Il bel Gherardino/Cantare primo
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CANTARE PRIMO
1
O Gesò Cristo, figliuol di Maria,
che pegli peccator pendesti in croce,
non seguitare la mia gran follia,
sed io inver’ di te mai fui feroce:
concedi grazia nella mente mia,
favoreggiando me colla tua voce,
ch’io dica cosa ch’a te non offenda,
e questa gente volentier la ’ntenda.
2
Con ciò sia cosa che questo cantare
sia dei primi ch’io mai mettessi in rima,
però vo’ far perfetto incominciare,
e ritornare al buon detto di prima,
sicch’a costor, che mi stanno a ascoltare,
piaccia e diletti dal piede alla cima:
però averete ad ascoltar memoria
ch’io vi farò d’una romana storia.
3
Nella cittá di Roma anticamente
aveva una colonna in Campidoglio,
che v’era scritto ogni uom prode e valente,
saggio e cortese, come legger soglio;
sicché, tornando brieve a convenente,
d’un franco cavalier contar vi voglio,
che fu figliolo di messer Lione,
signor del Patrimonio per ragione.
4
Quando messer Lion venne alla morte,
chiamò i suo’ tre figliuoli a capo chino,
e al maggior, che dovea regger la corte,
raccomandò quel ch’era piú fantino,
e questo fu che poi fu tanto forte,
che si chiamava «lo bel Gherardino»:
dicendo: — Gherardin ti raccomando, —
passò di questa vita lagrimando.
5
Dopo la morte di questo signore
rimason tre fratei co’ molto avere,
e il piú cortese di lor fu il minore,
che sempre corte volle mantenere;
e gli fratelli n’avien gran dolore,
perché facealo contra al lor volere;
e’ gli assegnaron parte del tesoro.
E’ fu contento, e partissi da loro.
6
Se prima tenne corte co’ fratelli,
poi la tenne maggior sette cotanti,
con bracchi e veltri e virtudosi uccelli,
palafreni e destrier co’ molti fanti,
sempre vestendo di molti donzelli,
cavalier convitando e mercatanti;
sicché per Roma e per ciascun cammino
si ragionava del Bel Gherardino.
7
Oltra misura fu tanto cortese,
che poco tempo la poté durare,
e la sua povertá fu sí palese,
che gli sergienti incominciò a cacciare;
e, non avendo di che fa’ le spese,
senza cavallo non sapeva stare.
E gli frategli né nissun parente
di lui non ne voleano udir niente.
8
Bel Gherardin, che suo vita procura,
di doglia e di vergogna si moria;
ma pensossi d’andare alla ventura
sol per escir di tal malinconia.
Ed un donzel, ch’amava oltra misura,
chiamò segretamente, e si dicia:
— Or vuo’ tu venir meco, Marco Bello,
ed io ti tratterò come fratello? —
9
E Marco Bello neente gli disdisse
per la voglia ch’avie di lui servire;
ed al presente gli rispuose e disse:
— Io vo’ con teco vivere e morire. —
E innanzi che di Roma e’ si partisse
a creatura nol fece a sentire:
’nsu n’un ronzino, ciascheduno armato,
di Roma si partiron di celato.
10
E, cavalcando tutti traspensati,
piú e piú giorni sanza dimorare,
fûr una notte in un luogo arrivati,
che non v’aveva casa ove albergare.
E senza cena, la notte, affannati,
non ristetton per ciò di cavalcare.
E quando apparve l’alba de lo giorno,
e Marco Bello si guardò d’intorno.
11
E, ragguardando per quella pianura,
di lunga vide un nobile castello,
ch’era cerchiato d’altissime mura.
Al mondo non aveva un par di quello;
non poria cantar lingua né scrittura
d’esso, quant’era fortissimo e bello.
E dentro sí vi aveva un bel palagio.
E cavalcaron lá per prender agio.
