Il figlio di Grazia/V
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V.
Il marito di Marianna era tornato in Francia a lavorare il giorno prima, e la povera donna era tutta sconvolta al pensiero di rimanere dieci mesi sola, con tutta la famiglia e tutto il lavoro sulle spalle. Otto figlioli aveva: di cui il maggiore compiva allora i tredici anni.
Prima di partire, il suo uomo aveva voluto veder a casa anche la piccolina, la penultima, che aveva due anni e mezzo e quasi non conoscevano, perchè appena nata era stata portata a balia a Varallo. La mamma non si rallegrò molto di quel ritorno: era un peso di più venuto in casa, ed era tanto triste quel giorno che quasi non l’aveva guardata.
La figliola più grande — di dieci anni — avrebbe voluto baciucchiare quel bel visino rosso colla boccuccia ridente, ma aveva l’ultimo nato da ninnare tutto il giorno e fargli la pappa.
Dei fratelli, il maggiore andava sempre fuori nei campi colla mamma; il secondo partiva la mattina di buon’ora colle capre di casa e quelle dei vicini, e non tornava che la sera colla sacchetta in tracolla, vuota di pane, ma piena di zufoli d’ogni sorta, ch’egli fabbricava e sonava lassù nella solitudine de’ greppi, fra gli echi del monte. Quando vide la piccina e gli dissero ch’era la sorellina di Varallo tornata a casa, si mise a guardarla attentamente mentre mangiava e disse: «meno polenta per noi.»
Gli altri due andavano a scuola: erano sempre insieme, e si davan l’aria d’aver molte cose da fare: infatti portavano sempre roba in casa: funghi, fragole selvatiche, passerotti, lucertole scodate, e se non c’era altro, vuotavano in terra, dalle tasche dei pantaloni e dallo sparato della camicia sempre rotta e sudicia, sterpi e erba che portavano in stalla alle bestie. Se la mucca dava tanto latte era merito loro sicuramente!
La piccola Raffaella, quando li vide entrare il giorno del suo arrivo, corse loro incontro, come se il cuore le dicesse che quelli erano proprio suoi fratelli. Erano quelli infatti che le somigliavano di più nella faccia allegra. I due si fermarono a guardarla e risero; uno le diede uno scappellotto, l’altro le tirò un ricciolino, ma lei non pianse: capì bene che lo facevano per salutarla e si senti tutta contenta. Si mise a trotterellar loro dietro, ridendo di tutte le loro smorfie e le loro parole, ma essi, dopo aver presa la loro parte di polenta e di cacio, se ne scapparono chi sa dove, come due uccellini, all’aperto. Quand’ella corse sulla porta per vedere, non c’erano giù più.
Le rimaneva per compagno di giochi Innocente, il suo fratellino di cinque anni: un magrolino nero nero, con un viso stretto e lungo che lo faceva somigliare a un lupetto. Ma non era gentile Nocente. L’aveva subito presa a calci perchè ella aveva toccato un suo frustino, poi aveva detto alla gatta: — Cièpla! — come se lei fosse un topo, e, l’aveva graffiata lui nella manina che aveva ancora tre segni rossi.
Era cattivo, molto cattivo! e Raffaella, molto sorpresa e molto addolorata, era scappata fuori con una gran voglia di piangere, ma fuori aveva trovato il bel sole allegro, l’erba tutta tempestata di margherite, i maialini rosa che si rotolavano in una pozzanghera, e tornò allegra.
Seduta sul prato in pendio, s’era a poco a poco lasciata scivolar giù, rotolando ogni tanto e aggrappandosi alle erbe. Le pareva d’aver fatto un gran viaggio, d’essere molto lontana di casa sua che un castagno le nascondeva; forse era vicina a Varallo e avrebbe rivisto la mamma di prima che le voleva tanto bene e aveva tanto pianto quand’era partita...!
Il cuore le si gonfiò: le si gonfiarono gli occhi: quella solitudine le ridestò il desiderio di quella che fino allora aveva chiamata mamma, e si mise a singhiozzar forte, col visino rivolto agli alberi, al cielo, a tutta quella natura che non le rispondeva, eppure poteva consolarla.
