Il bel paese (1876)/Serata XXIX. - La Valle del Bove

Serata XXIX. - La Valle del Bove

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Serata XXIX. - La Valle del Bove
Serata XXVIII. - L'Etna

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SERATA XXIX


La valle del Bove.

L’Etna non ha nevi perpetue, 1. — Un ghiacciajo sotto le lave, 2. — Eruzione del 1852, 3. — La lava di Zafferana, 4. — L’interno della valle del Bove, 5. — Quale ne è l’origine, 6. — Il Papandayang di Giava, 7. — Da Zafferana a Giarre, 8. — Il linguaggio della natura, 9.


1. «Se l’avesse incontrata», sentii che diceva la Marietta nel l’atto che io metteva piede nella sala «se l’avesse incontrata, ce l’avrebbe detto certamente».

«Di che cosa parli, Marietta?».

«Parlavamo della neve, e Giovannino diceva che alla Casa degl’Inglesi la ci doveva già essere, essendo quella casa così presso alla cima».

«Non capisco perchè ci dovesse esser la neve in quella stagione», risposi io.

«Ma l’Etna», saltò su a dire Giovannino, «è montagna coperta di nevi perpetue....».

«Quanto a te hai ragione, poichè quello che asserisci si legge di fatti nei trattati di geografia. Chi ha torto sono i geografi che scrissero e insegnano così. Quello che posso assicurar io è questo, che sull’Etna non c’erano nevi quando io fui a Catania e se non c’erano nevi allora, non vi possono essere nevi perpetue. Ti dirò anzi che, trovandomi in cotesta città, come vi dissi verso la fine d’agosto, in seguito ad una giornata di cattivo tempo, vidi la mattina coperto di neve il sommo cocuzzolo della montagna: ma il dì seguente la neve era sparita. Io credo che l’errore dei geografi sia venuto da questo, che sull’Etna si trova della neve in ogni stagione. Anzi l’Etna nella stagione estiva è [p. 468 modifica]una gran conserva di neve per tutta la Sicilia, per Malta e per una parte del continente. Nessuno ignora in fatti che in Sicilia e a Napoli si fa un consumo enorme di sorbetti, molto a miglior mercato che da noi. Quanto alla Sicilia so di certo che la neve dell’Etna provvede alla loro fabbricazione. Ma quella è neve che si raccoglie in certi luoghi ombrosi e depressi, per effetto, ritengo, di valanghe invernali, e la sua conservazione durante l’estate è, più che altro, artificiale. Gli interessati in questo ramo attivissimo di commercio locale hanno ben appreso a proteggerla dai raggi del sole, coprendola di sabbia, di paglia, insomma di sostanze coibenti. Il concetto delle nevi eterne include ben altra cosa. Noi diciamo coperte di nevi eterne quelle montagne sulle quali, nel luogo stesso dove cade, la neve non può essere interamente disciolta dal caldo estivo. I residui, d’anno in anno accumulati, fabbricano a quelle montagne il mantello di nevi che noi diciamo perpetue, e che si ingrosserebbe senza misura, qualora esse da sè, non si scaricassero colando verso il basso convertite in ghiacciajo. Se vi fossero nevi eterne sull’Etna, vi sarebbero anche ghiacciai e in commercio si vedrebbe del ghiaccio, non della neve schietta, appena un po’ granulosa, come è quella che io vidi usarsi da per tutto. Mi ricordo del resto che il prof. Aradas di Catania, nel discorso che tenne allora come presidente al Congresso dei naturalisti, chiamò quasi eterne le nevi dell’Etna. Dirò di più: le nevi dell’Etna, anche conservate artificialmente sono così lungi dal meritare l’epiteto di eterne, che in certi anni vengono anch’esse a mancare.

2. » Mi ricordo in proposito di un fatto curioso e istruttivo narrato dal Lyell. Nel 1828 l’estate fu si calda in Sicilia, che tutte le conserve di neve erano esaurite. In quel clima subtropicale la neve è una materia non di lusso ma di vera necessità, e non v’ha cosa che i Siciliani avrebbero lasciato intentata per procurarsene. Il signor Gemellaro ricordossi allora di una piccola massa di ghiaccio ch’egli aveva visto spuntare dalle lave, a piè del cono più elevato. Fatte le debite indagini, potè assicurarsi che esisteva in quel luogo uno strato di ghiaccio il quale s’insinuava sotto le lave per parecchie centinaja di metri».

«Come è possibile?» sclamarono i miei uditori. «Una massa di ghiaccio sotto la lava....!!»

«Appunto. Le lave avevano conservato quel ghiaccio che altrimenti, esposto al calore del sole, si sarebbe sciupato».

«Questa mo’ non ce la pigliamo», volle dire, crollando il capo, [p. 469 modifica]il Battista. «Se il sole poteva struggere quel ghiaccio, esso doveva, sotto la lava infocata, convertirsi in acqua immediatamente, anzi sciogliersi in vapore».

