Il diavolo nella mia libreria/L'eredità di mia zia
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L’eredità di mia zia.
Anzi l’inventario dice:
«V° nella legnaia: Un cassone di abete, pieno di vecchia cartaccia e libri, L. 8».
Dunque i libri erano in un cassone di abete, nella legnaia, e il loro valore fu stimato in lire otto nell’inventario.
Povera zia, che la luce del Signore mai per te non si spenga; ma tutta la sua eredità valeva poco di più!
Sul cassone dei libri v’era un’olla olearia ma vuota di olio; v’era il «prete», con cui la povera zia si scaldava il letto nel tempo felice in cui era in vita la buon’anima di suo marito. Dopo credo che abbia smesso; un po’ per economia, un po’ perchè per lei così grama, bastava lo scaldino, oramai.
Oltre al «prete» vi era sul cassone enorme un mortaio di marmo, dentro il quale due affezionate galline facevano l’uovo per il caffè della povera zia, e per il fioretto col brodo.
Esisteva anche un gatto di nome Tombolino, che mi parve come il custode del cassone.
Esistevano anche, nell’orto, due peri, che facevano le grosse pere; ma la povera zia le vedeva soltanto e non poteva dire se erano buone, perchè i vicini non aspettavano che fossero mature per rubarle.
La natura era buona con la povera zia; e così il gatto e le galline: ma gli uomini, no. Ella si consolava andando in chiesa a pregare per tutti!
«Quest’autunno — mi diceva la zia con la sua piccola voce — quando verrai quassù, tu rimani un giorno o due, e vedi se fra quei libri c’è qualche cosa che vada bene per te».
«Ma te li metterò tutti in ordine, cara zia, i tuoi libri».
«No, — rispose ella, — non mi fare questa confusione. E poi dove metterli? una volta c’erano le sue scansie, ma adesso non c’è più niente».
⁂
Passarono quattro autunni: io andai bensì a trovare la zia, e lei a mezzodì, per farmi onore e festa, spiegava la tovaglia grossa di bucato e levava da un credenzino il vasetto dei suoi carciofini: trovava anche una qualche bottiglia di quelle che formavano la dolce cura autunnale di suo marito e dicea, «credo che sia l’ultima»; ma dei libri non se ne fece niente. Il quarto autunno, ordinai lei, la povera zia, in una cassa, che era anche lei di abete, ma molto più piccola di quella dei libri. La povera zia Laurina era così mingherlina!
Vi stava comodamente benchè avesse indosso l’abito da sposa: un abito di seta nera cordonata, che ella da cinquanta anni teneva in serbo per quest’ultimo rito, che i suoi occhi non videro. Veramente quando un contadino e una donna sollevarono sul letto mia zia morta per vestirla, come un fantoccio, ebbi paura.
Poi la deposero. Il volto cereo pareva alfine dormire.
⁂
La morte di questa mia povera zia non mi addolorò troppo.
Ella per la sua debole costituzione avrebbe dovuto morire già da gran tempo: ma poi quel tempo era passato ed ella aveva continuato a vivere: anzi ogni anno io domandavo: «è sempre viva la zia Laurina?» Ma quando andavo lassù da lei, nel villaggio, mi pareva di volerle bene. Non perchè ella dicesse gran cose; anzi era un po’ insipida come quei pesciolini lessi di cui parsimoniosamente si nutriva; ma perchè nel suo volto e nel suono delle sue parole io vedevo passare gli avi e la casa fiorente degli avi, dove io vissi fanciullo.
Ora, contemplando così la zia, nella bara, mi sfilarono davanti, come enormi pietre miliari, le parole della Chiesa: Battesimo, Cresima, Matrimonio, Olio Santo, la Resurrezione nella valle di Giosafat.
Ma basta, basta, Signore Iddio! Dopo questa vita, altre pratiche ancora ci attendono? Risorgere ancora? Un Cristo, con la testa penzoloni sopra il letto della povera zia, fu da me consultato in proposito. «Ma sì, basta!», mi rispose quel martire antico.
Allora per compenso della buona risposta, misi nella cassa anche lui, con tutti i santi e le reliquie che erano sparse qua e là per le pareti. C’era tanto posto che ci stava l’eredità. Ben avrei voluta mettere anche quella e staccarmi da essa e dai morti; ma non mi parve onore.
⁂
Quando aprimmo il cassone dei libri, avevo con me due contadini e parecchi sacchi.
«E adesso come si fa?» chiesero.
«Ecco, insaccate» — dissi. Ma era anche quella un’operazione triste, tanto più che frammisti ai libri e alle cartacce, trovai pure due spade, le spalline, il kepì, e una montura della guardia nazionale. Questi istrumenti degli entusiasmi del Quarantotto infradiciavano anch’essi nell’enorme cassone, insieme coi libri.
Così infradiciano le vecchie famiglie! Ma quella era un’operazione triste e mi allontanai, e andai solo per l’orto. Sentivo in ispirito la voce degli uomini nuovi che cantavano: «Brucia tutto e rinnova!».
«Ah sì, signori — io rispondeva loro, — se io potessi bruciare tutto e rinnovare tutto!».
