Il cappello del prete/Parte seconda/II
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II.
L’orgia
— O Marinella, lume di stella, candida e bella, o navicella....
«U barone», come si vede, era in vena di poetare.
Il vin del Reno, sangue di Muse, aveva riscaldata la sua fantasia. Quando un uomo siede da due ore a tavola in buona compagnia con quattro bicchieri di cristallo davanti, e due belle ragazze ai fianchi, si capisce come possa diventare un pochino poeta.
— A te, Usilli, canta Lellina.
— Grassa e piccina....
— Fior di farina....
— O barchettina....
— Stupidissime barbe! — gridava Lellina, versando un calice di buon vino di Siracusa nella schiena del marchese Carlo Emanuele Lodovico di Spiano cavaliere di Malta.
«U barone» sull’aria del Sabba classico del «Mefistofele» ripigliò il suo ritornello:
— O Maddalena, la pancia è piena, canta, sirena....
La villetta della «Favorita», posta quasi a picco sul mare, era un panierino di legno traforato in mezzo a un boschetto di lauri e di aranci.
Vico di Spiano, che da qualche tempo era in rialzo di fortuna, l’aveva acquistata per farne un regalo provvisorio a Lellina, una gattina piena di capricci e di pretensioni. Oggi convitava i buoni amici «sans façons» a un lunch di famiglia, e prometteva di fare qualche cosa di più, se «Andreina» vinceva un premio alle prossime corse.
«Andreina» era una cavalla.
Lellina era una gattina.
— Fior di farina!
— Canta Lellina.
— O barchettina.
— Candida e bella.
— O Marinella.
— La pancia è piena.
— Canta, sirena.
Usilli aveva portato un cesto di bottiglie di Sciampagna, marca garantita, cinquanta lire alla bottiglia, che egli aveva comperato da un capo scudiero del duca di Sassonia, il quale era venuto a passare l’inverno (lo scudiero non il duca) in una villa di Mergellina. Il vino era Sciampagna genuino come si serve alle tavole dei principi, e molto probabilmente lo scudiero l’aveva rubato al suo padrone.
— Vino rubato è vino già pagato.
I turaccioli scapparono dalle bocche d’argento come palle di lucide mitragliatrici, e saltarono in mare. Un’onda bionda e spumosa come i capelli di Marinella riempì le coppe, i piatti, traboccò, spruzzò i seni delle ragazze che si tuffarono gridando in quel dolce lavacro fremente, mentre «u barone», più alticcio degli altri, diceva di celebrare la santa messa.
Per quanto ei fosse venuto con tutte le buone intenzioni di non chiacchierar troppo e di custodirsi sempre cogli occhi, non poteva impedire al Reno e allo Sciampagna di dire anche le loro ragioni. Lieto ed ebbro di una falsa ilarità, guardando attraverso il bicchiere si rallegrava di non vedervi nulla, nemmeno un puntino nero.
Dall’alto terrazzo della villa l’occhio poteva scorrere su tutta la superficie del mare di sotto, che fa da ampio piatto azzurro alla tazza azzurra del firmamento. Nel gran tremolìo fosforescente delle ondine al sole palpitava l’immensa vita della natura, quella vita che «u barone» sentiva in sè, mentre stringeva Marinella nelle braccia.
Chi avrebbe pescato in quel gran mare di seicento leghe un cappelluccio di prete?
— Tu mi hai promesso cento volte di condurmi a Santafusca; ma sei un barone d’un barone, — disse Marinella.
— L’ho venduta.
— L’hai venduta al prete? — chiese Vico di Spiano.
— Quale prete?
— Quello dell’ipoteca.
— Sì l’ho venduta all’arcivescovo.
— Oh! a proposito di prete, — disse la Marinella. — Avete letto il «Piccolo» di ieri sera? L’hanno trovato il prete.
— Che prete? — domandò sbadatamente «u barone».
— Quello del cappello. Non hai letto il «Piccolo»?
— Va, passerella, io ti comprerò una villa più bella di questa, — disse il barone che intendeva a mezzo.
— Oh guarda lassù quell’uccellaccio! — gridarono le donne, segnando colla mano un punto alto del cielo.
— E un’aquila.
— È un airone.
— È una grù.
Nel punto più chiaro del cielo volgevasi un coso nero, un uccellaccio di mare. «U barone», che mal si reggeva sulle gambe, ridendo sgangheratamente disse:
— È il cappello del prete.
E rimase un istante col dito verso il cielo in atto di sfida.
Non so dire come fosse venuto sulla tavola il «Piccolo».
«U barone», che aveva già le vertigini, accese un grosso avana, spinse una poltrona sul terrazzo, vi si sdraiò, distendendo le gambe, e aprì il giornale, mentre mandava grossi buffi di fumo al Padre Eterno.
Nel bel mezzo della pagina a grossi caratteri vide stampato:
IL CAPPELLO DEL PRETE.