«Niente affatto: bisognerebbe aver studiato un pochino la fisica. Supponete il caso che in un certo qual anno fosse caduta una bella nevata. Supponete ancor meglio il caso che una bella massa di neve si fosse accumulata in una di quelle depressioni ove si adunano le valanghe invernali. Anche nelle nostre Prealpi avviene talora che la neve si conservi da un anno all’altro, nè è raro il caso che le valanghe vi formino in fondo alle valli masse di nevi, come piccoli ghiacciai. Viene la lava. Essa è rovente: ma in breve la corrente si raffredda alla superficie tanto superiormente come inferiormente, e la si vede svolgersi ben presto quasi entro un sacco di scorie. Quelle scorie sono molto coibenti, difendono cioè dal calore talmente, che io stesso ho potuto camminare sopra una corrente di lava del Vesuvio ancora in movimento. La corrente di lava che venne a distendersi sopra quella massa di neve, già per questa ragione era impotente a scioglierla. Se non vi basta, pensate, come la pensò il Lyell, che le sabbie vulcaniche avessero già coperto quella neve d’uno strato molto coibente, prima che vi giungesse la lava. È quello che fanno i pastori dell’Etna, i quali ricoprono appunto di sabbia vulcanica la neve, unica ripresa che presenti quella montagna per abbeverare il gregge e il pastore. Intenderete ora come la corrente di lava non abbia potuto nuocere alla neve, difesa com’era dal suo contatto della sabbia. Essa poi trasformossi in ghiaccio, come in ghiaccio si trasforma la neve dell’Alpi».

«Quel ghiaccio però», oppose il Battista «doveva struggersi in seguito, mentre il clima dell’Etna non è tale, come hai detto, da assicurarne la conservazione».

«Nemmeno questo. Se quel ghiaccio si fosse trovato alla superficie, allora sì: ma, difeso dall’azione immediata dei raggi solari, potè benissimo conservarsi. Ho detto che le nevi non possono reggere sull’Etna: ma sopra una montagna così alta, prossima al limite delle nevi perpetue, non è possibile che il sole estivo riesca a far sentire la sua azione alla profondità di qualche piede. Gli è come in Siberia. Durante l’estate anche in quei posti si semina e si miete: ma se tu scavi uno o due metri sotto il suolo verdeggiante, incontri il ghiaccio. A Iokoutsk, per scavare un pozzo fino alla profondità di 117 metri si dovette traforare uno strato di ghiaccio sotterraneo della grossezza di 109 metri; il che vuol [p. 470 modifica]dire che il ghiaccio incontrossi per lo meno alla profondità di 8 metri, e sì che in Siberia il sole rimane sull’orizzonte per qualche mese di continuo. Ad ogni modo il fatto che vi ho narrato è un fatto positivo e basta a persuadervene che sia attestato da Gemellaro e da Lyell. Ora veniamo a noi, avendovi promesso di ultimare alla meglio la descrizione dell’Etna, col narrarvi la gita che io feci co’ miei compagni nella valle del Bove il di seguente al nostro sgraziato ritorno a Nicolosi.

3. » Quella della valle del Bove (vattelapesca perchè la dissero così) è una gita obbligata per i visitatori dell’Etna. Infatti non può dire di aver conosciuto l’Etna chi non abbia visitato Carta del cratere dell’Etna e della valle del Bove. questa valle famosa. Mal si apporrebbe in vero chi credesse d’incontrare nella valle del Bove una delle nostre valli, qualunque ne sia la forma. Quando si è detto che la valle del Bove presenta una montagna dell’altezza di oltre a 3000 metri squartata quasi da cima a fondo, s’è detto tutto. Ma ancora non bisogna credere che la valle del Bove si presenti come una delle gole alpine, come la Via Mala, p. es.; poichè essa è enormemente larga e ha la forma come di un gran circo quasi semielittico. Ma in fine, ripeto, bisogna vederla per formarsene un’idea, e vi assicuro che poche cose al mondo lasciano una così profonda impressione. Intanto, finchè non venga la vostra volta d’andarla a vedere, mi proverò a descriverla come meglio mi torni». [p. 471 modifica]