Una folata di vento fece dondolare i rami e chinare tutte le erbe: la piccola Raffaella cessò di piangere per guardare e ascoltare.
I suoi occhi scorgono una fragoletta al piede del castagno: ella si trascina carponi ad annaspare colle manine nell’erba ed ecco si trova infilato nell’indice un ditalino rosso: è la fragola schiacciata: si succhia il ditino e non piange più. La natura ha mandato il suo conforto.
In quel momento, voltandosi, intravvide nel prato vicino il testone biondo di Natale, e Perin si mise ad abbaiare.
Imparata la strada, ogni giorno la piccina arrivava nel prato come una gattina, per di sotto lo stecconato, sprofondandosi tutta nell’erba e rialzandosi dall’altra parte col visetto rosso per lo sforzo fatto e per la gioia di trovarsi in un mondo che le piaceva tanto.
Quando Grazia la vedeva, esclamava con una voce allegra: oh, è qui la stella! — e latte, pan fresco, frutte, quante buone cose l’aspettavano! quanto divertirsi col suo grosso compagno!
Fabbricavano le casette con pietre e assicelle: bisognava vedere che grossi sassi sapeva portare Natale! ella vi portava invece fiori ed erba a manate, per far materassi e guanciali. Progettavano di venir a dormire la notte, senza dir nulla a nessuno; ma quando arrivava la sera non ci pensavano più. Bisognava proprio ricordarsi: quando le mamme fossero uscite di camera, dopo averli messi a letto, essi sarebbero scesi pian pianino nella loro casetta.... E se fosse venuto un orso a mangiarli? Bisognava chiudersi dentro con un cancelletto, e andavano in cerca di pioli e di rami secchi. Ma quando furono ammucchiati pensarono di tenerli per il falò della notte di San Giovanni, e li nascosero in un posto dove nessuno li avrebbe visti. Ma arrivato il giorno di San Giovanni, quando sentirono che i giovani del paese andavano sulle creste del monte ad accendere i falò, essi cercarono il loro mucchietto di rami secchi e non poterono più ricordarsi dove mai lo avevano nascosto. Cercando la legna trovarono però in terra una pipa di gesso rotta e Raffaella fu tutta fiera per il suo compagno. — Cogì falai l’omo! — diceva. Ci sarebbe però voluto qualche cosa anche per Raffaella, e frugarono intorno alla stalla e al pollaio cercando, non sapevano neppur loro che cosa «calche cosa pel fal la donna» diceva Raffaella «cogì io ciono la tua molle.»
Grazia li chiamava ed essi dimenticavano allora ogni progetto o discorso per non pensare che alla scodella di pane e latte che li aspettava. Si sedevano in terra colle gambette aperte e la scodella in mezzo, e mangiavano contando i bocconi: uno, tle, nove, cette, cento; e si sbrodolavano, a gran consolazione della gatta e di Perin ch’erano lì attenti, pronti a leccare il pavimento.
Com’era forte Natale! un giorno Raffaella mise il piede nudo su un riccio di castagna che le rimase ficcato dentro, ed egli la prese su e la portò in casa. Pareva portasse un fagotto di cenci: la testina gli sbucava di sotto l’ascella, mentre il povero piedino ferito strisciava per terra.
La povera bimba dovette sentire un gran dolore, ma non disse nulla, tutta rossa e compresa d’ammirazione perchè il suo amico aveva saputo portarla.
«Com’è folte!» disse quando fu in grembo a Grazia «mi tlingeva qui (e faceva segno al collo) come una colda!»
Innocente, il fratellino di Raffaella, e altri ragazzi del paese s’erano accorti che la bambina si divertiva molto in casa di Natale e che tornava sempre con briciole di buona roba chiuse nel piccolo pugno, e cominciarono a desiderare anch’essi di penetrare nel prato.
