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:: | L’eredità di mia zia | 21 |
di due o tre generazioni. «Comperato ad uso di me, ecc., baiocchi, ecc., paoli, ecc.», dicevano le scritte sui margini. Oppure, spectat ad me dominum, ecc., oppure era tracciata qualche innocua facezia morta e rimasta lì inchiodata su la pagina gialla.
Su la pergamena di un grosso volume di teologia era scritto con inchiostro sbiadito: Spectat ad dominium Sanctae Sedis et ad simplicem usum fratris Francisci Antonij ab Arimino. Che vuol dire: «la proprietà è della Santa Sede, cioè della Comune o Stato; io, fraticello, non ne ho che il semplice uso».
È una sciocchezza, ma così bella! In fondo il buon fraticello, anche per il modesto possesso di un libro, rinnegava la proprietà individuale. Semplice uso e nulla più. Nulla dunque di nuovo nel mondo!
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I libri segnavano acquisti fatti nel secolo decimosettimo, decimottavo, e andavano sino a tutto il tempo del Regno italico, e del