«Levatici di buon mattino a Nicolosi il 31 del mese d’agosto, trovammo pronte le guide e quattro muli soltanto, noleggiati unicamente per sovvenire nel caso ai più invalidi, mentre tutti ci sentivamo in lena, desiderosi di fare a piedi una corsa così interessante. Da Nicolosi bisogna recarsi a Zafferana, dove si apre verso est la valle del Bove. La via corre fra i vigneti e gli olivi, sempre a vista di mare. Senz’altri particolari eccoci a quella grossa borgata, ch’ebbe a sottostare nel 1852 a così tremenda minaccia, salva, si può dire, miracolosamente dopo parecchi mesi di angosce mortali. La notte del 20 agosto 1852 infatti un forte terremoto scosse la regione centrale dell’Etna. Il sommo cratere era in eruzione, buttando in aria, come al solito, lapilli e scorie. D’un tratto la montagna si spacca, e molte squarciature si manifestano nella direzione della valle del Bove, finchè in fondo ad essa si determinarono due punti principali di eruzione e crebbero due coni. Il principale, chiamato poi monte Centenaro, slanciava il 21 agosto, e per 16 giorni di seguito, sabbie, scorie, lapilli senza interruzione, crescendo fino all’altezza di oltre 160 metri. Fin dal 21 suddetto, un’enorme corrente di lava era venuta alla luce in quel punto, e in 8 ore aveva percorso 4 chilometri di strada, dividendosi in più rami. Uno di essi si dirigeva furiosamente sopra Zafferana. Figuratevi quale angoscia per gli abitanti, che vedevano il loro paese da un istante all’altro ingojato! Ma la lava, giunta alle porte, arrestossi, ed è meraviglioso il vederla là ancora, colla fronte ritta a guisa di un mucchio enorme di rupi che minacci da un istante all’altro di precipitare al basso, tutto travolgendo nella sua rovina, Narra il prof. Giuseppe Gemellaro, d’essere asceso con due compagni sopra una cima, dalla quale dominava quella spaventosa eruzione. Il suolo traballava così, che lui e i due socî ebbero a provare gli effetti del mal di mare. Veduta da quella sommità, che si chiama monte Finocchio, la valle del Bove gli sembrava conversa in un mare di fuoco. L’eruzione, dopo esser durata fino al 4 settembre, quando sembrava acquietarsi, riprese un nuovo vigore, e una nuova corrente si riversò sull’antica. Nell’ottobre quella corrente aveva guadagnato una certa apertura laterale tra due monti detti il monte Calanno e il monte Zoccolano, per cui si discende in una specie di valle di fianco alla valle del Bove, che è detta valle di Calanna. Ma tra quell’apertura e il fondo della suddetta valle vi è un gran salto, dell’altezza di circa 130 metri. La corrente infocata vi si buttò giù in forma di una grande cascata di fuoco, [p. 472 modifica]alta 130 metri, come dissi, e larga 60 all’incirca. È la celebre cascata di lava del così detto Salto della Giumenta. Fa meraviglia e spavento a vederla anche al presente, come io la vidi, sotto forma di una cascata di lava consolidata e nera. Quale indescrivibile spettacolo doveva presentare allora quella specie di Niagara di fuoco, che scendeva, spaventosamente rumoreggiando, come avrebbe fatto un fiume di cocci, di vetri rotti, di pezzi di metalli sonori! L’eruzione non cessò che nel maggio del 1853, dopo aver durato 9 mesi e prodotto diverse nuove correnti, che accrebbero la grossezza delle precedenti. Quella corrente di lava, composta di varie correnti sovrapposte, è là ancora tutta nuda e nera, che ricopre il fondo della valle del Bove, sopra una lunghezza di 6 miglia e una larghezza di 2 miglia, con una grossezza talvolta di quasi 50 metri. La si direbbe un lago di ferro fuso, gelato mentre il vento ne sollevava le onde in forma di creste acute.

4. » Misurate soltanto dallo spettacolo di quest’eruzione quello che deve presentare la valle del Bove, che fu teatro di tante, cominciando da quella mostruosissima a cui deve la sua esistenza. Appena nell’entrarvi c’è un qualche cosa che agghiaccia. Come è feroce il contrasto fra quelle lave, fra quelle rupi, fra quell’abisso così nudo e tetro, e i vigneti, gli ulivi, e tutto l’incantevole paesaggio che si lascia alle spalle! Prima cosa che ci colpì, quasi sull’ingresso della valle, fu per l’appunto la fronte di quel ramo della corrente di lava, che per poco non inghiotti la florida borgata di Zafferana. Il terreno coltivato si spinge fin là sulla linea dove la corrente arrestossi. I flessuosi tralci della vite si abbracciano alle prime scorie ed alle prime punte di cui è irta quella massa enorme di lava. Quell’abbraccio è il simbolo del perdono delle offese. Partendo di là comincia il deserto; comincia quel mare di lava, il quale, come già dissi, si piglierebbe a vederlo, proprio per un mare di ferraccio fuso e consolidato mentre scorreva giù tutto onde e cavalloni. La via che noi dovevamo percorrere passa da prima sul fianco destro di quella corrente, anzi entro una specie di valle scavata nella lava stessa. Mi ricordo d’avervi detto qualche cosa, parlando del Vesuvio, di quelle gallerie che si formano quando le correnti di lava, raffreddandosi alla superficie, fabbricano a sè stesse una specie di tunnel, che rimane poi vuoto quando l’efflusso della lava diminuisce o cessa interamente1. Quella specie di valle che vi diceva [p. 473 modifica]scavata entro la lava altro non era che una galleria sfondata, forse 2 chilometri lunga e larga 60 metri all’incirca. La volta della galleria essendo caduta, aveva ingombrato di massi il suolo di essa, sul quale noi camminavamo, mentre le pareti della galleria stessa si elevavano da 20 a 30 metri sui nostri fianchi.

