Atto I

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Personaggi Atto II
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ATTO PRIMO.

SCENA PRIMA.

Gioacchino e Birone1, ciascheduno dalla parte della sua bottega.

Birone. Ecco i stampati fogli, che il padron mio vi manda:

(a Gioacchino)
I soliti foglietti di Parigi ed Olanda,
Il Mercurio Galante, che fa tanto rumore,
Ed il corrente foglio del nostro Spettatore.
Gioacchino. Oh sì, che faran festa, leggendo i curiosi;
Verranno a satollarsi i critici oziosi;
E senza sale in zucca, e senza discrezione,
Si sentirà ciascuno a dir la sua opinione.
Birone. Frattanto che siam soli, dammi il caffè, Gioacchino.
Gioacchino. Tel porto, e tu, Birone, recami un libriccino.

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Birone. Ben volentier, qual libro? Chiedilo, e te lo dono.

Gioacchino. Vorrei che tu mi dessi qualche cosa di buono.
Birone. Ti porterò un romanzo. In oggi, se nol sai,
Sono le favolette in voga più che mai.
Chi può stampar romanzi, libraio è fortunato;
E suol chi li compone passar per letterato.
(entra nella sua bottega)
Gioacchino. Anch’io, per dire il vero, li leggo con piacere.
Son cose all’età mia conformi, e al mio sapere.
Birone. Eccoti il libro.
Gioacchino.   Aspetta. Darti il caffè mi preme.
Birone. L’hai tu beuto ancora?
Gioacchino.   No, lo berremo insieme.
(va in bottega a prendere il caffè)
Birone. Ogni garzon per uso fa quel che facciam noi,
Tratta gli amici a spese delli padroni suoi.
Gioacchino. Eccol per tutti due. (porta due chicchere di caffè)
Birone.   Sediamo.
(siedono ciascuno alla sua panca)
Gioacchino.   Sì, sediamo.
Questo poco di bene, fin che si può, godiamo.
Birone. L’ora non è avanzata. Facciamla da signori,
Finchè arrivar si veggano i nostri seccatori.
Gioacchino. Uno ve n’è fra quegli, che ognor da noi si vedono,
Che parmi un ignorante, e pur molti gli credono:
Emanuel Bluk si chiama, uomo che fa il sapiente,
Ma intesi dir da molti, ch'è un furbo e non sa niente.
Birone. Da noi, per dire il vero, pratica gente buona:
Jacobbe Monduill merita una corona.
Filosofo, ma vero, non di quelli all’usanza,
Che per filosofia fan passar l’increanza.
Gioacchino. Dicon però, che il vostro filosofo erudito
Da madama Brindè sia stato un po’ ferito.
Birone. Madama di Brindè, vedova letterata,
Della di lui virtude si dice innamorata.

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Vi è chi di lor si burla, chi mormora e sospetta;

Vi è chi dei studi loro qualche bel frutto aspetta.
Ma vi è chi li difende; chi dice che contenti
Passano il loro tempo coi libri e gli argomenti.
Gioacchino. So che madama Saixon, di lei minor sorella,
Si burla della tresca di questa vedovella.
Abitan qua di sopra, come tu sai. Sovente
Su questa loggia loro l’una e l’altra si sente.
La Saixon viene spesso anche in bottega nostra.
Di spirito vivace suol far pomposa mostra:
Diverte chi l’ascolta talor con qualche sale;
Ma tutti i suoi discorsi finiscono in dir male.
Birone. E suo marito il soffre?
Gioacchino.   Saixon è un negoziante,
Che più della consorte apprezza il suo contante.
Un buon marito, un uomo che di lei non sospetta;
Se in casa non la trova, senza gridar l’aspetta.
E quando la signora ritorna accompagnata,
Non chiede, con prudenza, dove e con chi sia stata.
Birone. Suol la Brindè nutrire altri costumi in seno:
È saggia, è regolata; per quel che pare almeno.
Gioacchino. Vien gente.
Birone.   Separiamci.
Gioacchino.   Addio.
Birone.   Buon dì, Gioacchino.
Del caffè ti ringrazio.
Gioacchino. Ed io del libriccino.
(ambi si ritirano nelle loro botteghe)

SCENA II.

