Il bel paese (1876)/Serata XVIII. - Le fontane ardenti
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SERATA XVIII
Le fontane ardenti.
Tra Modena e Pistoja, 1. — I fuochi di Barigazzo, 2. — Una notte sull’Apennino, 3. — Culto del dio magnano, 4. — Proposta di un nuovo combustibile in Italia, 5. — L’antica Velleja, 6. — I fuochi di Velleja e la chimera di Licia, 7. — Il Vulcanello della Porretta, 8. — Sintesi rappresentata dalle sorgenti termo-minerali, 9.
1. «La nuova gita che vogliamo fare insieme, partendo ancora da Modena, è assai più lunga della precedente; ma, per farla corta, la faremo di volo. Ci ricondurremo fino a Maranello; ma quì, in luogo di volgerci a destra, verso le Salse di Nirano, toccheremo via difilati verso tramontana, seguendo la dilettevolissima strada che si svolge tra i vigneti, i campi aprichi, i folti boschi e gli ameni casali, sulla sponda occidentale della Valle del Panaro, e si spinge fino alla vetta dell’Apennino, ove discende, pel passo dell’Abetone, a Pistoja.
» Quante cose sarebbero da vedere lungo il cammino, se foste vaghi, quant’ero io, di ricercare le molte meraviglie con cui si viene manifestando, in quel breve tratto di via, l’attività interna del nostro globo! Se, per esempio, giunti a Maranello, voleste deviare un tantino a sinistra, potreste ascendere a monte Pujanello, a vedervi una bellissima salsa. Lassù la chiaman le bombe; ha anch’essa un recinto di forse 300 metri di giro, e molti conetti, alcuni inerti, ma i più provvisti di un cratere ripieno di acqua fangosa, con gusto di sale e di petrolio, da cui ribolle incessante il gas infiammabile. L’anno precedente alla mia andata, che fu nel 1864, a uno di quei coni, che trovai muto e inattivo, saltò il grillo di uscir fuori con forti detonazioni, buttando in aria le zolle all’altezza di qualche metro, e vomitando fango. Bisogna dire che le salse di Pujanello abbiano fatto mostra più volte di quel loro talento, che loro valse, come io credo, il nome di bombe. Ma di salse ne abbiamo ormai pigliata una satolla a Nirano e a Sassuolo. Mi guarderò bene adunque di parlarvi della Amaina, della Bombetta di Pisa, altre salse che stanno li presso; nè delle salse o delle acque salate, solforose, ferruginose, acidule, di Montombraro, Giulia, Gainazzo, Pavullo, Montalbano, Montecorone, Montefeltro, Renno, Lunato, Montefiorino, ecc., ecc. Vogliamo ad ogni costo essere a Barigazzo, per vedervi una buona volta i celebri fuochi».
Il mio uditorio, che cominciava a distrarsi, perchè annojato dalla ripetizione di cose già udite, a questo punto diede segni manifesti di attenzione.
2. «Barigazzo è molto in su, vedete; proprio nel cuore del l’Apennino, dove la salita comincia a farsi più erta, per guadagnarne la sommità. È un povero villaggio che sfuggirebbe alle indagini del più accurato geografo, se i suoi fuochi non lo raccomandassero alla memoria degli studiosi. Vi giunsi sul far della sera, e seguendo le indicazioni che avevo raccolte lungo la via, prima d’entrare nel villaggio piegai a destra, verso la china del monte, cercando, su per un angusto sentiero, la Casa dell’inferno. Quando aspettavo di vedermi venire incontro i diavoli protettori del luogo, non iscorsi che una misera stamberga deserta e pacifica. Ma alle nari sentii ventarmi un certo odore di arsiccio, entro il quale parvemi distinguere l’odor del petrolio. Allo svolto di quella casa eccomi d’un tratto l’inferno spalancato sotto gli occhi. Da una rupe ignuda, rossiccia e fessa in più luoghi, erompe stridendo una fiamma che da secoli e secoli chiama a sè l’attonito sguardo di chi viaggia la notte in grembo al selvaggio Apennino».
«Era molto alta quella fiamma?» domandò la Giannina.
«Ti dirò.... la mia imaginazione rimase in parte delusa. Aveva qualche cosa di molto poetico l’imaginare una fiamma perenne che arde dal seno di uno scoglio come dal becco di una ciclopica lucerna. Invece tutt’altro. Dicesi che una volta le fiamme errassero sparse su largo spazio, lambendo, come fantasmi, le rupi. Ma venne in mente a non so chi di utilizzare quel fuoco. A furia di terra, ostruendo tutti i meati all’ingiro, si costrinse il gas a concentrarsi entro una cerchia più angusta, ove guadagnasse in intensità quanto perdeva d’estensione. Intorno alla fiamma si eresse una rozza muraglia circolare, una specie di torre sciancata, che si chiamò fornace».