Lo vide bene e non mostrò meraviglia. Gli pareva un fatto così sciocco e comune, che non valeva quasi la pena di occuparsene. Lesse solo per curiosità le prime righe, e per un giramento del capo gli si mescolarono le parole in una broda nera e sanguigna.
Un resto di ragione, sopravvissuta al bagordo, cercò di richiamare l’attenzione dispersa sulle cose inchiodate dalle parole sulla carta: ma il cervello era pieno di fumo. Il vino, il pasticcio d’oca, la torta, l’aragosta che egli aveva mangiato, fecero ad un tratto come una macina da molino sulla bocca dello stomaco.
«U barone» si sentiva schiacciato in mezzo al petto, mentre la testa si squagliava, volava. Al disotto del gran fumo usciva tratto tratto la grossa scritta nera, segnata da altre righe nere in cui spiccava il nome di prete Cirillo, il cappello, il cappellaio, Santafusca, la scatola....
Non ne capiva il senso, ma un atomo di coscienza restava come infilzato su uno spillo a soffrire atrocemente di tutto quel diavolìo di geroglifici. Soffiava grossi sbuffi di fumo, ansando, sudando d’un sudor freddo che gl’imperlava la fronte divenuta pallida e fredda.
Le ragazze intanto distese sulle sedie ripetevano in un coro sguaiato la bella canzone:
— Fior di farina.
— O barchettina.
— Candida e bella.
— O Marinella.
E non poter leggere!... quale maledizione non poter capire come c’entrasse quella scatola e il cappellaio.
Dopo un grande e faticoso sforzo di mente una volta riuscì a decifrare questa frase: «La cosa è ora nelle mani del procuratore del re».
Era un sogno d’ubbriaco? Girava gli occhi verso la sala da pranzo, e riconosceva il luogo, gli amici, le donne sdraiate e seminude, che fumavano le loro sigarette. Girava gli occhi dall’altra parte e vedeva il bagliore azzurro e tremolante del mare infinito, dov’era andato a precipitare il suo segreto. Provava a scuotere il foglio bianco e nero che teneva in mano. Lo sentiva stridere, cantare, e la scritta maiuscola pareva diventata ancor più grande; così:
IL CAPPELLO DEL PRETE.
Certo era un sogno, un delirio, un incubo del vino e del pasticcio d’oca.
Non erano insomma che sensazioni.
Si voltò verso le ragazze e disse ridendo:
— Stupidissime barbe....
Sentiva nel modo stesso che egli faceva a ridere, di essere ubbriaco. Lo sentiva dal peso stesso delle sue scarpe che parevano diventate di piombo. Badasse per carità a custodirsi, a non tradirsi. Riprese la lettura.
Quello stupido foglio nominava anche lui insieme a don Antonio. Vedi il sogno? vedi la stravaganza! vedi il romanzo di Saverio Montépin!
Ecco che cosa diceva il «Piccolo»:
«Tutti i nostri lettori si ricorderanno certamente di prete Cirillo, del quale abbiamo parlato in occasione di una straordinaria vincita al lotto fatta da un cappellaio di Napoli. Abbiamo detto, in quella circostanza, che il prete aveva lasciata la città e nessuno non seppe più nulla dei fatti suoi. Già si cominciava a dubitare che gli fosse capitato una brutta avventura, ed ecco ora un fatto curioso che conferma quei brutti sospetti.
«— Che? — voi direte, — s’è trovato il suo cadavere?
«— No.
«— Si è scoperta una congiura?
«— No.
«— S’è arrestato l’assassino?
«— Nemmeno. Si è semplicemente trovato il suo cappello.
«Un cappello? ma che faccenda è questa? Pare una favola delle Mille ed una notte e non è che la verità».
Il giornale, dopo aver raccontato il fatto, riportandolo dal «Popolo Cattolico» senza citarlo, concludeva:
«Abbiamo mandato uno dei nostri reporter a Santafusca a raccogliere dei particolari, e terremo informati i nostri lettori di tutta questa bizzarra e non semplice faccenda».
A poco a poco, «u barone» aveva potuto decifrare il senso di queste parole, e in mezzo alle fiamme e al fumo della sua ubbriachezza gli apparì chiaramente il pensiero del suo pericolo. Una forza più potente della ragione e del caso si pigliava burla di lui. Sentì un fiotto di sangue montare precipitosamente alla testa seguito da un fiotto di bile che gli fece amara la bocca. Diventando ad un tratto frenetico, lacerò rabbiosamente il foglio, se lo cacciò in bocca, lo morse, urtò e ruppe i vetri della finestra e andò a rotolare, ruggendo come una bestia feroce, sotto la tavola. Ne nacque un tremendo scompiglio. Le ragazze spaventate, strillando come aquile, fuggirono di qua e di là, mentre i servi accorsi al rumore e alle chiamate, aiutavano a portar via il barone ubbriaco, duro e stecchito come un epilettico.