Jacobbe Monduill e Milord Wambert dalla parte del libraio.

Milord. Non mi adulate, amico, parlatemi sincero.

Jacobbe. Signor, più della vita amo l’onesto e il vero.
Consiglio mi chiedete? Parlo da vero amico;
Quel che nel cuore i’ sento, anche col labbro io dico.

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Sprezzar le oneste nozze niuna ragione insegna,

Quando la scelta sposa non sia d’amore indegna.
Il filosofo greco nozze ricorda eguali
Non d’età o di ricchezza, ma di virtù e natali.
Milord. Vi confidai la brama che ho di legarmi in petto,
Ora delle mie fiamme vi svelerò l’oggetto.
Su la mia scelta istessa bramo da voi consiglio:
Chiedolo, come al padre lo chiederebbe il figlio.
Jacobbe. Sia con paterno zelo, sia con servile ardore,
Risponderò ad un figlio, parlerò ad un signore.
Milord. Quella che il seno mio ferì coi lumi suoi
Madama è di Brindè.
Jacobbe.   Signor, non è per voi.
Milord. Se ugual non è di sangue?
Jacobbe.   Vil non è nata almeno.
Milord. Saggia non è? discreta?
Jacobbe.   Pien di virtude ha il seno.
Milord. Di ricchezza non curo.
Jacobbe.   Nè la ricchezza è quella
Che deggia prevaler.
Milord.   Non vi par vaga?
Jacobbe.   È bella.
Milord. Dunque se per lei sola mi arde d’Amore il nume,
Qual ragion vi si oppone?
Jacobbe.   Il genio ed il costume.
Milord. Spiegatevi.
Jacobbe.   Milord, soglio agli amici in faccia
Dir con rispetto il vero, ancor quando dispiaccia.
Di genio e di costume tal donna è a voi distante,
Ma la distanza in quella non conosce un amante.
Milord. Non vi capisco ancora.
Jacobbe.   Mi spiegherò. Tal foco
Quant’è che vi arde in seno?
Milord.   Saran due mesi.
Jacobbe.   È poco.

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Milord. E pur...

Jacobbe.   Perdon vi chiedo. Chi di madama il merto
Dipinse al vostro cuore?
Milord.   Il comun grido.
Jacobbe.   È incerto.
Ragionaste con lei?
Milord.   Sì, favellar L’intesi.
Star de’ più dotti a fronte l’ho ammirata, e mi accesi.
Jacobbe. Signor, se l’ammiraste, se vi accendeste a un tratto,
Fu da virtù straniera vostro cuor sopraffatto.
Ma quella donna istessa, che un dì vi piacque tanto,
Vi spiacerebbe allora quando l’aveste accanto.
Bello è il veder la donna in mezzo a dotte genti
Sostener le questioni, risolver gli argomenti;
Ma in casa ad un marito non piacerà il sussiego,
Con cui le letterate soglion risponder: nego.
Deve bramar lo sposo sposa che senta amore,
Non che a indagar si perda la cagion dell'amore;
Non tal, che del marito deluda l’intenzione,
Parlandogli nel letto d’impulso e d’attrazione.
Milord. Vi ho inteso.
Jacobbe.   Io non vorrei...
Milord.   Basta così. Son pago.
Scancellerò dal petto di madama l’imago.
Jacobbe.   Siete convinto?
Milord. Il sono: ogni consiglio approvo,
Quando da ragion vera sostenuto lo trovo.
La spada, il canto, il ballo finor fur mio diletto;
Madama ad altre scienze consacrò l’intelletto.
È ver ch’ella mi diede piacer coi sillogismi,
Ma le ragioni in casa mi parerian sofismi.
Grazie vi rendo, amico, uomo di cuor sincero,
Filosofo discreto, conoscitor del vero.
(Fa un saluto a Jacobbe, e passa alla bottega del caffè, sedendo sopra una panca, dove Gioacchino gli porta il thè.