«Ma non è egli un bene», riflettè seriamente Giovannino, «che si sia pensato a utilizzare que’ fuochi? Ti sei lagnato tu stesso più volte che altrove, per esempio a Salsomaggiore, non siasi fatto nulla di somigliante....».
«Va bene; ma quando si facciano le cose a modo. Facendole in quella maniera si è guastato il bello della natura, senza che l’industria n’abbia cavato nessun profitto. In quella fornace si era cotta, non so per quanto tempo, un po’ di calce: ma ormai non è più che un inutile ingombro, un monumento che fa vergogna all’industria. Ciò non ostante l’impressione che mi fece quel fuoco che sgorga spontaneo dalle viscere della montagna, fu vivissima. La fiamma principale, quasi pigiata in un canto contro la parete della fornace, era larga più di un metro, e si levava guizzando, divisa in molte lingue, che sparivano e rinascevano di continuo, all’altezza di un metro e mezzo. Diverse flammelle cerulee vagolavano, svolazzavano qua e là lambendo le pareti, quasi spiritelli che sbucassero a sciami dal regno degli abissi, e si perdessero nell ’ aria. Rimasi lungo tempo a contemplare quella fiamma che ardeva senz’esca, come un fuoco miracoloso, finchè stanco e affamato, mi ridussi all’osteria del villaggio.
3. » Una notte tempestosa era succeduta a un giorno tutto festivo per la valle. La fiera della Lama aveva raccolti in quel giorno, nel paese di questo nome, che si incontra salendo a Barigazzo, gli abitatori del piano e del monte, molti dei quali erano venuti dalla Toscana, attraversando l’Apennino. Ma un turbine colse i reduci per via, sicchè in breve quella povera stamberga dove ero d’alloggio, fu assediata da quante bestie nitriscono, belano, muggono, grugniscono, e inondata di Toschi chiassosi e bollenti, e di Modenesi pacati e taciturni».
«Chi sono cotesti Toschi», domandò Giovannino.
«Nell’Apennino modenese si chiamano ancora col classico nome di Toschi i Toscani, e anche là ho potuto osservare come la differenza del linguaggio e più la diversità del carattere e delle usanze tenga stranieri gli uni agli altri i popoli d’Italia, che ha tanto bisogno di essere una, se vuol esser davvero libera e forte. Era impossibile di resistere al gridio di quei Toscani, mentre la dolcezza della favella nol rendeva nè meno aspro, nè meno importuno. Mi pungeva inoltre la curiosità di verificare se quella vampa, senza riparo di sorta potesse resistere a tanta furia di acqua che cadeva dal cielo. Uscii dunque, sfidando il diluvio. Dalla bocca della fornace che dava direttamente sulla via, splendeva la fiamma a guisa di vivacissimo faro, ed un cilindro di luce, disegnandosi per lungo tratto sulla pioggia cadente, come la coda di una cometa che andasse a dar della testa nella montagna, si perdeva nel fitto bujo ond’era tutta investita la valle. — Chi sa da quanti secoli, — dicevo tra me, — arde quel fuoco! Chi sa quante generazioni vi avranno affissato lo sguardo o superstizioso o attonito, o indifferente? Sono veramente inesauribili le forze della natura! —».
4. «È molto tempo, adunque», domandò la Camilla, «che si conoscono i fuochi di Barigazzo?».
«Per lo meno, dai tempi di Plinio; chè il cercare memorie di fenomeni fisici in Italia oltre quell’epoca, sarebbe, a un dipresso, tempo perduto1. Plinio infatti parla di fiamme che escono dal suolo nell’agro Modenese nei giorni sacri a Vulcano2. C’è ogni probabilità che Plinio abbia voluto indicare i fuochi di Barigazzo. Vi ricorderete come egli parli ugualmente, anzi più preciso, della Salsa di Sassuolo. Ciò vuol dire ad ogni modo che l’Apennino presentava già fin d’allora quel complesso di fenomeni che noi ammiriamo di presente».
«Ma che ci entrano», riflettè Giannina, «con quei fuochi, i giorni sacri a Vulcano?».
