Il cappello del prete/Parte prima/IX
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IX.
Il prete risuscita.
Aveva ragione il barone. Passati i primi tre giorni, le sensazioni cominciavano a schiarirsi, la vita rientrava a poco a poco nelle sue abitudini e l’uomo forte e positivo si abituava a guardare in faccia al suo misfatto, come a un fatto qualunque non peggiore degli altri.
Il marchese di Spiano gli fece avere a casa l’atto d’ipoteca che il barone gettò sul fuoco insieme alle lettere del prete e ad altre carte inconcludenti. Così anche da questa parte poteva dormire tranquillamente. Bruciò anche i valori in cui fosse scritto il nome del prete, ma ne restò ancora un cassetto pieno. Oltre alle vincite fatte al club «u barone» avrebbe potuto mandare al Banco di Napoli a riscuotere quasi novantamila lire in tante cedole di Stato al portatore; non c’era pericolo che il prete fermasse i numeri delle cartelle. I morti fanno il morto, e volontieri, pare.
Al club lo accoglievano con simpatia: Marinella non gli aveva mai voluto tanto bene.
— Tu dovresti condurmi a Parigi, barone, — diceva la graziosa ninfa, circondandolo colle sue magnifiche braccia.
— Perchè no, Nelluccia? È un progetto a cui si può pensare.
Un viaggio a Parigi, un cambiamento d’aria non avrebbe fatto male a un uomo che stentava ancora un poco a ricuperare sè stesso. Egli non amava Marinella più di quanto gli poteva dar piacere: ed essa era una creatura abbastanza sciocchina per non annoiarlo con dimande inutili e con questioni metafisiche. Passò il venerdì, il sabato, la domenica, venne il lunedì e nessuno al mondo uscì fuori a chiedergli notizie del prete.
Di tanto in tanto, quando lo ripigliavano le tristezze, faceva un «bagno di filosofia», voglio dire cercava di richiamare alla mente i principii sui quali il mondo si basa come un paiolo sul treppiedi, cioè che una cosa val l’altra, che un uomo non è più che una lucertola, che tutto si riduce alla materia, e che nulla potendo essere distrutto di ciò che esiste, egli non aveva fatto che modificare l’esistenza del....
Si abituava già a sottintenderlo, modo anche questo utile per spegnerlo del tutto.
Un giorno egli leggeva il «Trattato delle cose» del celebre dottor Panterre, il terribile nichilista, e si compiaceva di trovare formulate in splendidi aforismi quelle consolazioni e quelle dimostrazioni che la sua mente vedeva soltanto in confuso.
«Una palla di cannone che viaggi colla velocità di cinquecento metri al minuto secondo — diceva un capitolo del celebre libro — lanciata dalla terra al sole impiegherebbe nove anni e mezzo per arrivarvi. E il sole è l’astro a noi più vicino. Per giungere a un’altra stella, la più vicina dopo di lui, la palla impiegherebbe più di nove milioni d’anni. E per giungere alla più lontana stella visibile? — diciottomila milioni di anni.... Provate a scrivere questi numeri spaventevoli: provatevi a pensarli! E al di là di quella stella di sedicesima grandezza il telescopio scopre mondi di nebulose, che sono forse altrettanti universi di stelle. Ah, dolce filosofo, che cos’è la tua vita in questo spazio?
«Tutta l’umanità veduta insieme a cento miglia di altezza non è che una muffa, microscopica vegetata nei luoghi più umidi d’una crosta.
«Se il sole per un capriccio viaggiasse una sola giornata lontano da noi, questo bel globo fiorito si cangerebbe nel tempo d’un fiat in una pallottolina di ghiaccio. Chi saprebbe trovare in quel ghiaccio i tuoi eserciti, o imperatore di tutte le Russie? Qual potenza di lente occorrerebbe per rintracciare al di sotto di un blocco di ghiaccio i tuoi quaderni sulla «Ragion pura», o pretenzioso filosofo di Könisberga? In questi grandi rapporti a base di zodiaco, che cosa sono i miei debiti col mio vicino?»
«U barone», leggendo questi aforismi, sentiva la coscienza allargarsi e spianarsi nell’immensità dello spazio e del tempo. Una profonda tranquillità, somigliante al muto fatalismo orientale, sottentrava all’uggia e alle punture d’un pensiero rattrappito negli angoli della vita comune. Egli riposava superbamente e stupendamente in quello spazio di milioni e milioni di raggi terrestri, nel quale vedeva sprofondarsi il corpicciuolo magro del suo vecchio prete.
E si sarebbe addormentato ancora in questa metafisica visione, se Maddalena non avesse a un tratto picchiato due colpi secchi colle nocche nell’uscio. «U barone» trasalì.
— Eccellenza, stamattina c’è stato ancora quel prete.
— Che cosa vuole? — chiese con voce torbida il barone.
— Vuol parlare con vostra eccellenza.
— Ha detto come si chiama?
— Non ha voluto dirlo. Tornerà.
Il barone cominciava a seccarsi di quest’altro prete che gli ronzava intorno come un moscone.
Egli non conosceva nessun prete, tranne il.... suo. Chi poteva esser costui che già due volte era venuto a cercarlo a casa sua, e che non voleva dire il suo nome? Non già ch’egli temesse l’ombra di prete Cirillo, si sa «u barone» non era Macbetto. Ma prete Cirillo poteva avere degli amici, che conoscevano le sue intenzioni; e se questi amici venivano a chiedere di lui....