Se la bambina era così smaniosa di andarci, era segno che Natale non dava più schiaffi e non faceva paura. Nocente seguì un giorno la sua sorellina nella rotolata giù per i prati, e penetrò dietro a lei di sotto lo stecconato nel paradiso terrestre; ma nella furia di entrar nel buco fatto da lei, picchiò il naso contro un suo piedino e se ne vendicò dandole un colpo così forte che la poverina andò colle gambe all’aria.
Grazia accorse agli strilli, ma prima che avesse tempo di comprendere che cosa fosse accaduto, Natale vide, capì e prese la rincorsa coi pugni alzati.
«È quel cattivo! va via! questa è la casa nostra!... tu non devi venire.... nessuno deve venire!...»
Nocente sgattaiolò prima che Natale gli fosse addosso.
Ma ogni giorno il suo visetto lungo e nero da lupetto compariva allo steccato per gridare qualche cattiva parola; e dietro a lui vennero altri bambini a far le boccacce, a buttar ricci di castagne: Natale non se ne curava.
Aveva l’aria di conoscere oramai il valore della sua robustezza: sapeva che gli bastava avviarsi risoluto verso di loro per vederli scappare a gambe levate.
Ora egli era un ometto in pantaloni, colla piccola giacca colle tasche finte: così grosso e rotondo pareva un imponente omo colla pancia a cui non mancasse proprio che la pipa. Peccato che a volte di dietro uscisse da una fessura un lembo di carnicino che faceva cantare in coro a quella schiera di impertinenti sfilati col mento sullo stecconato: «oh l’omino col codino! piglia, acchiappa, tira, tira!»
Uno di quei monelli, Richetto, figlio della maestra dell’asilo, per vendicarsi del terrore che gli incuteva il grosso e coraggioso Natale, e del dispetto che provava di non poter divertirsi come Raffaella, raccontava alla sua mamma un’infinità di frottole sul conto del colosso: «Figurati, si tira dentro nel prato, per i capelli, la Raffaellina dei Caprezzi, e la obbliga a portar delle grosse pietre, di un peso! la butta sui ricci di castagne, le fa mangiar le mosche, le fa metter la manina in bocca al cane...!
L’immaginazione di un ragazzo bugiardo è di una fertilità sorprendente.
La mamma di Richetto credeva e spalancava gli occhi inorridita: un giorno, anzi, si decise ad avvertir la madre della piccina perchè dicesse a Natale di smetterla.
La povera Marianna era appena tornata dall’alpe, e stava allattando il suo ultimo piccino, intanto che la figliola maggiore rimestava la polenta.
Raffaella, seduta in terra, colla testa sul gradino del focolare, dormiva.
La maestra fece il suo rapporto con tutta coscienza, ma Marianna non ne fu punto impressionata.
«Io non so niente» rispose brusca brusca. «Quello che so, è che Raffaella a cena non mangia mai perchè s’è già saziata laggiù, meglio che a casa sua: va via colla vestina rotta e quando torna gliela trovo raggiustata: poi nessuno è buono di tenerla in casa, segno che dalla Grazia sta meglio che qui.»
«È tanto piccina» osservò la maestra «che non sa raccontare.»
«Oh non creda, signora maestra, ha una linguetta che a modo suo ne sa dire delle cose!»
«Eh» insistè la maestra «quel ragazzo avrà trovato bene il modo di farle paura perchè taccia. Dio l’ha proprio fatto robusto per il tormento degli altri.»
«Dà sempre schiaffi, Natale!» proruppe in un angolo la voce acuta di Nocente.
«Tu taci! che ne dai per conto tuo un sacco a quella povera bambina, ogni volta che torna a casa!» gridò la mamma.
La maestra disse: «Basta, io ho creduto di fare il mio dovere coll’avvertirvi.»
«La ringrazio tanto, signora maestra. Io non ho il tempo di arrivar a tutto: i figlioli li devo abbandonare un poco alla grazia di Dio, per aver tempo al resto, ma quello che posso dire è che la meglio custodita e la più fortunata è quella bimba lì.... che gli altri voglion dire maltrattata. Però terrò gli occhi aperti, non dubiti! Buona notte.»
La maestra uscì scotendo il capo: «Pare impossibile!» pensò «come certe mamme non si curano dei loro figlioli!»