«In vero non mi ci raccapezzo, poichè non c’è nessuna ragione per cui quel fuoco dovesse uscire un giorno anzichè l’altro. Sapete che cosa m’è venuto in mente? Voi vi ricordate che Vulcano era il dio del fuoco, e che quel povero dio zoppo aveva la sua fucina sotterra per fabbricarvi i fulmini di Giove. È naturalissimo anzi tutto che i creduli d’allora, vedendo uscire il fuoco da quelle rupi, vi ravvisassero nientemeno che uno spiraglio, da cui sbucasse la fiamma alimentata dal mantice del dio magnano. Può anche darsi che gli si fabbricasse un tempio lassù, e che gli astuti sacerdoti non lasciassero di far loro pro di un fenomeno così raro, e di apparenza così portentosa. Quel fuoco si estingue con tutta facilità; infatti io lo vidi spegnersi d’un tratto soltanto col lanciargli addosso con violenza un secchio d’acqua. Supponete che io voglia, come si dice, incantare la plebe. Spengo quel fuoco; poi, vestito da mago, colla magica bacchetta, pronunciando scongiuri, lo ridesto in faccia all’attonito volgo. Ad operare il portento mi basterebbe un solfino.... avete capito? Forse quel fuoco, tenuto spento ad arte negli altri giorni, si accendeva nelle feste di Vulcano, a edificazione del credulo volgo. L’è una mia pensata, vedete; ma la non mi pare assurda.
5. » La mattina non volli partire senza prender commiato da quella fiamma così rispettabile per la sua antichità. La tempesta notturna aveva rinfrescati assai quei gioghi e quelle valli, e vi spirava l’umida brezzolina che noi sentiamo più tardi nelle ultime settimane d’ottobre. Le rupi gemevano ancora, e goccie di pioggia si staccavano a larghi intervalli dagli alberi, o rimanevano sospese, come gemme tremolanti, alle foglie. Arrivato alla fornace, trovai la vampa che strideva come il giorno precedente, e dentro il recinto stesso della fornace, un pacifico montanaro che se ne stava col dorso rivolto al fuoco, le gambe aperte le mani didietro, a pigliarsi una buona fiammata. Mi venne da ridere, al vedere quell’uomo riscaldarsi così pacificamente la schiena a quel fuoco che mi aveva messo in vena di poesia la sera innanzi. Trovai del resto la cosa naturalissima. Come noi respiriamo l’aria e beviamo dell’acqua che Dio ci provvede dappertutto; così quei di Barigazzo si riscaldano a quel fuoco, di cui Dio fece loro un presente speciale; e mi pareva di vedere quei poveri villici nelle mattinate d’autunno, quando salgono al monte, e la sera quando ritornano cogli abiti umidi dalla brina, far sosta e godere una buona fiammata. E d’inverno, quando le nevi imbiancano quelle romite contrade, mi figuravo i buoni montanari darsi il ritrovo intorno a quella perenne baldoria. Questi pensieri soffocavano quasi interamente quell’altro, che pur voleva far capolino: il pensiero cioè dell’utile che si potrebbe ritrarre da quella sorgente di calore».
«Qual’utile se ne potrebbe cavare?» domandò Giovannino.
«Eh mio caro, quando c’è calore, c’è tutto, o almeno il più. Parlo in riga d’industrie. Supponiamo che la fiamma che vi ho descritta sia quella d’una buona fascina che si consumi in 10 minuti. Avremo consumato 6 fascine all’ora, 144 al giorno, e 52,560 all’anno. Non ti pare che con 52,560 fascine si possano alimentare camini, far bollire caldaje, attizzare fucine assai? Nè parlo soltanto di Barigazzo; perchè di getti di gas idrogeno, di fontane ardenti, ce n’ha pure altrove».
«Per esempio?» chiese l’Ambrogina.
«Una fontana ardente si incontra, per esempio, a Pietramala, sulla via da Bologna alla vetta del Covigliajo, d’onde si discende a Firenze. Ci passai una volta di notte in vettura, ma dormendo come un tasso. Visitai invece in altre occasioni i fuochi di Velleja e quelli della Porretta».
6. «Velleja.... sclamò l’Angiolino, come chi ravviva una sbiadita reminiscenza. «È come un’antica città sepolta nell’Apennino?».