L’occhio, fisso e cristallizzato in questo pensiero, era andato a cadere sul foglio dell’almanacco americano attaccato a una delle imposte sulla finestra e che portava ancora il grosso numero nero
4
il giorno del famoso fatto.
Quel 4 restava come un atto d’accusa e il barone si alzò per distruggerlo, quando udì ancora la voce di Maddalena che disse:
— Eccellenza, c’è una lettera.
Ogni piccolo avvenimento era per lo sciagurato un motivo di apprensione o di paura; molt’acqua ancora bisognava che passasse, prima di poter vedere in fondo alle cose con serenità di spirito.
Perdette di vista l’almanacco e corse a prendere la lettera.
Veniva dalla posta e portava il bollo di Santafusca.
La mano tremò tanto, che la lettera scivolò dalle dita e cadde in terra. Chiuse in fretta l’uscio, raccolse la lettera, e premendo nello stomaco un’onda gonfia che tentava di soffocarlo, si lasciò andare su una poltrona, ruppe con frenesia la busta, aprì il foglio....
Non era il caso di credere che il prete gli mandasse un conto saldato; ma quanti pensieri gli si affollarono in quel minuto secondo nel cervello! Tutti confluirono in quella dimanda: Che lo avessero già scoperto?
La lettera era firmata «Jervolino, segretario».
Era insomma il segretario di Santafusca che, con uno stile pieno di un burocratico rispetto, gli annunciava la morte del fedel servo Salvatore, avvenuta per un colpo apoplettico sulla via, e riferiva come e qualmente il sottoscritto avesse chiuso il cancello della villa e ritirata l’unica chiave, che conservavasi nella sala del Consiglio comunale in attesa di quelle ulteriori disposizioni che sua eccellenza illustrissima si fosse degnato di dare.
Del prete nulla.
Anzi, il tono della lettera non poteva essere più rassicurante.
— Va bene! — esclamò «u barone» con una cadenza da baritono che prova la voce, e sentì lo spirito andare a posto. — Povero Salvatore! — soggiunse abbassando la testa e portando una mano agli occhi.
Il suo compianto era sincero, perchè l’animo suo non era chiuso a tutte le memorie della giovinezza, quando, con Salvatore, soleva andare a caccia sui monti.
Il povero vecchio aveva voluto morire su una strada.... come se avesse sdegnato di chiudere gli occhi in una casa maledetta.
Questa era poesia forse, o retorica rimasta nelle infossature della vita; ma egli non poteva sottrarsi a queste considerazioni. Si consolò in fondo che la faccenda non poteva andar meglio. Morto anche Salvatore e chiusa la villa, senza che uscisse sospetto alcuno, il prete non poteva esser meglio seppellito.
Egli avrebbe scritto che gli mandassero la chiave, e amen! il luogo rimaneva perfettamente disabitato e chiuso agli occhi dei curiosi.
Lo riprese un nuovo vigore. Tutto funzionava come un perfetto orologio e tutto dimostrava come a questo mondo il caso è più forte ancora di ogni previsione.
Per goder una bella giornata con Marinella, a cui aveva promesso di pranzare insieme, andò a farsi bello nella bottega del Granella, parrucchiere e profumiere premiato più volte, che aveva per il barone un rispetto proporzionato al numero dei profumi che regalava a Marinella.
Lo spinse ad entrare in bottega anche il desiderio di far cantare il Granella, che — degno figlio di Figaro — era il gazzettino parlante della città. Voleva, con questo mezzo, interrogare la voce pubblica.
— Ebbene, quali novità, Granella? — dimandò, quando fu seduto ed avvolto nelle candide salviette come un antico sacerdote.
— Molte e belle. Il ministero è caduto: Bismarck ha ricevuto l’ambasciatore di Russia, e pare che la guerra coi Turchi sia inevitabile. È morto il mio padrone di casa, e Filippino Mantica ha vinto mezzo milione al lotto.
— Chi è questo Filippino? — chiese «u barone» che stava a sentire col cuore sospeso. Ma vide che il suo prete era ben morto.
— Chi è? oggi è l’uomo più felice del mondo. Sabato mattina era il più miserabile cappellaio di Napoli.
— E ha vinto, dici....
— C’è vincere e vincere. Questo è spiantare il regio lotto. E dire che se io avessi mezzo milione, per San Gennaro, non farei il barbiere.
— Prova.
— Eh, se scrivo tre numeri, il diavolo me li mangia.
«U barone» rise. Era la prima volta che rideva di gusto dopo molto tempo. E del suo prete nulla. Napoli non si era dunque accorta di nulla, come se fosse scomparsa una mosca.
— Ma il più bello, eccellenza, è ciò che si dice di questo cappellaio.
— Che cosa si dice?
— Si dice — e io ripeto la cosa senza insaponarla — che il cappellaio ha una moglie bella e giovane, la quale avrebbe ricevuto i tre numeri, indovini da chi....
— Da chi?
— Indovini.
— Come si fa? da un amante?
— Da un prete.
— Uh....
— Già, un cabalista, un negromante, che abita laggiù nella Sezione di Mercato, il quale sa l’algebra e regala di questi terni alle belle donnine.
— E questo!..
— Veda c’è tutta la storia sul «Piccolo» di ieri. Ne parla tutta Napoli. Dov’è? eccolo qui, legga, si divertirà.... Preferisce cosmetico o brillantina, eccellenza?
«U barone» prese il foglio, lo aprì, e proprio in prima pagina vide scritto in testa a un articolo queste precise parole in carattere maiuscolo:
PRETE CIRILLO.