5. » Ormai l’unica via per continuare l’ascesa è quella che le lave seguirono nel discendere: anzi sono unica via le lave stesse, ondeggianti, nodose, irte di punte, che rendono non solo malagevole, ma tormentoso il camminare. Intanto la valle del Bove si va designando quale è veramente. Eccoci dentro. L’orizzonte ci si chiude tutto d’attorno; ci si serra, direi quasi alla vita. Ma che orizzonte? Siamo entro un recinto di rupi grandioso e severo, quasi entro un tino, che non ci lascia vedere altro cielo che quello che si vede, serrando la nuca contro l’osso del collo. Solo alle spalle scorgesi ancora, o piuttosto s’intravvede, pel rotto del recinto, la china verdeggiante che discende al mare. Vi ho già detto che la valle del Bove presenta ben altro aspetto da quello delle nostre valli alpine. In seno alle Alpi ed alle Prealpi non mancano gole orride e maestose; ma propriamente queste gole non sono le valli, ma parti di esse: poi, in genere, se le montagne sono ignude alla cima, hanno i fianchi sparsi di boschi ombrosi e di prati fioriti; almeno il fondo delle nostre vallate è tutto un desio di cespugli, di macchie, di prati, di casupole, di paeselli. Vi scorre un torrente che mugge o mormora, talora biancheggiante di spuma, talora quieto e trasparente, a cui si uniscono per via torrentelli minori, e rivoli serpeggianti che disegnano sui pendii delle striscie d’argento e vi mantengono perenne verzura; il grido del mandriano, il corno del pastore, il canto delle montanine si uniscono al canto degli uccelli e al muggito della giovenca; e la sera, quando tutto a poco a poco rientra nel silenzio, ancora non mancherà la

.................. squilla di lontano
Che paja ’l giorno pianger che si more2.

Nelle Alpi si respira, si sorride, si sente rinascere la vita. La valle del Bove non è così: essa non è che un abisso di squallore, di silenzio, di desolazione e di morte, Lasciarsi alle spalle i vigneti e gli oliveti di Zafferana per addentrarsi in questa squarciatura delle viscere terrestri, gli è come passare dai campi Elisi all’inferno. [p. 474 modifica]La parte superiore, quella che veramente si chiama valle del Bove, è un anfiteatro che può avere da 12 a 15 miglia di circonferenza, chiuso all’ingiro, salvo verso il mare, da pareti a picco di 600 a 900 metri di altezza. Avete forza d’imaginazione sufficiente per porvi sotto gli occhi un abisso così smisurato, tutto arido, tutto morto? Qualche sprazzo di erbe o di boscaglia, che si vede quà e là, non fa che rendere, per effetto di contrasto, più selvaggie, più duro il complesso. Il silenzio di quella valle vi colpisce, è, diremo, palpabile di giorno come di notte. Quella valle immensa non conosce un torrente, non vede un ruscello. Abitatori nessuno, se ne eccettui qualche pastore errante, o piuttosto smarrito in quel deserto, che nella caldissima estate non trova per abbeverare sè ed il gregge che qualche po’ di neve raccolta nella cavità della montagna.

» Avevamo camminato più ore, quasi tutti sempre a piedi, su e giù per dirupi, e cominciammo a sentire gli stimoli della fame. Come l’Arabo nel deserto, cercammo anche noi un’oasi per sederci al riparo dei raggi del sole: e la trovammo infatti in un piccolo piano, incavato entro una sinuosità laterale, coperto di erbe e di arbusti, quasi al piede del Salto della Giumenta. Mangiando e bevendo i resti abbondanti delle provvigioni del giorno precedente potevamo a nostro agio contemplare la valle, fermando sopra tutto lo sguardo su quella enorme cascata di lava, che si direbbe tuttora in movimento, se il colore non ci dicesse che si tratta di lava raffreddata, per dir così, in aria, e concreta da molti anni. Finita la colazione, superiamo lo stesso Salto della Giumenta, salendo di fianco alla nera cascata e ci troviamo veramente nel cuore della valle del Bove. È qui che avrei dovuto aspettare per dirvi che il fondo di quell’abisso è propriamente un mare di lava, chiuso fra muraglie a picco di rupi selvagge. Del resto più di quanto v’ho detto non saprei. Gli accessori hanno già esaurito tutte le imagini, tutte le similitudini che si potrebbero adoperare per descrivere il principale. Se c’è qualche cosa nelle Alpi che possa paragonarsi alla parte superiore della valle del Bove, bisogna cercarlo in alcuno di questi vasti circhi, che si allargano in seno alle montagne, al limite inferiore delle nevi perpetue, cinti all’ingiro da rupi nevose; e occupati nel fondo da qualche enorme nevajo, e talvolta da un mare di ghiaccio; da cui si spicca, giù scendendo per la vallea, quel fiume cristallizzato che si chiama ghiacciajo. È certo che questo avvicinamento si farebbe spontaneo nella fantasia di qualunque alpinista che si portasse [p. 475 modifica]a visitare la valle del Bove. Il circo alpino e il circo dell’Etna si assomigliano fra loro come bàratri, scavati in seno alla montagna, recinti da pareti a picco, bizzarramente accidentati da burroni, vallette, spalti, aguglie e pianerottoli, sormontati da creste dentate, con un picco alto ed acuto che tutte le domina. Il fondo dell’uno e dell’altro circo è occupato da qualche cosa che si può paragonare ad un mare solidificato nel momento della tempesta. Uguali le onde, talora morbide, talora acute e dentate; uguali i crepacci; uguale quella solida corrente in cui si prolunga a valle il solido mare che il circo riempie; una perfetta somiglianza nella forma e nella disposizione fin delle morene, cioè in quelle lunghe file di massi, che corrono lateralmente alla corrente, sia poi di ghiaccio, o sia di lava, e si accumulano sulla sua fonte. Lo stesso squallore, lo stesso silenzio, lo stesso abbandono di chi si sente come perduto in mezzo a quelle spaventose solitudini. Così gli estremi si toccano: così il monte Bianco e l’Etna si trovano d’accordo nel produrre sull’animo dell’osservatore le stesse impressioni profonde, solenni, grandiose e terribili. Al tempo stesso però si può egli imaginare due opposti più decisi? Paragonate pure il circo glaciale a quello della valle del Bove, purchè alle candide nevi, sparse come polvere di diamanti sulle cime e sui fianchi delle circostanti montagne, si sostituiscano delle ceneri nere come polvere di carbone, e quel mare di ondeggiante cristallo, limpido e trasparente come il vetro più terso, colle più vaghe sfumature di smeraldo e zaffiro, divenga un mare di ferraccio opaco e tutto bigio e nero; purchè insomma tutto quel candido bagliore prenda la tinta del bujo più cupo. Nella lotta degli elementi poi quanto diversa nell’uno e nell’altro circo si presenta la scena! Là oscillano le vette, dove la neve si estolle in aeree colonne di limatura d’argento, urla il vento, scoppia l’uragano, precipita la valanga: qui la montagna fuma e fiammeggia, e dagli squarciati fianchi sgorga un torrente di fuoco che da ogni parte dilata gli incendi. Certe scene del resto si contemplano, non si descrivono; certe impressioni si ricevono, si conservano vive vive nella fantasia; ma non si possono trasfondere. Non mi ci provo nemmeno. Vi dirò piuttosto qualche cosa, come vi ho promesso, circa l’origine della valle del Bove.