«Infatti è un’antica città romana, le cui meravigliose rovine sorgono dal suolo in seno agli Apennini tra Parma e Piacenza; in un luogo così internato, così selvatico, che appena credereste vi si stampassero orme umane, in quell’epoche antiche, in cui erano barbare le regioni che oggi figurano fra le più civili del l’Europa. Ma bisogna che per l’Italia fosse altra cosa. Se in fondo alla valle Chero sorgeva una città come Velleja, bisogna dire che, da’ tempi romani in poi, la barbarie progredisse in alcune parti d’Italia precisamente del medesimo passo, onde progrediva altrove la civiltà.
» Io rimasi veramente sbalordito quando fissai lo sguardo su quell’area, sparsa di così splendide rovine, da cui erano state dissepolte tante statue di bronzo, tanti capi d’arte, pe’ quali il Museo della piccola Parma emula di splendore le collezioni delle grandi città di questa antichissima patria delle arti e del sapere. Ero disceso alla stazione di Firenzuola, tra S. Donnino e Piacenza, e avevo camminato a ritroso della corrente, la lunga valle del l’Arda, fino a Lugagnano, che si direbbe posto ai confini del mondo incivilito. Per andar oltre, bisognava o raccomandarsi alle gambe, o adoperarle a inforcare l’asino o la rozza. Appigliatomi al secondo partito, attraversai una serie di colli; passai il Chiavenna, e via via, sempre inoltrandomi nell’Apennino, attraverso dirupi e nere cupole di serpentino, finchè mi si aperse dinanzi una specie di ampio bacino, seminato di poveri villaggi, e là, in fondo in fondo, nell’angolo più selvaggio, Velleja! Chi il crederebbe, se la storia e più che la storia no’l dicessero i monumenti, che noi ci troviamo a fronte all’antica sede dei Vellejati, la quale diede già tanta briga alle legioni romane, ed ebbe poi i suoi decurioni, i suoi duumviri, prefetti, giudici, un fòro, una basilica, un calcidico, un anfiteatro3, al pari di qualunque più nobile città del Romano Impero?».
«Se ben mi ricordo», disse l’Angiolino, «quella città fu sepolta da una frana staccatasi dal monte».
«Così, per semplice congettura, ritengono gli archeologi. Le famose rovine si trovano infatti sepolte; ma quasi a fior di terra. I paesani volevano additarmi il punto, donde la frana si era staccata. Ma, trattandosi di un avvenimento che rimonta a circa 17 secoli, non mi fo scrupolo di scartare senza misericordia la testimonianza di quei villici. Io non ci vidi nè frana, nè montagna che potesse franare, nè disposizione di suolo, che valesse comunque a giustificarla. La frana che seppellì Velleja, fu quella stessa che coperse la Roma antica, e tutte, si può dire, le antiche città d’Italia. Fu l’incuria, la barbarie, il tempo. Ogni città, posta al piede di un terreno elevato, come Velleja, come Roma, come Brescia, come le altre città ove si sviscerarono dal suolo le stupende rovine della civiltà romana, abbandonate agli elementi, sarebbe necessariamente interrita. Le acque pluviali, a cui nessuno imponeva leggi nel corso di tanti secoli, sono più che bastanti a darci ragione dell’interrimento di quelle antiche città. Del resto è ancora troppo fitto il velo che ricopre il lungo periodo che noi chiamiamo Medio evo, periodo tenebroso, ove si smarrì l’antica civiltà, uscendone così bella, così splendida, la civiltà moderna.
7. » Ma io volevo parlarvi, non delle rovine sepolte, bensì dei fuochi di Velleja che ardono ancora, lambendo quelle rovine, come forse un giorno gettavano sprazzi di livida luce sulle mura della superba città. Trattasi dunque anche qui di emanazioni di gas idrogeno carburato4. Le fiamme sono distribuite in due gruppi, e con lieve stridore, sorvolando leggere leggere, lambono il suolo in prossimità del Chero. Qui nessuno le costrinse a raccogliersi in una fiamma, e perciò il fuoco si accende in ogni breve spazio, dove il gas sgorghi in quantità sufficiente ad alimentare una fiammella, che ogni alito di vento può spegnere. Gl’indizî delle emanazioni però si rivelano sopra un’area di forse 200 metri quadrati.
» Su quel libero spazio potei ripetere una piccola esperienza, di nessun valore per sè, ma che mi spiegava un certo passo di Plinio, il quale mi era parso veramente strano e poco intelligibile. Sapete voi che cosa è la Chimera?».
«La Chimera?...» disse la Camilla, in atto di chi cerca le parole per ispiegarsi. «Noi, quando si dice: — codesto è una chimera — s’intende che è una cosa falsa, così.... una fantasia.... un sogno».