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Jacobbe. Poco non è, che grato siagli un consiglio audace;

Colui che non adula, quasi sempre dispiace.
Che importa a me che unita sia con milord madama?
Il mio cuor la rispetta, ma come lui non l’ama.
È ver che generosa mi soffre e mi soccorre,
Ma all’onestà non soglio l’interesse anteporre.
Povero quale io sono, dalle sventure oppresso,
Quando ognun mi abbandoni, sempre sarò lo stesso.
Stoico non son, non pongo nell’abbandon totale
Dei beni della vita la virtù principale.
Filosofia m’insegna che il mondo e i beni suoi,
Se inutili non sono, son creati per noi.
Nostro delle ricchezze, nostro de’ cibi è l’uso,
Niun che ha discrete voglie, è dal goderne escluso.
Ma chi da sorte è oppresso, chi senza colpa è afflitto,
Delle miserie a fronte dee mantenersi invitto,
Sicuro che i disastri, se vengono dal fato,
L’anima non si offende, il cuor non è macchiato;
E allora sol, che i danni l’uomo a soffrir non vale,
Rende maggior la pena, sente il dolor del male.
Ecco de’ studi miei, ecco il più dolce effetto:
Non ho i comodi in odio, non aborro il diletto.
Sento dell’uomo i pesi, l’onesto ben mi piace,
Ma incontro le sventure, e le sopporto in pace.
(si ritira dal libraio)

SCENA III.

Milord Wambert bevendo il thè, seduto sopra la panca.

Madama di Brindè discaccerò dal petto.

Se l’amor non conviene, le serberò il rispetto.
Ad onta del cuor mio, che mal di ciò si appaga,
Facile è sul principio rimarginar la piaga.
Il filosofo amico m’illuminò. Dovuti
Sarieno ad uomo tale di fortuna i tributi.

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È degli amici suoi scorno e vergogna estrema,

Che la necessitade lo circondi e lo prema.
Meco vivrà Jacobbe. Vo’, per quanto a me lice,
Formar la sua fortuna, vo’ renderlo felice.

SCENA IV.

Emanuel Bluk e detto, poi Gioacchino.

Emanuel. Gioacchino. (chiama)

Gioacchino.   Che comanda? (esce dalla bottega)
Emanuel.   Vi è dello Spettatore
Foglio verun stamane?
Gioacchino.   L’abbiamo. Sì signore.
Emanuel. Portalo.
Gioacchino.   Anche il Mercurio porterò, se lo vuole.
Emanuel. Non lo voglio. Non perdo il tempo in cotai fole.
È la filosofia mio nume e mio diletto.
Voglio lo Spettatore.
Gioacchino.   Vel porterò.
Emanuel.   Ti aspetto.
Gioacchino. (Vuol di filosofia parlare un argentiere.
Quanto farebbe meglio badare al suo mestiere!)
Milord. Emanuel Bluk, che fate?
Emanuel.   Oh milord, ti saluto.
Pensavo a gravi cose: non ti avevo veduto.
Milord. (Un’altra specie è questa di filosofi strani.
Il tu lo danno a tutti: lo danno anche ai sovrani).
Gioacchino. Ecco il richiesto foglio. (a Emanuel)
Emanuel.   Bene.
Gioacchino.   Ed or, se volete,
Vi porterò il caffè.
Emanuel.   Non bevo senza sete.
(Gioacchino si ritira nella sua bottega)
Milord. Il caffè non per sete, amico, si vuol bere,
Ma per trattenimento, per uso e per piacere.

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Emanuel. Trattenimento è questo dei sciocchi e degli oziosi.