12
Ma, quando furon giunti in quella parte,
davanti a Gherardin venne un serpente;
e uno grande orso (ciò dicon le carte)
assalí Marco Bel subitamente:
tali eran fatti star solo per arte,
uomini solean esser primamente;
e cosí gli assaliron su la strada,
onde ciascun cacciò mano alla spada.
13
E lo serpente, per l’aria volando,
davanti a Gherardin trasse a ferire;
e Gherardin si difendea col brando,
però che sapea ben dello schermire;
dicendo: — Iddio, a te mi raccomando:
non mi lasciar cosí impedimentire! —
però che unque ’l serpente lo toccava
coll’ale, tutte l’arme gli tagliava.
14
A Gherardin ne paria molto male
che lo serpente gli facia tal guerra:
ficcò la spada nel mezzo dell’ale,
davagli un colpo, se ’l cantar non erra,
che fu per lui sí pessimo e mortale,
che di presente cadde morto in terra;
e, nel cader che fe’, misse gran guai,
e disparí che non si vidde mai.
15
Morto il serpente, e Gherardin provide
a Marco Bel, che combattea coll’orso,
gridando a voce: — L’orso mi conquide,
se da te, Gherardin, non hoe soccorso. —
E Gherardin, che suo fatto ben vide,
sprona il ronzino e inver’ di lui fu corso;
e, come l’orso lo vidde venire,
Marco lascioe, e lui trasse a ferire.
16
Uno animal cosí feroce e visto,
che non si vidde mai tra l’altre fiere,
che colla branca quel ronzin fe’ tristo,
che morto cadde sotto al cavaliere.
Gherardin chiama forte: — Iesú Cristo,
ora m’aiuta, che mi fae mestiere! —
E da Marco non potea avere aiuto,
però che avea ogni valor perduto.
17
E Gherardin si levò prestamente:
colla sua spada giá non fece resta,
e ferí l’orso nequitosamente:
davali un colpo di sopra la testa,
che lo fendeva infino al bianco dente;
e Marco Bel di ciò facea gran festa!
E nel cader, disse l’orso: — Donzello,
tu hai morto il signor d’esto castello! —
18
E Gherardin, ch’avea la bestia morta,
maravigliossi che l’udí parlare:
nella sua mente tutto si conforta.
A quel palagio presono ad andare;
e, quando fumo giunti a quella porta,
e Marco Bello incominciò a picchiare,
la porta fue aperta immantanente:
ma chi l’aperse non videro neente.
19
Dismontarono e fûr sopra alla scala
que’ che l’un l’altro ma’ non abandona.
E, quando fûrno giunti in su la sala,
non vi trovâr né bestia né persona.
In quello tempo lo freddo non cala.
Uno con l’altro insieme si ragiona.
Per tal maniera dimorando un poco,
ad un cammin vidon racceso un fuoco.
20
Sicché ciascun si facea maraviglia;
ché chi ’l facesse non potien vedere.
Guardandosi d’intorno a basse ciglia,
per iscaldarsi andarono a sedere.
Fra loro insieme ciaschedun pispiglia:
— Se da mangiare avessimo e da bere,
avventurati sarem sette tanti
piú che non fûrno i cavalieri erranti! —
21
Benché persona non vi si vedesse,
ciò che dicien fra lor erano intesi;
e tavole imbastite furon messe,
fornite ben di molti belli arnesi:
ceri e lumiere v’eran molte e spesse;
e que’ baroni per le man fûr presi.
Quando a tavola furono i baroni,
recate fûr di molte imbandigioni.
22
Molto fûr ben serviti a quella cena,
ma non vedien sergenti né scudieri;
e poi, istando in cosí fatta mena,
avevan sopra ciò molti pensieri;
onde ciascun di lor ne stava in pena,
e quasi non mangiavan volentieri.
E, quando ebben cenato, e’ ritornarono
al fuoco, donde prima si levarono.
23
Quando fu tempo d’andare a dormire,
in bella zambra ciascun fu menato,
e a uno bel letto, ch’io nol potrei dire.