«Benissimo, perchè la Chimera degli antichi era proprio una cosa falsa, uno spauracchio, un brutto sogno. La Chimera era un orribile mostro, dalla testa di leone che vomitava fuoco, dal corpo di capra, e dalla coda di serpente. Ma in questa, come in genere nelle altre favole degli antichi, chi vuole e può andare al fondo scopre sempre qualcosa di vero. Esisteva infatti, come esiste ancora nella Licia5 una montagna detta Chimera, dal cui fianco sgorgavano getti di gas infiammabile. La Chimera di Licia arde ancora, e le fiamme si elevano da tre a quattro piedi d’altezza. Tornando a noi, il grande naturalista Plinio, parlando con meraviglia di quei fuochi, dice che, tracciando con un bastone ardente un solco nel suolo, ne nascono ruscelli di fuoco6. Che diacine vuol darci ad intendere con queste parole? Io, pensando ad esse, mi posi a scalfire il suolo colla punta della mia mazza, cioè a tracciare dei piccoli solchi, partendo da un punto ove ardeva la fiamma. Oh meraviglia! un ruscello di fuoco si dipartiva dalla fiamma, seguendo il solco, come un serpente, che inseguisse rabbioso la sacrilega punta».
«Ma come avviene codesto?» domandò Giovannino, facendosi interprete di tutte le bocche spalancate del piccolo uditorio.
«È la cosa più semplice, vedete. Il suolo incoerente, e quindi assai poroso alla superficie, è tutto impregnato di quel gas che si annida tra grano e grano di terra, come in un sistema di piccole celle. Se io incido quel suolo, vengo ad aprire successivamente un gran numero di quelle cellette, e il gas, sfuggendone, si trova libero in copia sufficiente per accendersi al contatto della fiamma, la quale si propaga naturalmente a tutto il solco, mano mano ch’e’ viene tracciato. Ci scommetto che vi siete divertiti anche voi a un giochetto, al quale pigliavo un gusto matto, quand’ero come voi. Si prende una candela di sevo, per esempio; quando la moccolaja è sviluppata a dovere, con un soffio la si spegne. Dalla moccolaja, che arde ancora ridotta in bragia, si leva oscillando quel getto di fumo bianco, che spande un odore così nauseabondo. Or bene, se non avete fatto cotesto giochetto, lo farete adesso. Appena spento il lume, appressate uno zolfino, o un’altra candela accesa, a quel fumo, cogliendolo alla distanza di due, di tre, di quattro dita, dalla sommità della moccolaja. Vedrete allora una fiammella che, staccandosi dal lume acceso, ratta discende come piccolo fulmine, serpeggiando lungo il getto di fumo, e riaccende il lume spento. Quel fumo, così puzzolento non è altro, in sostanza, che gas idrogeno carburato, che si accende, al contatto della fiamma; e la fiamma propagandosi dall’una all’altra estremità del getto, crea codesta illusione ottica di un fuoco che serpeggia e cammina».
Qui naturalmente ci fu un po’ di parapiglia, e si vollero accendere non so quante candele; chè i non esperti volevano imparare ad eseguire l’esperimento, e gli esperti erano gloriosi di farsene maestri. Io volevo approfittare di quel momento di distrazione, per dichiarare finita la conversazione, e già mi avviavo in cerca del mio cappello; quando la Giannina, accortasene, mi corse dietro gridando: «E i fuochi della Porretta?» sicchè i ragazzi mi si fecero tutti di nuovo dattorno.
«Veramente», risposi, «non c’è in essi nulla di nuovo: ma pure non voglio lasciare insoddisfatta la vostra curiosità.