6. » I geologi sono rimasti a bocca aperta davanti a quella grandiosa vallata; e quando hanno voluto rendersi ragione del come il fianco dell’Etna fosse rimasto così profondamente squarciato, preferirono di ricorrere all’imaginazione, anzi che [p. 476 modifica]consultare la natura. Il Lyell imaginò che sul fianco dell’Etna fosse avvenuto uno sprofondamento. Spiegarlo poi, o almeno cercare qualche prova della realtà del fatto che si asseriva, era un altro par di maniche. Chi osserva invece, trova che la valle del Bove, non solo si può spiegare facilmente come conseguenza dei fenomeni vulcanici più ordinarî, ma che non è nemmeno una specialità dell’Etna. Come vi sono molti vulcani che hanno un monte Somma, cioè un recinto, così vi sono molti vulcani che hanno una valle del Bove, cioè un barranco. È questo il nome che la scienza adopera ora per indicare appunto le squarciature laterali e profonde dei coni vulcanici che si assomigliano alla valle del Bove e ne hanno la stessa origine. L’isola di Palma nelle Canarie è un vulcano e si rassomiglia moltissimo all’Etna, come quello che ha il fianco squarciato lateralmente da una valle profondissima che appunto là si chiama barranco. La differenza fra i due vulcani è questa, che il barranco dell’isola di Palma va a finire al centro del cono in un immenso cratere, chiamato caldera, che attualmente è spento, mentre la valle del Bove termina al piede del cono centrale che si alza, come abbiam veduto, dal seno dell’antico cratere dell’Etna. Or bene, levate all’Etna il Mongibello e resterà al suo posto l’antico cratere, cioè una caldera, che si continuerà col barranco ossia colla valle del Bove. L’Etna in questo caso sarà precisamente come l’isola di Palma. Mettete invece che il cratere dell’isola di Palma diventi attivo, sicchè nasca e cresca entro la caldera un Mongibello; e allora l’isola di Palma sarà diventata un’Etna. Il barranco dell’isola di Palma e la valle del Bove non sono insomma che il prodotto della squarciatura laterale e dello sventramento del rispettivo cono in un grande parossismo d’epoca ignota: ma l’isola di Palma rimase inerte dopo il parossismo, ed è rimasta quindi aperta tutta la squarciatura dal centro alla periferia. L’Etna invece continuò attivissima dopo il parossismo, e non rimase che la parte laterale della squarciatura, mentre la parte centrale fu occupata dal nuovo cono, che formò il Mongibello, ossia il vertice attuale dell’Etna».

7. «Ma si osservarono di fatti», domandò la Giannina, «codesti squarciamenti e sventramenti laterali delle montagne vulcaniche?».