Bel Gherardin vi si fu coricato,
ed una damigella, a lo ver dire,
si fue spogliata di presente a lato,
dicendo: — Non aver di me spavento,
ch’io son colei che ti farò contento. —
24
E Gherardin, che le parole intese,
rassicurato fu co’ lei nel letto;
e la donzella fra le braccia prese,
che di bellezze non avea difetto;
e sopra il bianco petto si distese,
baciando l’un l’altro con gran diletto.
E, s’egli è vero quel che il cantar mostra,
piú e piú volte d’amor feciono giostra.
25
Signor’, sacciate che questa donzella
si faceva chiamar la «Fata bianca»,
e mantenea cittadi e castella
con molta quantitá, se il dir non manca.
Del serpente e dell’orso era sorella:
delle sette arti vertudiosa e franca,
contrafatti per arte gli fea stare,
per poter meglio il suo signoreggiare.
26
Quando ebbono assaggiato il dolce pome,
avendo l’uno l’altro al suo dimino,
la Fata bianca il domandò del nome,
e egli rispuose: — Lo Bel Gherardino. —
E po’ sí le contò il perché e il come
della cittá di Roma e’ si partîno,
e come ciò che in questo mondo avía,
tutto l’avea dispeso in cortesia.
27
E, quando quella damigella intese
come cortese e largo egli era istato,
d’una amorosa fiamma il cor l’accese,
che non trovava posa in nessun lato;
e Gherardino fra le braccia prese,
e con bramosa voglia l’ha baciato.
Ed e’, veggendo la sua innamoranza,
come da prima incominciò la danza.
28
Come del giorno apparve alcuno albore,
la Fata bianca in piè si fu levata,
ed una roba d’un ricco colore
a lo Bel Gherardin ebbe recata.
E poi a Marco Bel, suo servidore,
un’altra bella n’ebbe rapportata.
E quando tempo fu, sí si levarono;
vestirsi quegli, e li lor non trovarono.
29
Se Gherardin parea prima giocondo
ch’avesse roba di sí gran valenza,
ben parea poi signor di questo mondo,
tanto era bella la sua appariscenza!
Di zambra uscí, e Marco Bello secondo,
che non v’era persona di presenza,
se non quella donzella che gli guata,
che nolla veggon, perché sta celata.
30
Disse Bel Gherardino allo scudiere:
— Andiamo un poco di fuori a sollazzo, —
e uno bel palafreno ed un destriere
trovâr sellati, e non v’avea ragazzo!
montârvi suso, e non v’avien ostiere!
Gherardin corre il destriere a sollazzo,
e be’ lo mena a sinistra ed a destra,
e la donzella stava alla finestra.
31
Quando a lor parve tanto essere stati,
e’ tornâro al palagio a disinare:
ed ogni giorno s’erano avezzati
d’uscir di fuori un poco a sollazzare;
e ogni volta, quand’erano tornati,
trovavan cotto per poter mangiare.
Ed ogni notte, per diletto, avea
Gherardin quella che il dí non vedea.
32
Tre mesi e piú cotal maniera tenne
Bel Gherardin con allegrezza e strada;
ed una notte si gli risovenne
della sua gente e della sua contrada.
E quando quella pena si sostenne,
piú non vedea quella che sí l’agrada;
e’ con temenza alla donzella disse
che le piacesse che si dipartisse.
33
E disse: — Dama, non vi sia pesanza,
se contro a la tua voglia io ti parlassi;
io t’adimando e cheggio perdonanza,
s’alcuna cosa nel mio dir fallassi:
d’andare a Roma i’ ho grande disianza:
di subito morrei, s’io non v’andassi.
Però ti priego che tu mi contenti,
ch’io veder possa gli amici e’ parenti. —
34
E la donzella al cor n’ebbe gran doglia,
ch’a gran fatica gli fece risposta.
Per Gherardin tremava come foglia,
considerando che da lei si scosta.