8. » La Porretta è un grosso borgo, una cittadella, posta quasi alla sommità del giogo dell’Apennino, attraversato adesso dalla ferrovia che va da Bologna a Pistoja, rimontando la valle del Reno. È un luogo celebre per la copia delle sorgenti medicinali, colle quali i non meno celebri fuochi hanno un’attinenza immediata. Come è pittoresco quel luogo! Il paese è cacciato, direbbesi in castrato nell’apertura d’una gola, da cui esce il Rio, un torrentaccio che confluisce al Reno sulla sinistra. Dietro il paese quella gola si restringe, e non è più che un’orrida spaccatura in una muraglia di rupi ignude che si rizzano verticalmente. La porzione di questa muraglia che fiancheggia la sinistra del Rio si chiama il Sasso Cardo. È infatti un nudo macigno, che si solleva a perpendicolo all’altezza di forse un centinajo di metri. Dal suo piede scaturiscono le famose sorgenti, e sulla sua fronte spicca, a guisa di un pennacchio di fuoco, il Vulcanello, cioè una fiamma perenne, dell’altezza di un piede, che sgorga da una fessura della nuda roccia, a poca distanza da un’altra minore fiammella. È evidente che il gas infiammabile, prodotto del grande laboratorio aperto sotto le rupi (chissà a quale immane profondità), esce colle sorgenti che in quello stesso laboratorio si arricchirono di tanti elementi, che, disciolti nell’acqua, le danno quella virtù medica per cui sono tanto cercate. Ma il gas idrogeno carburato, non disciolto, e solamente imprigionato, appena si avvicina alle regioni superficiali, impaziente e più leggero dell’aria, si sprigiona come il vapore da una caldaja bollente, e sfugge attraverso i crepacci della rupe, e su su, come il fumo per la canna del camino, finchè giunto alla vetta si accende Il Vulcanello della Porretta.7 nella libera atmosfera. Il gas infiammabile sbuca anche insieme colle acque a pie’ della rupe, in tal copia, che il bagnante immerso nella sua vasca, può trastullarsi accendendolo, almeno per un istante, al robinetto, come al becco di una lampada a gas. Anzi, tempo fa, un bel fanale, alimentato da quel gas, illuminava la piazzetta dello Stabilimento; poi fu distrutto. Era forse una economia soverchia per uno Stabilimento governativo, ove ardono più degnamente l’olio e la stearina, pagati a contanti.
9. » Giacchè avete voluto costringermi di nuovo a sedere, per parlarvi de’ fuochi della Porretta, non vo’ partirmi di qui senza farvi alcuni riflessi che serviranno come di conclusione a ciò che da molte settimane fu il soggetto delle nostre conversazioni. Badate che dico soggetto in singolare; perchè, da quando cominciai a parlarvi di lucilina e di petrolio fino ad oggi che credo aver terminato colle fontane ardenti, noi ci siamo aggirati sempre sullo stesso soggetto cambiando soltanto i lati sotto cui esso ci si presentava. Fondamentalmente non abbiamo discorso che di una cosa sola, e questa è l’attività interna del globo, di cui abbiamo descritto le diverse manifestazioni. I petrolî, le salse, i vulcani di fango, le fontane ardenti, in Italia o fuori non sono che altrettante manifestazioni di quell’attività; anzi non costituiscono che una sola complessiva manifestazione, un solo complesso di fenomeni che hanno la stessa origine, che sono alla radice una sola cosa, per separarsi in seguito l’uno dall’altro, mostrandosi isolati ai nostri sensi secondo le circostanze. Gli è come avessimo parlato di una pianta, studiandone le parti di cui si compone. Abbiamo considerati partitamente il fiore, il seme, le foglie, i rami, il tronco, la radice; ma è pur sempre la stessa pianta che noi andavamo studiando. Come nel germe di una pianta è tutta compendiata la pianta stessa, la quale si va mano mano svolgendo nelle sue parti, così nell’attività interna del globo si compendiano tutte le sue manifestazioni, le quali si vanno svolgendo mano mano che l’attività interna si va manifestando all’esterno. La manifestazione più fondamentale sarebbe quella delle sorgenti termo — minerali, cioè delle acque calde in cui trovansi disciolti minerali diversi. Veramente le nostre conversazioni non si aggirarono mai se non per incidenza su questo tema interessantissimo. E sì che in Europa l’Italia è la regione più classica per tal genere di manifestazioni. Ma via: voi sapete che di tali sorgenti o calde o fredde ricche di un numero infinito di sostanze minerali, ve n’hanno centinaja in Italia e migliaja in tutte le parti del globo. Or bene: tutti i fenomeni che noi abbiamo descritto non hanno radice, secondo me, che in altrettante sorgenti termo-minerali8. Anzi tutto vi deve disporre assai ad accettare questa idea il riflettere come i petrolî, le salse, i vulcani di fango, le fontane ardenti, tutti in somma quei fenomeni di cui da tante sere ci stiamo occupando, si presentano tutti nella stessa regione, entro i limiti di una stessa provincia, quella per es., di Modena o di Parma, salvo poi il ripetersi, aggruppandosi sempre, sopra l’istessa zona, che percorre tutta l’Italia fra l’Adriatico e l’Apennino. Ora questa è la zona precisamente delle sorgenti minerali. Per darvi un’idea come siano aggruppate le sorgenti minerali coi petrolî, le salse e tutte le altre manifestazioni dell’attività interna, di cui ci siamo occupati, vi basti di sapere che, sopra una zona molto ristretța, alla base dell’Apennino, compresa tra Piacenza e Faenza, ho potuto numerare almeno 30 sorgenti minerali, 32 località petroleifere, e 26 tra vulcani di fango, salse, fontane ardenti ed emanazioni di gas infiammabile. Ora vi so dire che i petroli, i vulcani di fango, le salse e le emanazioni di gas infiammabile non si scompagnano mai, o quasi mai dall’acqua; per cui avremmo, sopra quella ristrettissima zona lineare tra Piacenza e Faenza, almeno 88 sorgenti minerali dalla massima parte delle quali si svolgono il petrolio e il gas infiammabile.