Le cose per piacere non le fan che i viziosi.
Milord. A me pure è diretto lo stil poco opportuno.
Emanuel. Quando parlo di tutti, io non escludo alcuno.
Milord. La verità, nol nego, ogni virtude avanza;
Ma separare il vero si può dall’increanza.
Emanuel. Tu sei un uomo ricco, tu sei nobile nato,
Ma fosti d'una pasta, come son io, creato.
Filosofia distingue gli sciocchi dai sapienti;
Quel che creanza chiami, è ambizion delle genti.
Milord. Ma tutti quei che sono nell’etica iniziati,
Non usan per virtute di fare i malcreati.
Emanuel. Trovami un uom che sappia, un uomo illuminato
Che pensi alla tua foggia.
Milord.   Amico, io l’ho trovato.
Emanuel. Chi è costui?
Milord.   Un uom saggio, che i suoi doveri intende,
E Jacobbe Monduill, ch’è dotto e non pretende.
Emanuel. Jacobbe Monduill è un ciarlator bugiardo,
Chiamato per ischerno filosofo bastardo.
Delle passioni umane altrui vuol porre il freno,
Ed ei le ha mascherate, ma le coltiva in seno.
Di madama Brindè pazzo, scorretto amante,
Fa il precettore in piazza, ed in casa il galante.
Milord. Come! Jacobbe aspira della Brindè all’affetto?
Emanuel. Non vi aspira, il possiede.
Milord.   (Ah, mi pone in sospetto). (da sè)
Emanuel. Egli, quell’uom sì saggio, molle del pari e avaro,
Della vedova insidia il cuore ed il danaro.
E l’ignorante volgo, che a tutto presta fede,
Quel ch’è passione in loro, virtù figura e crede.
Milord. Qual fondamento avete per sostener tai detti?
Emanuel. Lo so. Questo ti basti.
Milord.   Ponn’essere sospetti.

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Emanuel. Non mentono i miei pari. Quando per noi si dice

Questa tal cosa è vera, nessun ci contradice.
Una parola nostra val più di un istrumento,
La fè che a noi si presta, prevale al giuramento,
Jacobbe è un menzognero. È ver, perchè io lo dico.
(Jacobbe è un temerario: Jacobbe è un mio nemico).
(da sè; entra nella bottega del caffè)

SCENA V.

Milord Wambert.

Jacob fosse mendace? fosse mentito il zelo?

La sua passion coperta della virtù col velo?
Emanuel è villano, stimato sol dai sciocchi;
Ma in caso tal può darsi ch’ei sappia e mi apra gli occhi.
Più che ci penso, il temo. Madama di Brindè,
Per esser letterata, donna non fia per me?
M’insulta, mi disprezza, e con sereno ciglio
Un tradimento infame maschera col consiglio?
Ah, se ne fossi certo... ma non lo sono ancora;
Di assicurarmi il modo ritroverò in breve ora;
E se egli fia maestro d’inganni e tradimenti,
Termineran, lo giuro, le tesi e gli argomenti, (parte)

SCENA VI.

Il signor Saixon dalla porta della di lui casa, poi Gioacchino.

Saixon. (Dalla porta della sua casa esce, e va a sedere sopra una

panca della bottega del caffè.
Gioacchino. (Gli porta una pipa da fumare, e senza dir nulla, ritorna
in bottega.

Saixon. (Fuma e non parla.

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SCENA VII.

Madama Saixon, sopra la loggia, e detto; poi Gioacchino.

M. Saixon. Caro signor marito, parte senza dir nulla,

Esce di casa, e tosto col fumo si trastulla? (a Saixon)
Saixon. Che volete?
M. Saixon.   Due doppie.
Saixon.   Gioacchino. (chiama)
Gioacchino.   Signor mio.
Saixon. A madama mia moglie. (dà due doppie a Gioacchino)
M. Saixon.   Vi rendo grazie.
(Gioacchino entra in casa di Saixon)
Saixon.   Addio.
M. Saixon. Impiegar io le voglio...
Saixon.   Non vi domando in che.
M. Saixon. In un ventaglio indiano.
Saixon.   Lo raccontate a me?
M. Saixon. Ora per Gioacchino vel mando, e voi direte
Se faccio buona spesa, se val queste monete.
Sostiene mia sorella ch’è brutto, e la ragione
Fonda perchè gli manca disegno e proporzione.
Ella le cose dotte soltanto approva e loda,
Io soglio lodar tutto, basta che sia alla moda.
(si ritira)

SCENA VIII

Il signor Saixon, poi Bonvil marinaio.