Ma pur, veggendo sua bramosa voglia,
sí gli rispuose, quando ella ebbe sosta:
— Ben ch’il mio cor del tuo partir tormenta,
po’ ch’a te piace, ed io ne son contenta. —
35
A la partita gli donava un guanto,
e disse: — Ciò che vuogli, tu comanda;
e tu l’avrai; non chiederesti tanto,
cavalieri o danari over vivanda. —
Queste parole gli disse con pianto;
ma finalmente così gli comanda:
— Non sia persona a cui lo manifesti,
ché ciò che tu averai, sí perderesti.
36
E quella gente, che tu troverai,
con teco mena, ch’e’ ti ubidiranno.
Di me sovente ti ricorderai;
ma fa’ che tu ci sia in capo all’anno:
in tua presenza allor mi vederai
con molte dame che mi serviranno;
e sposera’ mi a grandissimo onore:
sarò tua donna e tu siei il mio signore. —
37
Perché a Roma torna volentieri,
Bel Gherardin da lei prese commiato.
E covertati trovò due destrieri,
sí che ciascuno a cavallo è montato:
e mille cinquecento cavalieri
trovò fuor del castello insú in un prato;
e sessanta vestiti ad una taglia,
e molta salmeria, se Iddio mi vaglia.
38
Siccome valoroso capitano,
Bel Gherardin disse lor: — Cavalcate. —
Eglin gridâr: — Viva il baron sovrano! —
con molte trombe innanzi apparecchiate;
ed ogni gente fuggia per lo piano.
E cosí cavalcâro piú giornate,
tanto che fûr nel contado di Roma,
e la novella a la cittá si noma.
39
Quando fûr pressi a Roma, a cinque miglia,
tender vi fe’ trabacche e padiglioni;
e il padre santo se ne maraviglia,
ché non sapea di lor condizioni:
montò a cavallo con la sua famiglia,
con compagnia di molti altri baroni,
ed altra gente molta e’ suoi fratelli
contra a costoro andâro per vedelli.
40
E il padre santo ben lo cognoscea,
siccome egli era di grande legnaggio,
e, co’ fratelli insieme, gli dicea:
— Donde avestú cotanto baronaggio? —
Ed egli a tutti quanti rispondea:
— Come Iddio volle, io ho tal signoraggio. —
E tanto non poteron domandare,
che volesse altro lor manifestare.
41
Ne la cittá con grande onore entrava
Bel Gherardin e sua gente pregiata,
ed ogni gente si maravigliava
della gran baronia ch’avíe menata:
e tutta gente di lor ragionava,
faciendo festa della sua tornata.
E co’ fratelli in casa si ridusse
con quella gente ch’a Roma condusse.
42
Sí bella corte tenne quel barone,
che dir non si potrebbe né contare.
Se v’arrivava giullare o buffone,
era vestito sanza addomandare;
e non sapea neun suo condizione,
come potesse sí corteseggiare.
E ben tre mesi fe’ corte bandita,
che per vertú del guanto era fornita.
43
E una sera, quand’ebbono cenato,
e la madre il chiamò segretamente,
e disse: — Figliuol mio, dove se’ stato,
po’ che del tuo partir fui sí dolente? —
E poi appresso l’ebbe dimandato
come potea tener cotanta gente;
e finalmente tanto il dimandoe,
che ciò ch’egli avíe fatto le contoe.
44
E disse siccome egli aveva avuta
la Fata bianca, che l’era suo sposa.
E, come la parola fu compiuta,
dipartissi la gente ed ogni cosa,
e la vertú del guanto fu perduta;
onde suo madre fu molto crucciosa.
E Gherardino e Marco, lagrimando,
partîrsi, e lei lasciaron sospirando.
45
Sol ha un ronzin ciaschedun, sbigottito.
Gherardin mosse lo ronzin predetto,
e cavalcando partesi smarrito,
e ragionando andava il suo difetto.
Siccome della fata fu marito,
nel secondo cantar vi sará detto,
e come del paese fu signore.
Questo cantare è detto al vostro onore.