«Poni fra te e il passato una porta di bronzo. Abolisci l’eredità».
«Magari, signori, si potesse abolire l’eredità! Ma intendiamoci: tutte le eredità! Io ho ereditato una mano assai delicata, e magari la potessi abolire per un pugno di buon contadino!»
Pensavo a quel bàlteo, a quelle spade, a quella roba della patria, e mi doleva che la bara della zia fosse già stata chiusa, perchè avrei voluto mettere tutta quella roba della patria insieme con Cristo e con le reliquie.
Camminando per l’orto m’imbattei nei due peri. C’erano già grosse pere, non rubate ancora, perchè durissime ancora. Le strappai e le scagliai lontano.
C’erano bellissimi carciofi che, nel mezzo del loro fogliame scintillante d’argento, avevano già i loro piccoli carciofi paonazzi.
Dunque i carciofi non sapevano che la zia era morta, e le maturavano i carciofi; ma lei non li avrebbe messi più sotto l’olio.
Perchè lasciarli lì? Perchè il popolo li rubi e li mangi? Ma io non amo il popolo e divelsi i carciofi.
C’erano anche bianchi giacinti (era tempo di primavera), ma la zia non li avrebbe messi davanti alle sue reliquie, e perciò li strappai.
Sono rossi di sangue i giacinti? No, ero io che mi ero punto nello strappare i carciofi.
— «Vi sfido — esclamai nel mio cuore, contro agli uomini nuovi che vogliono abolire l’eredità, — ad essere più rivoluzionari di me!»
Ma ritornando nella legnaia, vidi che i due contadini non avevano concluso quasi nulla.
«Di questo passo arriveremo a notte!»
Oh, non che essi, bravi e onesti figliuoli, forniti della più fortunata ignoranza, perdessero il tempo nel leggere i frontespizi! Ma non sapevano come fare: fra cartacce e libri era un caos! Tiravano su delicatamente, e mi parve quasi paurosamente perchè i vecchi libri, ammuffiti, si sfasciavano nelle loro mani.
Poi erano esclamazioni di stupore, perchè essi giudicavano i libri alla stregua dei poponi, delle melanzane, delle belle zucche gialle, che da noi, in terra di Romagna, è costume mettere sui tetti delle case coloniche, e stanno così bene. Più i libri erano voluminosi, e più il loro stupore cresceva; proprio come quando nel campo si additano le zucche gialle.
«Chi sa che cosa ci sarà dentro!» dicevano.
Insegnai come dovessero fare: insaccassero così come vien viene, alla rinfusa. Insaccarono.
E i sacchi furono dodici.
Dodici balle di filosofia, di morale, di teologia, di lettere, di scienze (nonchè gli emblemi della patria) debitamente legate, caricate sopra un biroccio tirato da un asinello.
Poi condussi i due contadini a far colazione all’osteria, dove mangiarono una frittata di dodici uova con tanta cipolla soffritta.
Essi erano soddisfatti del lavoro compiuto, e pieni di onesto appetito. Io no!
Dicevano, mangiando la bella frittata: «Che tanfo di roba marcia».
«Certo ha più buon odore il grano quando si insacca».
Bevvero anche: essi con volontà, io con amarezza. Io ricercavo nella mia mente in che cosa i due contadini fossero superiori a me. «Ah, ecco! Essi non pensano ai Novissimi»
Diedi ordine di portar via, oltre ai dodici sacchi dei libri, le due galline, le quali erano sperdute, perchè non trovavano più il mortaio dove deporre le uova. Ma più sperduto era Tombolino, il gatto nero: perchè non trovava più la sottana nera della povera zia, su la quale si confondeva e nel cui grembo si riposava, nella fiducia di un bene senza fine e senza alterazione. Sono delusioni che accadono oltre che ai gatti, anche agli uomini, quando si fidano troppo dei beni terreni. Ora il nero Tombolino fuggiva via con il pelo irto e miagolava stranamente. Devo supporre che i suoi occhi gialli di animale presciente abbiano visto la morte attraversare la casa, già per tanti anni tranquilla.
Le galline me le portarono via nel biroccio: il gatto no. Gli diedero un colpo di vanga, e sotterrarono anche lui e i suoi occhi.
⁂
Durai non breve tempo e fatica a ripassare tutti quei libri: essi documentavano l’evidente benessere e dignità intellettuale di due o tre generazioni. «Comperato ad uso di me, ecc., baiocchi, ecc., paoli, ecc.», dicevano le scritte sui margini. Oppure, spectat ad me dominum, ecc., oppure era tracciata qualche innocua facezia morta e rimasta lì inchiodata su la pagina gialla.
Su la pergamena di un grosso volume di teologia era scritto con inchiostro sbiadito: Spectat ad dominium Sanctae Sedis et ad simplicem usum fratris Francisci Antonij ab Arimino. Che vuol dire: «la proprietà è della Santa Sede, cioè della Comune o Stato; io, fraticello, non ne ho che il semplice uso».
È una sciocchezza, ma così bella! In fondo il buon fraticello, anche per il modesto possesso di un libro, rinnegava la proprietà individuale. Semplice uso e nulla più. Nulla dunque di nuovo nel mondo!