«La storia dei vulcani è una storia di qualche secolo appena. Prima chi ci pensava a registrare, e sopratutto a precisare certi avvenimenti? Non possiamo pretendere perciò di trovare esempi [p. 477 modifica]storici che vadano sempre e perfettamente a misura dei fatti geologici di cui vogliamo renderci ragione. Tuttavia è vero si o no che i coni vulcanici si squarciano spesso lateralmente durante le eruzioni? Non vi ha forse eruzione storica dell’Etna che non sia dipesa da uno di questi squarciamenti. Il Vesuvio poi.... Quante volte anche in questi anni l’abbiam visto squartato da cima a fondo? Queste squarciature non sono altro in fine che il barranco dell’isola di Palma o la valle del Bove a piccola scala. Supponete una grande eruzione e avrete anche la spaccatura laterale e lo sventramento in grande: avrete insomma Carta del cratere e del barranco del Papandayang nell’isola di Giava. un barranco od una valle del Bove davvero. Del resto, c’è un vulcano che ha presentato questa brutta scena ai nostri giorni. Questo vulcano, se siete buoni di pronunciarlo, è il Papandayang dell’isola di Giava, descritto e figurato da un brav’uomo, che ha anch’esso un nome cattivo a pronunciarsi. Secondo il signor Junghuhn, prima del 1772 il Papandayang era una bella montagna, coperta di ricca vegetazione, e tutta seminata di villaggi. Un bel giorno, precisamente l’11 agosto 1772, quel vulcano ruppe il lungo sonno. È sempre terribile il ridestarsi dei vulcani, dopo che han dormito dei secoli. Il Papandayang aveva buttato in aria [p. 478 modifica]il suo verde cocuzzolo, e quando acquietossi, quaranta villaggi erano scomparsi, e 3000 vittime umane erano immolate. Il disegno del Papandayang, rilevato da Junghuhn nel suo Viaggio a Giava, mostra a tutta evidenza che la montagna fu aperta e sventrata assai largamente, non solo nel mezzo, come avviene ordinariamente, ma anche sul fianco nord-est. Attualmente per giungere al cratere si ascende precisamente per una valle incassata profondamente tra pareti verticali, come la valle del Bove. Il cratere di Papandayang è attualmente vuoto, perchè il vulcano, passata quella sfuriata, si mise a sonnecchiare in una fase pozzoliana, contento di mandar fumi vaporosi, e vapori, creando per trastullo vulcanetti di fango e fontane bollenti. Ma se il Papandayang si ridestasse, e continuasse attivo come il Vesuvio, come l’Etna; un cono centrale nascerebbe, rimanendo scoperta soltanto la parte laterale della squarciatura. Il Papandayang allora diventerebbe come l’Etna, nè più nè meno. Il Papandayang in somma racconta il passato dell’Etna, come l’Etna predice il futuro del Papandayang, nel caso che quest’ultimo si ridestasse, e creasse un nuovo cono in seno alla vecchia squarciatura.

8. » Non ho più nulla a dirvi sulla valle del Bove, dalla quale uscimmo rifacendo la strada, dopo parecchie ore di faticoso cammino. Da Zafferana, dove tornammo qualche ora dopo mezzogiorno, si voleva discendere a Giarre per passarvi la notte. Dovendo fare un’altra buona camminata dopo una camminata si lunga, si aveva ormai appena fiato di guardare a quel paesaggio così ricco e così bello, a quella serie di colti, che sono giardini, e specialmente a quei grandi vigneti che erano precisamente allora tutta una gazzarra di copiosa vendemmia. La via da Zaffe rana a Giarre passa sotto il luogo dell’ultima eruzione che avvenne nel 1865. Il 3 gennajo di detto anno, in seguito a forti scosse e rombi sotterranei, una viva luce apparve alla base del monte Frumento, il più elevato fra i coni a cratere sul fianco nord-est dell’Etna. Il monte suddetto si era da cima a fondo spaccato nel mezzo e la lava, traboccando a torrenti, disegnava una spaccatura che s’inalzava verso la cima dell’Etna per una lunghezza di 380 metri. All’estremità inferiore di essa sgorgava l’enorme corrente, sulla quale nacquero otto coni, ciascuno col rispettivo cratere, disposti su una linea di 800 metri. Avremmo desiderato di salire fino al teatro dell’eruzione: ma l’ora si faceva tarda, e le gambe vantavano diritti straordinarî al riposo. La lena con cui ci avevano prestato il loro servizio da Nicolosi [p. 479 modifica]a Giarre, passando per la valle del Bove, era un problema insolubile per le nostre guide, le quali ci avevano seguito per lo più a cavallo. A Giarre ci aspettava il conforto di trovare un albergo in pieno S. Michele. Tutto era ancora sossopra, e dovemmo aspettare assai, prima che l’oste fosse in grado di rispondere alle nostre esigenze, cioè a quelle di una fame senza esempio. Ma alla fine lieto fu il pasto, tranquillo e saporitissimo il sonno. Il di seguente ritornavamo a Catania colla ferrovia, per continuare il nostro viaggio nell’isola. Quante cose avrei ancora a narrarvi! Il tema è veramente inesauribile. Se ci mancasse del vecchio, un nuovo viaggio in Italia mi offrirebbe certamente nuovi temi di conversazione, utile e piacevole. Gran paese è il nostro! Io vi ho condotto così a balzelloni dall’Alpi all’Etna: ma se tornassimo a ripetere il viaggio le cento volte, troveremmo che l’Italia è sempre nuova; che, per ricchezza e varietà dei fenomeni fisici, ha in Europa quel primato stesso che essa tiene per i monumenti gloriosi della storia e dell’arte. Ma bisogna pure che le nostre conversazioni abbiano un fine».

9. » Continuerai un’altra volta» fu pronta a dire Giannina.