Saixon. Gran donne! i lor pensieri, le cure ed i travagli

Consiston nelle cuffie, nei nastri e nei ventagli.
Prenda il danaro, e taccia: io bado ai fatti miei;
Se la mia moglie è pazza, non vo’ impazzir con lei.
Bonvil. Signor. (al signor Saixon)
Saixon.   Che ci è?

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Bonvil.   Le botti son tutte caricate.

Le polizze di carico?
Saixon.   Son qui, le ho preparate.
Bonvil. Speditemi, signore, il capitan vi prega.
Saixon. Andiam, farò più presto qui dentro la bottega.
(si alza per entrare in bottega)

SCENA IX.

Gioacchino di casa e detti.

Gioacchino. Dite, signor... (al signor Saixon)

Saixon.   Che vuoi?
Gioacchino.   Ecco il ventaglio.
Saixon.   È quello?
Gioacchino. Sì, signore.
Saixon.   A madama di’ che lo compri, è bello.
(entra, senza guardarlo, con Bonvil nel caffè)

SCENA X.

Gioacchino, poi Rosa nella loggia.

Gioacchino. Bello senza vederlo! Mi piace, non vi è male;

Ma io per riportarlo non voglio far le scale.
All’uscio picchierò. (batte alla porla)
Rosa.   Chi picchia così forte?
Gioacchino. Son io, bella Rosina.
Rosa.   Il diavol che vi porte.
Che vuoi?
Gioacchino.   Questo ventaglio dare alla tua padrona.
Rosa. A quale delle due?
Gioacchino.   Io credo alla men buona.
Rosa. Non lo darò a nessuna, se ben non vi spiegate,
Perchè son tutte due cattive indiavolate.
Una colla dottrina la servitù confonde;

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L’altra minaccia e sgrida chi presto non risponde.

Guardate se trovaste per me qualche partito.
Gioacchino. Casa vorrete dire.
Rosa.   O casa, ovver marito.
Gioacchino. S’io fossi di altra etade accetterei l’impegno;
Ma far queste fatture per altri non mi degno.

SCENA XI.

Madama Saixon sulla loggia, e detti.

M. Saixon. Con chi ciarli? (a Rosa)

Rosa.   Gioacchino dee rendere un ventaglio;
Prendendolo, temea commettere uno sbaglio.
M. Saixon. Prendilo, ch’egli è mio.
Rosa. (Cala il cesto)Calerò giù il cestino.
Gioacchino. Eccolo. (mette il ventaglio nel cesto)
Rosa.   Un’altra volta vieni un po’ su, carino.
(sotto Voce a Gioacchino)
M. Saixon. Lo vide mio marito? che disse? gli è piaciuto?
Gioacchino. Disse ch’egli era bello, ma inver non l’ha veduto.
M. Saixon. Non l’ha veduto, e il loda? Mi burla e mi deride?
Questa sua flemma indegna è quella che mi uccide.
Voglio stracciarlo in pezzi. (straccia il ventaglio)
Rosa.   Signora, oh che peccato!
M. Saixon. Or che mi son sfogata, lo sdegno mi è passato.
(si ritira)
Rosa. Gioacchino, ti saluto. Ricordati di me.
Gioacchino. Son troppo ragazzetto; non sono ancor per te.
Rosa. Voglimi bene, e cresci, che io ti aspetterò.
Gioacchino. Quando sarò cresciuto, allor risponderò. (entra in bottega)
Rosa. A costo di aspettare, voglio pregare il cielo,
Che in sposo mi conceda un uom di primo pelo.
(si ritira)

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SCENA XII.

Madama di Brindè dalla propria casa. Maestro Panich
calzolaio la incontra, con un paio di scarpe in mano.