» Se qui abbiamo una semplice fonte minerale, là una sorgente di petrolio, più oltre una salsa, un vulcano di fango od una fontana ardente; la particolarità del fenomeno non può dipendere che da circostanze speciali. Siccome poi il fenomeno veramente universale è l’acqua, la quale non manca mai o quasi mai di prodursi, anche quando la manifestazione più appariscente non è quella di una sorgente; così dobbiam dire che le sorgenti minerali sono veramente le radici, o i tronchi che si svolgono dai germi, rappresentati dall’attività interna del globo, e da cui si staccano in seguito i rami, le frondi, le foglie, i fiori, rappresentati dagli altri fenomeni. Che cosa è un pozzo od una sorgente di petrolio? Non altro che una sorgente minerale petroleifera. Che cosa è una salsa? Una sorgente minerale anch’essa; una sorgente salata, petroleifera, da cui si svolge il gas infiammabile. Che cosa è un vulcano di fango? Sempre una sorgente minerale, ma calda, quindi proveniente da grandi profondità, da cui si svolgono il vapore e il gas infiammabile. E la fontana ardente che cos’è? Una sorgente d’acqua minerale; null’altro. Avete badato bene alle circostanze che accompagnano il vulcanello della Porretta? Ai piedi di quella rupe, chiamata Sasso Cardo, sgorgano sorgenti minerali copiosissime: da esse si svolge in gran copia il gas infiammabile. Ebbene, è evidentemente questo stesso gas infiammabile che, svolgendosi dalle acque, e levandosi per la sua leggerezza in alto mentre le acque scorrono libere verso il basso, penetra nelle cavità della rupe, si innalza entro i crepacci, finchè riesce alla cima del Sasso Cardo, alimentandovi un getto costante di gas infiammabile. La cosa è lucida come il sole: qui abbiamo una sorgente minerale a gas idrogeno, la quale alimenta una fontana ardente. Questa non è dunque che una manifestazione parziale, di quella la quale è poi la manifestazione fondamentale e complessiva dell’attività interna del globo in quel punto. Aggiungete che il petrolio non sembra estraneo alle sorgenti minerali della Porretta, come risulta dalle analisi chimiche di quelle acque. Del resto in quanti luoghi, come a Salsomaggiore, galleggia il petrolio sulle acque da cui si svolge il gas infiammabile! Supponiamo che le acque di Salsomaggiore sgorgassero al piè d’una rupe fessa, come quella della Porretta. Non è vero che avremmo alla base di essa rupe una sorgente minerale petroleifera, e sulla vetta un vulcanello ossia una fontana ardente? Tiriamo avanti coi supposti. Il Sasso Cardo, invece di essere una montagna di macigno, sia una collina di umida argilla, una insomma delle mille colline che sorgono appena più basso presso la Porretta, e lungo tutto l’Apennino. Il gas del vulcanello, levandosi in alto, trarrebbe seco l’argilla e l’acqua che l’impasta, e formerebbe sulla vetta della collina un vulcanello di fango, cioè una salsa. Badate che questa salsa della Porretta potrebbe avere tutti i requisiti delle vere salse, poichè le sorgenti di quella località sono salate, contenendo nove millesimi di sal marino. Del resto l’embrione di una salsa c’è veramente sul Sasso Cardo, poichè io trovai la fessura da cui esce il vulcanello impastata da umido fango. Quando ci sia una sorgente minerale con sale, petrolio, e gas infiammabile, come sono quelle di Salsomaggiore, il prodursi di una fontana ardente, piuttosto che di una salsa, dipenderebbe unicamente dall’essere il terreno roccioso piuttosto che fangoso. È un fatto innegabile che le fontane ardenti e le salse si trovano sulla stessa linea al piè dell’Apennino; ma quelle dove la roccia è dura e compatta, come a Velleja, a Barigazzo e alla Porretta, queste dove il terreno è argilloso, come a Nirano e a Monte Pujanello; in altre parole, la linea delle argille subapennine è quella delle salse: la linea dei calcari e dei macigni è quella delle fontane ardenti. Sull’una e sull’altra linea poi si trovano le sorgenti minerali a petrolio e a gas infiammabile».