«Un’altra volta.... Quando? Ormai siamo in estate: le sere si sono di molto accorciate, e il caldo che va crescendo così rapidamente, rende preferibile alla conversazione il passeggio all’aperto. Un passeggio all’aperto può ben equivalere a qualunque anche più dotta conversazione. Poi si avvicina il tempo sempre sospirato in cui, fatti i vostri esami, chiuse le scuole, andrete a pigliar aria fuori di porta, e via! chi di quà, chi di là, come uccelli scappati di gabbia, ai prati, ai colli, alle valli, ai laghi, alle montagne, al mare. Oh! sotto la libera vôlta di un cielo azzurro, in faccia ad un sole che nasce e tramonta, al mite chiarore della luna, al tremulo bagliore delle stelle, in riva al torrente che mugge, al lago increspato dagli zefiri, al mare che rotola le sue spume sulle arene sparse di conchiglie, c’è egli bisogno di maestro che vi guidi a riflettere, a gustare, ad apprendere quanto ha in sè l’universo di grande, di bello, di sapiente, di buono? Come sarei felice se, colle conversazioni che hanno abbellito le nostre serate d’inverno e di primavera, fossi riuscito ad inspirarvi od accrescervi il sentimento della natura, quindi il gusto dell’osservazione e la brama di conoscere questo universo che ci circonda! Io andrei allora superbo di aver recato non spregevole contributo alla vostra educazione intellettuale e morale. [p. 480 modifica]

» Voi non mi comprendete: non potete comprendermi. Anch’io non compresi che assai tardi quello che ora vorrei far intendere a tutto il mondo. Io ero da piccino un grande incettatore di sassolini, un grande osservatore di formiche, di mosche, di ragni. In seguito divenni uno studioso di montagne e un raccoglitore di fossili, e cominciai a farmi un museo di conchiglie, di minerali, di petrefatti, senza quasi sapere che cosa mi facessi, ignorando che vi fossero delle scienze le quali si chiamano zoologia, mineralogia, geologia o paleontologia. A’ miei tempi, vedete, l’insegnamento della storia naturale era quasi affatto sconosciuto. Avveniva soltanto così per caso se si poteva leggere nella Miscellanea dei fanciulli, od in qualche libretto, la pesca della balena e del pesce spada, o la descrizione del camello e dell’elefante. Se mi diedi più tardi a coltivare la storia naturale, fu, lo con fesso, per semplice diletto che vi trovavo, senza dare io stesso nessuna importanza a’ miei studî. Anzi ne sentivo quasi rimorso, sembrandomi che questi studi mi rubassero il tempo per studî più serî. Questa idea mi premeva tanto più forte tutte le volte che mettevo mano ai classici antichi e moderni, e principalmente ai grandi maestri delle scienze filosofiche o religiose. Quante volte, svolgendo un volume di Antonio Rosmini, il gran luminare del secolo nostro, inebbriato da quelle sublimi speculazioni, che mi rapivano al di sopra del sensibile, campo ordinario delle mie meditazioni, e tenevano librato il mio spirito nelle sfere del puro intelligibile, andavo dicendo fra me: — Davvero ch’io ho scelto la parte peggiore. Perchè condannarmi da me stesso a strisciare in queste bassure della materia, quando potrei libero aggirarmi sulle alture luminose del mondo morale, e levarmi, come cantava il Pozzone,

Fin presso agli immoti sgabelli di Dio?3.

» Ma a poco a poco m’accorsi ch’io avevo torto; che la storia naturale occupa uno dei primi posti nell’ordine delle scienze, non soltanto per il diletto che vi si attinge, o per l’utile materiale che se ne può ricavare, ma per vantaggi d’ordine molto superiore, quale è nientemeno che il nostro perfezionamento intellettuale, morale e religioso. Perchè avrebbe Iddio creato questo universo? perchè avrebbe riempito di tante meraviglie i tempi [p. 481 modifica]e gli spazî? perchè ci avrebbe composto un corpo di sì mirabile ordito, e dotati di sensi così squisiti e moltiformi, e messi così in intimi rapporti con tutto l’universo, sicchè come l’auretta che ci accarezza il viso, sentiamo il fremito dell’etere che ci porta il raggio della più lontana stella, e vediamo coll’occhio istesso l’insetto che brulica fra l’erbe e i mondi che turbinano negli spazi infiniti? Perchè, mentre e sotto, e sopra, e d’intorno a noi si svolge il presente che ci affoga in un mare di meraviglie, quasi ciò non bastasse, starebbe scritta sulle immobili rupi tutta una storia di mondi che furono? A che pro tutto questo, se tutto non fosse ordinato da Dio al fine supremo dell’uomo, a quella felicità, ch’egli non prova che levandosi fino a Lui?

» E non aveva io letto che i cieli narrano la gloria di Dio, e tanti altri passi delle sacre scritture, che possono dirsi riassunti in quel gran detto Io sono l’alfa e l’omega, il principio e la fine, ed in quei versi di Dante:

La gloria di Colui che tutto move
     Per l’universo penetra e risplende?4.

