.
È al tempo stesso il nulla col suo vuoto profondo, immenso, infinito; è il caos colla sua confusione, le sue tenebre, le sue forme increate; l’anima sente che manca la vita o la luce attorno di sè.
Cecilia ricevette quell’impressione con una tema religiosa; ma non si lasciò dominar dalla paura; la sventura aveala assuefatta al pericolo; e la fiducia nel suo compagno era tanta, che pur dormendo le parea che Pery vegliasse sopra di lei.
Contemplando quel capo addormentato, la fanciulla ammirò la bellezza incolta di quei lineamenti, la purezza delle linee di quel profilo altiero, quell’espressione di forza e intelligenza, che animava quel busto selvaggio modellato dalla natura.
Come mai non avea scorto fin là in quelle sembianze se non un volto amico? Come mai i suoi occhi non si erano ancor arrestati su quelle fattezze tagliate con tanta energia?
Egli è che la rivelazione fisica, che avea illuminato il suo sguardo, non era se non il risultato di quell’altra rivelazione morale, che avea rischiarato il suo spirito; prima vedeva cogli occhi del corpo, adesso con quelli dell’anima.
Pery, che per un anno altro non era stato per lei che un amico devoto, apparivagli d’improvviso quale un eroe; nel seno della sua famiglia lo stimava, nel mezzo di quella solitudine l’ammirava.
Come quei quadri dei grandi pittori, che abbisognano di luce, di un fondo brillante e di semplici contorni, per mostrare la perfezione del colorito e la purezza del disegno, il selvaggio abbisognava del deserto per rivelarsi in tutto lo splendore della sua bellezza primitiva.
Nel mezzo di uomini inciviliti era un Indiano ignorante, nato da una razza barbarica, egualmente ripulsato dalla religione, dal colore e dalla civiltà, e riputato come un captivo. Ancorchè per Cecilia e don Antono fosse un amico, era soltanto un amico schiavo.
Qui però tutte quelle distinzioni sparivano; il figlio delle selve, tornando al seno della sua madre, ricuperava la libertà; era il re del deserto, il signor delle foreste, che dominava pel diritto della forza e dell’intelligenza.
Le alte montagne, le cateratte, i grandi fiumi, gli alberi secolari, le nuvole servivano di trono, di scettro e di sopraccielo a quel monarca delle selve, circondato di tutta la maestà e di tutto lo splendore della natura.
Che effusione di riconoscenza e di ammirazione non ci aveva nello sguardo di Cecilia! Era in quel momento che comprendeva tutta l’annegazione del culto santo e rispettoso che l’Indiano le votava!
Le ore scorrevano silenziose in quella muta contemplazione; la brezza leggera, che annunzia lo spuntar del giorno, sfiorò il volto della fanciulla; e poco appresso il primo albore del mattino diradò la tinta fosca dell’orizzonte.
Sopra il rilievo formato dal profilo oscuro della foresta, nelle ombre della notte, splendeva limpida e gaia la stella del mattino; le acque del fiume si commossero dolcemente; e i ventagli della palma si agitarono mandando un lieve rumore.
La fanciulla si sovvenne del suo risvegliarsi tanto placido di altra volta, delle sue mattine così scevre di cure, della sua preghiera così viva e piena di riso, con cui rendea grazie a Dio della buona ventura, che versava sopra di lei e della sua famiglia.
Una lagrima spuntò sulle sue ciglia rosate, e cadde sulla faccia di Pery; aprendo gli occhi e scorgendo ancora la stessa dolce visione che l’avea addormentato, l’Indiano stimò che il sonno continuasse.
Cecilia sorrise, e passò la mano dilicata sulle palpebre ancora socchiuse del suo amico.
— Dormi, diss’ella, dormi; Cecy veglia.
La musica di quella parole risvegliò interamente il selvaggio.
— No! balbettò egli, come vergognando di aver ceduto alla fatica. Pery si sente forte.
— Ma tu devi aver bisogno di riposo! È sì poco che ti addormentasti!
— Il giorno non tarda a raggiare; Pery deve vegliare sulla sua signora.
— E perchè la tua signora non veglierà anche sopra di te? Vuoi serbar tutto per te e non lasciar a lei neppure la gratitudine!
L’Indiano gettò uno sguardo pieno di ammirazione sulla fanciulla.
— Pery non comprende quello che tu dici. La tortorella, che attraversa la campagna e si sente affaticata, si ristora sull’ala del suo compagno ch’è più robusta; egli è che custodisce il suo nido nel tempo che dorme, che va a procacciarle l’alimento, che la difende e la protegge. Tu sei come la tortorella, signora.
Cecilia arrossì della comparazione ingenua del suo amico.
— E tu? dimandò ella confusa e tremante d’emozione.
— Pery... è tuo schiavo; rispose l’Indiano naturalmente.
La fanciulla scosse il capo con un’inflessione, graziosa:
— La tortorella non ha schiavi.
Gli occhi di Pery scintillarono; un’esclamazione partì dalle sue labbra:
— Tuo...
Cecilia col seno palpitante, le guancie vermiglie, gli occhi molli, alzò la mano alle labbra di Pery, e rattenne la parola che col suo innocente folleggiare avea provocata.
— Tu sei mio fratello! diss’ella con un sorriso divino.
Pery guardò il cielo, come per confidargli la sua felicità.
Il chiarore dell’aurora stendeasi sulla foresta e le campagne a guisa d’un velo finissimo; la stella del mattino scintillava in tutto il suo splendore.
Cecilia inginocchiossi.
— Salve, regina!....L’Indiano la contemplava con un’espressione di felicità ineffabile.
— Tu sei cristiano, Pery! diss’ella volgendogli uno sguardo supplichevole.
Il suo amico la comprese, e inginocchiandosi giunse le mani come lei.
— Tu ripeterai tutte le mie parole; e procura di non dimenticarle più.
— Esse vengono dalle tue labbra, signora.
— Signora, no! Sorella!
Di lì a poco il mormorio delle acque confondevasi cogli accenti soavi della voce di Cecilia, che recitava quell’inno cristiano ripieno di tanta poesia e unzione.
La parola di Pery ripeteva come un eco quelle frasi sacre.