«Ma i vulcani di fango», osservò la Camilla «si spiegano allo stesso modo?».
«Certamente. Son essi altro che sgorghi potenti di acqua fangosa con gas infiammabile? Sono dunque sorgenti termo-minerali e nulla più. Se le acque di Porretta sgorgassero immediatamente da qualche gran bacino sotterraneo, collocato a molta profondità, sta’ sicura che sarebbero bollenti, e andando soggette ai grandi squilibri dell’interna temperatura del globo, si animereb bero di tanto in tanto. Allora il vulcanello del Sasso Cardo, come potrebbe divenire permanentemente una salsa, così potrebbe a volte a volte, come la salsa di Sassuolo, presentare lo spettacolo formidabile di una eruzione fangosa; e vi so dir io che i fanghi eruttati sarebbero, come le argille scagliose dell’Apennino e i fanghi eruttivi del mar Caspio, ricchi di minerali d’ogni specie. Nelle acque della Porretta contengonsi infatti ossigeno, azoto, acido solfidrico, acido carbonico, cloruro, joduro e bromuro di sodio, carbonato di soda, di calce, di magnesia, silice, allumina, ferro, arsenico. Che batteria! Pensate a quante combinazioni possono dar luogo tante sostanze diverse, sciolte nell’acqua, in un ambiente così caldo come è l’interno del globo».
«Insomma» soggiunse la Camilla, tutto si ridurrebbe alle sorgenti minerali».
«Sì; tutti i fenomeni di cui vi ho parlato in questa e nelle precedenti serate, e ben altri ancora: per es., i vulcani».
«I vulcani!... Oh! questi poi....» sclamarono i bambini.
«I vulcani», gridava sopra tutti Giovannino» sono fontane di fuoco e non di acqua».
«Chètati Giovannino! Ne potremo discorrere a suo tempo. Basta per ora che tu tenga a mente questo che ti dico: non essere altro i vulcani che sorgenti termo-minerali. A ben rivederci!».
Note
- ↑ Cajo Plinio Secondo (detto il vecchio per distinguerlo da Cajo Cecilio Plinio Secondo che fu suo nipote e figlio adottivo) nacque 23 anni dopo Cristo, a Como, o, come altri vuole, a Verona. Scrisse una Istoria naturale in trentasette libri e una moltitudine di altre opere. Quella sola ci rimane ed è monumento preziosissimo per la storia fisica del globo.
- ↑ Exit (fiamma) in mutinensis agro statis Vulcano diebus. Nat. Hist., lib. II, capo 107.
- ↑ I duumviri juri dicundo erano due magistrati principali, che amministravano le leggi in città provinciali. Il prefetto era il governatore della città. Il fòro era di due maniere: l’uno da tenervi il mercato, ed era circondato da colonnati e d’altri edifizi ove i venditori mettevano in mostra le loro derrate e le merci; un altro da tenervi le pubbliche adunanze, ed era circondato di edifizî più nobili, tra cui la basilica, lunga, stretta, molto alta, ove si raccoglievano i mercanti a trattare dei loro affari. Dinanzi alle basiliche, od anche ad altri edifizî, sporgeva il calcidico, vasto porticato, ove si depositavano le merci di cui si negoziava nell’interno. L’anfiteatro che serviva da principio ai combattimenti dei gladiatori, era circondato esternamente di un muro ovale, e formava all’interno una conca o cavità elittica a gradinate, su cui sedevano gli spettatori.
- ↑ Vedi sopra la Serata XVI, num. 12, e seguenti.
- ↑ Licia, contrada che occupava l’angolo sud-ovest dell’Asia Minore, fra il golfo di Adàlla, e l’isola di Rodi.
- ↑ Baculo si quis ex iis accenso traxerit sulcos, rivos ignium sequi narrant. Hist. Natur., lib. II, cap. 106.
- ↑ Il disegno rappresenta precisamente la vetta del Sasso Cardo, che ha forma di regolare altipiano, da cui sporgono le testate degli strati di macigno in forma di rupi prismatiche.
- ↑ Questa teoria è svolta nel mio Corso di geologia, Vol. 1, Parte II.