Quante volte anche Gesù Cristo s’indirizzò alla natura sensibile, ai fenomeni più volgari, come il comportava la povertà intellettuale de’ suoi ascoltatori, per cercarvi, non già semplicemente delle similitudini, ma le testimonianze dirette, le prove più chiare, irrecusabili della sua dottrina sulla natura e sugli attributi di Dio, e sulla morale che Egli veniva insegnando! Egli chiama in testimonio la natura come altri ricorrerebbe ad una autorità incontestabile, mostrandoci come, in certo senso, la dottrina ch’Egli era sceso dal cielo ad insegnarci, era già tutta nella natura. Voleva, per esempio, dimostrarci come Dio meriti intiera la nostra confidenza, e il nostro abbandono nelle sue mani? — Guardate (diceva, facendo come una sintesi delle meraviglie dell’universo, considerate come una rivelazione della divina bontà e provvidenza), guardate gli uccelli dell’aria, che non seminano, non mietono, non empiscono i granai: e il Padre celeste li pasce. Pensate ai gigli del campo. Non lavorano, non filano; eppure Salomone, in mezzo a tutta la sua gloria, non ebbe mai una veste sì bella come essi l’hanno. — Se voleva render palese quell’amore infinito che abbraccia l’universo in un solo amplesso; additava le piogge che cadono ugualmente sui campi dei buoni e [p. 482 modifica]degli scellerati. Se parlava della necessità della sua morte per la salvezza del genere umano; tosto ricordava il frumento che deve morire in seno al campo, perchè germini la spiga e biondeggi la messe. Se predicava la necessità di tenerci a lui uniti; faceva presente il tralcio che muore quando sia reciso dalla vite. Lui era il pastore e noi le pecorelle; Lui la chioccia, noi i pulcini. La verità ch’Egli veniva insegnando era la perla ascosa, o il grano di senape destinato a crescere in un grand’albero, alla cui ombra sarebbero venuti a porsi gli uccelli del cielo; la sua parola era il seme, come le nostre passioni erano le spine che potevano soffocarne il germoglio; la grazia ch’egli prometteva era una fonte che sgorga perenne. E via di questo passo fino al cielo che è il trono di Dio, e alla terra, sgabello de’ suoi piedi.

» Ciò ripensando, lo spirito mi si andava sollevando a poco a poco; e, come per effetto di una nuova improvvisa rivelazione, trovava la ragione della nostra natura, che sarebbe altrimenti un problema, per non dire una contraddizione. Perchè mai quest’essere, che siamo noi, spirito intelligente e amoroso, unito ad un corpo materiale simile a quello dei bruti? Ma non è appunto questo corpo che, condensando in se stesso tutti i moti dell’universo, ce lo rivela, ce lo fa sentire, vedere e toccare, dandoci l’unica misura possibile per noi dell’immensità, dell’eternità, di una potenza, sapienza e bontà infinita, rivelandoci insomma, nell’unico modo possibile in via naturale, Dio e i suoi attributi? Sì; la natura è l’espressione più universale e più intelligibile dell’essenza di Dio. Chiusi dal primo nascere entro una spelonca, senza luce, senza suoni, nè sole, nè luna, nè mari, nè monti, nè venti, nè piogge, nè uragani, nè tuoni, nè animali, nè piante; senza idee di distanza, di movimento, di forza, di durata e di cambiamenti; insomma senza alcuna cognizione od esperienza dell’universo, quale concetto potremmo avere di Dio, quantunque conservassimo piena l’intelligenza per impiegare la vita ad udirne parlare? E se così potente rivelatrice è la natura in quanto è semplicemente percettibile anche all’occhio del selvaggio; che diverrà quando le si accosti il lume della scienza? A questo lume novello, che può dirsi acceso da pochi anni soltanto, l’universo si allarga e si sprofonda in tutti i sensi, e già appare estremamente limitato e angusto, ciò che prima sembrava infinito. A poco a poco noi ci andiamo accorgendo che, mentre credevamo d’aver letto il libro, non avevam guardato che il frontispizio; e l’ideale di Dio infinito si accresce nella mente con un cumulo d’infiniti. [p. 483 modifica]

» Così ripensando, mi sentiva diventare migliore; più umile nella coscienza del mio nulla, più docile nella contemplazione dell’ordine a cui è soggetta ogni creatura, più confidente nella cognizione della divina bontà, più amante degli uomini nel riflesso del posto che occupano nella gerarchia del creato e dei loro eterni destini. E via, di speculazione in speculazione, mi pareva che l’unità di Dio fosse espressa nel coordinamento perfetto di tutti gli esseri creati nel tempo e nello spazio, e di tutte le forze che li movono in un armoniosissimo tutto, e che gli attributi delle Persone suonassero chiari in quella triplice nota di potenza, di sapienza d’amore, che è la favella dell’universo: mi pareva insomma che al mondo non ci fosse più bisogno d’altro libro, che del libro della natura. Oh! lo studio della natura!.. Potessi innamorarvene!».

«Tu ce ne hai innamorati»: sclamò la Giannina.

«Fosse vero!» risposi. «Ma addio! A ben rivederci tutti ancora a S. Martino!»

FINE.


Note

  1. Vedi la Serata XXVII a pag. 147.
  2. Dante, Purg., VIII.
  3. Nell’ode La fantasia.
  4. Parad., C. I.