⁂
I libri segnavano acquisti fatti nel secolo decimosettimo, decimottavo, e andavano sino a tutto il tempo del Regno italico, e del
primo periodo della Restaurazione. Poi si vede che l’orologio della dignità intellettuale, o del benessere economico, aveva fermato le sue lancette.
L’ultima generazione era rappresentata da quel kepì di guardia nazionale e da quelle due spade della patria. Fra quei volumi di teologia e di legge, e questi ormai innocui istrumenti rivoluzionari devono essere avvenuti dissidi atroci dentro quel cassone.
Allora ricordai e come rividi il nonno, un volto da cammeo, che faceva la sua professione di fede così: Io sono cristiano, cattolico, apostolico, romano. I contadini venivano la state a portare la manna del grano, e i donativi servili. Venivano sui carri coi grandi buoi e vestivano di rigatino. Ora non portano più nulla. Ricordo un altro vecchio che diceva: Italia libera! Dov'è ella st’Italia? Sarà tanto pianto un giorno!
Ma ormai tutto era polvere e ruggine.
Ben è vero che sbattuti, riordinati, disposti nei palchetti, coi loro dorsi di cartapecora dai forti rilievi, non stavano mica male quei libri su la parete: avevano un’aria venerabile che imponeva rispetto: come uno stemma di nobiltà.
Anche la tinta dell’insieme faceva un bell’effetto: un colore snervato, lustro, come perlaceo, per effetto di tutti quei dossi di cartapecora con qualche interruzione d’oro, e qualche elegante fregio non ancora scancellato; qua e là certe zone nere: i breviari. Dio, che numero enorme dì breviari!
Certi in folio mastodontici, che non stavano nei palchetti, li ho disposti in due o tre pile come sedili: poi ho trovato due quadri di santi, cioè un frate che piangeva disperatamente con certe lacrime grosse come perle. Ecco la conseguenza di pensare ai Novissimi! E una monaca che guardava in su. Li ho collocati sopra i libri con la loro cornice d’oro stinto, e completavano la musica dei colori. Con molta sorpresa trovai un piccolo Petrarca del Cinquecento, che mi pareva, dalle sue sestine, cantare tuttavia una musica provenzale su tutti quei libri.
Io fui soddisfatto dell’opera mia. Ma quanto tempo v’impiegai!
Ogni tanto mi fermavo a leggere e curiosare. C’era un libro di conti colonici in finissima carta filogranata, dove era scritto: Mese di Termidoro, anno (quale?) della Repubblica francese. Dunque esistette la Rivoluzione francese!
C’era un atlante stampato in Germania, dove c’è appena un po’ dell’America con disegni ed emblemi: un re dei pellirosse. Si capisce che è un re, perchè è nudo con un manto e la corona. Un servo gli sostiene sul capo un parasole. Sopra volano pappagalli ed uccelli del paradiso. Pare un’America amputata. Si capisce che quando fu stampato quell’atlante, l’America era scoperta solo in parte.
C’è una tavola con l’Italia tutta storta; ma c’è scritto così: Mare adriaticum sive superum, golfo di Venetia. Oh, Italia, cara Italia! Tu eri Italia quando non eri Italia?
C’è un libro dove apro e leggo a caso questo capitolo impressionante: Di molti uomini letterati, antichi e moderni, che infelicemente morirono. C’è un grosso volume stampato in Milano, in su la fine del Seicento, e sono le Lezioni Sacre del padre Carl’Ambrogio Cattaneo della Compagnia di Gesù dedicate alla eccellentissima signora contessa Clelia Borromea. Contiene tante sentenze contro la ricchezza, contro la gola, contro il lusso! Come è descritta bene la infelicità dei capitalisti! — Thesaurizat, thesaurizat, et ignorat cui congregabit! Quelli che vogliono arricchire cadono nel laccio del diavolo! Nummus doloris et curae filius. Il danaro è figlio del dolore e dell’ansia.
C’è un paragone contro gli affaristi ed arrivisti che mi piace; e dice così: Questi faccendoni si possono paragonare a un morto in piè dalla fame, ovvero ad un tisico. Lo vedete smunto, secco, arido, con le guance incavate, il naso profilato, e con la pelle del volto così assottigliata che pare trasparente, tutto perchè la febbre e la fame gli ha mangiato l’umore nativo. Così ogni umore di pietà, di tenerezza resta mangiato da quelle gran faccende che consumano tutti gli spiriti, onde la loro anima resta estenuata e cascante. E poi conclude in latino: Non habent pinquedinem, non hanno più olio morale!
Ma perchè questo libro mi produceva delle nausee? Forse quella prosa oratoria? quello stile untuoso? Padre Ambrogio non sente niente di quello che scrive: è un fonografo! La contessa Borromea sente anche meno. La vedevo nel suo abito di broccato su di un seggiolone con la testa servita sopra una gorgiera; e padre Ambrogio, lustro lustro, sur un altro seggiolone. Poi sentivo un odore di risotto mantecato con il pingue cervelàa de Milan, del buon tempo antico.