M. Brindè. (Nell’uscire incontra Panich.)

Panich. Il cielo ti consoli, madama di Brindè:
Eccoti le tue scarpe, veniva ora da te.
M. Brindè. Panich, il mio costume superbo unqua non fu;
Ma è strano a un calzolaio complimentar col tu.
Panich. Compatisci, madama, questo è lo stile mio;
Sono, se non lo sai, filosofo ancor io.
M. Brindè. Filosofo anche voi? Me ne rallegro assai,
Voi sosterrete in Londra l’onor de’ calzolai.
A forza di argomenti difender col grembiale
Potrete, che il far scarpe sia un’arte liberale.
Panich. Per tale la sostengo in teorica e in pratica:
Convien per far le scarpe saper di matematica.
Il cuoio si dispone con peso e con misura,
E nell’unir le parti ci vuol l’architettura.
M. Brindè. È vero, non lo nego, lo dice anche Platone,
Architettura è ogni arte che ha forma e proporzione.
Mostratemi le scarpe, che avete a me portate.
(maestro Panich le mostra le scarpe)
Oh signor Archimede, son male architettate.
Una è di ordin toscano, e l’altra è di composito:
Vitruvio non insegna a far questo sproposito.
Panich. Questa è una nuova moda, ed è invenzione mia;
Paion fra lor discordi, ma sono in armonia.
Cotesta alza un pochino, quell’altra un po’ degrada;
Ma fanno un bel vedere di giorno in sulla strada.
Basta avvertir che sempre si deve nel cammino
Alzar prima il piè dritto, e poscia il piè mancino.
M. Brindè. Dovrei prender maestro di musica e di ballo,
Per andar a battuta, senza por piede in fallo?

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Caro maestro mio, filosofo e architetto,

Lodo l’invenzion vostra, ma per me non l’accetto.
Voglio una scarpa buona, che al piede ben mi stia,
Che abbia delle altre scarpe l’usata simetria.
(gli rende le scarpe)
Panich. Sì, sì, l’ho sempre detto, che far le scarpe a donna,
Lo stesso è che di fango dorare una colonna.
Non vagliono puntelli, non vagliono ornamenti,
Se guasto è il capitello, la base e i fondamenti.
M. Brindè. Olà, che ardire è il vostro? Portatemi rispetto.
Panich. Un uom della mia sorte ha il ius di parlar schietto;
Un uom che la tomaia misura colla squadra,
Che del tallon di cuoio anche il circolo quadra,
Che insegna col compasso le regole ai garzoni,
Che sa da un punto all’altro serbar le proporzioni;
Un uom, che su tale arte ha scritto due volumi,
Esente va per tutto da incomodi costumi.
Col tu parla con tutti, va e vien quando gli pare,
Ed ha la sua licenza ancor di strapazzare.
M. Brindè. Ma non avrà per questo la firma o la patente,
Che vaglia a mantenerlo dalle disgrazie esente.
Potrebbe un che le cose a misurar si è dato,
Essere da un bastone sul dorso misurato.
(entra nella bottega del libraio)

SCENA XIII.

Jacobbe Monduill dal libraio incontra Madama Brindè, con cui si ferma alcun poco ragionando e complimentando, e nel medesimo modo si avanzano, mentre maestro Panich favella.

Panich. Azion sarebbe questa da gente ardita e stolta,

Ma non sarebbe poi per me la prima volta.
Spiacemi che gettate ho invano le parole:
Le scarpe son mal fatte, madama non le vuole.

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Ma troverò alcun’altra, che avrà la tolleranza

Di prenderle, storpiarsi, credendole all’usanza.
Ah, ah, la vedovella col satrapo di Atene!
Non voglio esser veduto, andarmene conviene.
Colui di me si ride, sostien ch’io non so nulla;
Ma affè, la faccio bella, se il capo un dì mi frulla;
La lesina adoprando, se altra ragion non vale,
Gli fo toccar con mano, che la natura è frale;
Che piccola puntura, che piccola ferita
Ad un filosofone può togliere la vita.
Vuò ritirarmi intanto a leggere i foglietti,
Oggi più non lavoro, e chi ha ordinato, aspetti.
(entra nella bottega del caffè, e s’interna)

SCENA XIV.

Jacobbe Monduill e Madama Brindè.

Jacobbe. Madama, un vostro cenno mi avrebbe a voi portato,

Senza che il vostro piede si avesse incomodato:
Esser certa potete che ogni momento, ogni ora,
Madama di Brindè fia di Jacob signora.
M. Brindè. Con voi già lo sapete se io parlo volentieri:
Starei, se lo potessi, con voi de’ giorni intieri;
Ma temo che il distorvi da vostri studi gravi,
Saggio, discreto amico, vi scomodi e vi aggravi.
Non vi credea stamane ancor quivi arrivato,
Ed era al vostro studio il passo mio addrizzato.
Jacobbe. Che avete a comandarmi?
M. Brindè.   Un dubbio mi frastorna:
Il calcolo del sole di Newton non mi torna;
In quello di Cartesio vi trovo più ragione:
Vorrei che mi dicesse Jacob la sua opinione.
Jacobbe. Madama, voi sapete che tutti a braccia aperte
Hanno approvato in Londra di Newton le scoperte;

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E tanto il suo sistema pel mondo si è diffuso,

Che le dottrine antiche sono di pochi in uso.
Anche del sesso vostro, per contentar le brame,
Evvi il Newtonianismo formato per le dame:
Opera peregrina di un veneto talento,
Della filosofia decoro ed ornamento2.
M. Brindè. Il calcolo de’ cieli trattiene i miei pensieri,
Mi piace con un quattro levar sessanta zeri.
Sento che un ciel dall’altro lontano è più milioni,
Ma ancor della distanza non trovo le ragioni.
Jacobbe. Piacemi che madama nello studiar s’impieghi,
E di tante altre a scorno, l’ozio detesti e neghi:
Ma perdonate, il cielo troppo è da noi distante;
Filosofar possiamo sull’erbe e sulle piante,
La terra, il mar, la luce, il mondo e gli elementi
Di studio e di scoperte ci porgon gli argomenti;
E rende più contento, e reca più diletto,
Allor che esperienza si unisce coll’effetto.
Tolgon macchine e vetri alla natura il velo.
Troppo da noi distante, troppo, madama, è il cielo.
M. Brindè. Questo calcolo solo spianar vorrei; venite.
Poi le question dei cieli per me saran finite.
Jacobbe. Verrò. Di compiacervi ho troppa obbligazione.
(Donna è alfin, benchè dotta. Ha un po’ di ostinazione).
M. Brindè. Favorite in mia casa.
Jacobbe.   Ben volentier. Madama,
Ho da narrarvi poi... Evvi un milord che vi ama,
Che vi desia per moglie.
M. Brindè.   Questo signor chi è?
Jacobbe. È milord Wambert3.
M. Brindè.   Milord non è per me:
Non studia, non intende, non ha filosofia.
Per or di maritarmi non faccio la pazzia.

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Ma quando la facessi... Ho il cuor di virtù amico...

Basta, Jacob, andiamo. Io so quel che mi dico.
(entra in casa)
Jacobbe. Se mai di me parlasse, ella s’inganna assai.
Perder la libertade? No, non sarà giammai.
In lei virtude apprezzo, in lei beltà mi piace,
Ma quel che più mi preme, è del mio cor la pace;
E per quanto di donna discrete sian le voglie,
Sempre ad uomo che studia incomoda è la moglie.
(entra dalla Brindè)

Fine dell’Atto Primo.

  1. Nell'ed. Pitteri è stampato, in questa scena, Bironcino.
  2. In Francia, nel 1733, Francesco Algarotti scriveva il Newtonianismo per le dame.
  3. Così le edizioni del Settecento. In altre posteriori si legge: Egli È milord Wambert.