Il Valdarno da Firenze al mare/Cap. I
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CHIESA DI SANT’ANDREA A BROZZI — QUADRO IN TAVOLA DI FRANCESCO DI GIOVANNI BOTTICINI.
(Foto I. I. d’Arti Grafiche).
I.
DA FIRENZE A SIGNA.
Un’ampia pianura, in epoca remota squallida e palustre, oggi fertilissima, popolata d’innumerevoli paesi, sparsa di leggiadre case di villeggiatura, intersecata in ogni senso da una fitta rete di comode strade, si distende a ponente di Firenze, e in mezzo ad essa mollemente serpeggia l’Arno, mentre tutt’all’intorno le colline ubertose formano una gentile corona che ha per gemme i suntuosi palazzi campestri e le chiese dalle linee pure e gentili.
Sulla destra riva del fiume, lungo i due grandi stradali che in senso differente percorrono i piani per ricollegarsi poi a Pistoja, corrono come due borghi interminabili di caseggiati che assumono i nomi diversi dalle antiche località e dalle vecchie chiese attorno alle quali si costituirono i primi centri.
Lungo la via Pistoiese, dopo Rifredi, divenuto ormai un sobborgo di Firenze e si potrebbe dir quasi il quartiere industriale fiorentino, vengono Castello, presso al quale primeggiano, fra una miriade di ville, le due splendide dimore Medicee ora patrimonio della Corona: Castello e Petraja, poi Sesto, ampio ed industrioso paese, reso celebre dalla vicina manifattura di porcellane di Doccia, fondata nel AFFRESCHI NELLA CHIESA DI S. ANDREA A BROZZI.
(Fot. I. I. d'Arti Grafiche.)
1740 dai Ginori, continuatori delle operose tradizioni della vecchia nobiltà fiorentina, e finalmente Calenzano, il pittoresco castello che guarda Prato e la fresca valle del torrente Marina.
Dietro ai colli verdeggianti, a pie’ dei quali passa questa grande arteria, inalza la sua massa imponente Morello, il più elevato fra i poggi che attorniano Firenze.
CHIESA DI S. ANDREA A BROZZI — PESELLO: CRISTO IN CROCE.(Fot. Alinari)
Monte Morello, coperto un giorno di fitte selve, in mezzo alle quali si nascondevano romite chiesette, oggi distrutte o abbandonate, presenta la sua vetta arida e brulla come quella d’un vulcano, verso la quale i vecchi fiorentini rivolgono quotidianamente lo sguardo, quasi a trarne l’oroscopo del tempo. D’estate i riflessi rossastri delle balze riarse sono un indizio di gran caldo; d’inverno, invece, le nevi biancheggianti sull’alta cima denotano stagione rigida e ventosa, e quando le nubi si addensano avvolgendo e nascondendo il cocuzzolo della montagna, il buon SAN MORO PRESSO SIGNA.
BASSORILIEVO ROBBIANO NELLA CHIESA DI S. MAURO.
fiorentino aspetta rassegnato la pioggia, mormorando fra sé i versi strampalati d’un vecchio dettato:
Quando Monte Morello mette il cappello
Piglia l’ombrello!
S. MORO PRESSO SIGNA – CHIESA DI S. MAURO – CIBORIO ROBBIANO.Fra la via Pistojese e l’altra via comunemente chiamata Lucchese, che segue più da vicino il corso dell’Arno, è un’immensa estensione di campi e di prati che han preso il posto di quei tristi e paludosi terreni, per sanare i quali, prima la Repubblica poi il governo Granducale profusero denari a piene mani.
Sulla via Lucchese non è men fitto il caseggiato ed i borghi si succedono senza interruzione l’uno all’altro.
Peretola, posto sulla sponda del Canale Macinante, scavato fin da tempo remoto per dar moto ad opifici e a mulini, è il primo di questi borghi nei quali l’industria dei lavori di paglia ha costantemente occupato la maggior parte della popolazione.
Peretola, donde venne a Firenze la famiglia del gran navigatore Amerigo Vespucci, è artisticamente importante per la sua chiesa di S. Maria, doviziosamente ricca di opere d’arte e restituita non sono molti anni alla elegante severità del suo antico aspetto. Sotto il portico esterno, l’affresco che rappresenta S. Antonio abate seduto in cattedra fra S. Jacopo apostolo e S. Egidio, è di Giusto d’Andrea di Giusto, seguace di Benozzo Gozzoli, che lo dipinse nel 1466. Altri affreschi sono in chiesa: lo sfondo di un altare a destra entrando, nel quale sono una storia di S. Leonardo e le Sante Caterina d’Alessandria e Lucia, venne fatto dipingere da Lionardo Buonafè a’ primi -del XVI secolo, quando era spedalingo a S. Maria Nuova: la lunetta colla figura di S. Zanobi è della fine del XIV secolo. Più interessanti sono le opere di scultura e prima d’ogni altra va ricordato lo stupendo ciborio o tabernacolo nel quale PONTE A GREVE LUNGO LA VIA PISANA
(Fot I. I. d’Arti Grafiche)
CASTELLO DI CALCHERELLI O DELL’ACCIAJUOLO PRESSO IL PONTE A GREVE.
(Fot I. I. d’Arti Grafiche)
sono magistralmente accozzati lavori di scultura in marmo, in terracotta invetriata e in bronzo. Esso fu fatto fare per la corsìa delle donne nello spedale di Santa Maria Nuova di Firenze tra il 1441 e il 1443 e l'artefice al quale venne commesso dallo spedalingo fu Luca Della Robbia. Basta questo nome soltanto per far ri- levare l'importanza artistica di questo ciborio che dalla sua sede originaria venne trasferito nella chiesa di Peretola, allora di patronato di quello spedale. Altre sculture pregevolissime sono il fonte battesimale di Mino da Fiesole ed una pila, a S. MARTINO ALLA PALMA. (Fot. I. I. d'Arti Grafiche). proposito della quale si ha il ricordo del pagamento fattone nel 1446 a Francesco di Simone Ferrucci, cui si può molto ragionevolmente attribuire anche l'elegante ciborio marmoreo che serve ora di custodia per l'olio santo.
Annesso alla chiesa di Peretola è un chiostro del XV secolo con colonne joniche, sulle quali poggia una tettoja di legname elegantemente scolpita e adorna di policromie originalissime, ciò che costituisce un esempio de' più rari e de' più pittoreschi dei cortili fiorentini de' primi di quel secolo.
A Petriolo, il borgo che succede a quello di Peretola, la chiesa di S. Biagio ha sulla facciata caratteristici affreschi del XIV secolo, recentemente scoperti e riparati, e nell'interno una tavola della maniera di Fra Bartolommeo, deturpata dai restauri, ed un ciborio di marmo che ricorda il fare di Desiderio da Settignano.
Tutte in generale, le chiese di questa parte della pianura fiorentina sono di origine antichissima e conservano, oltre che parte della loro sruttura primitiva, opere d'arte di notevole pregio e ricordi di insigni famiglie che vi ebbero diritti patrinali, cappelle e sepolture.S. Martino a Brozzi, l'antica pieve della quale tutto queste chiese sono suffraganee, serba tracce della sua antica e severa costruzione del XI secolo e possiede diverse opere di scultura degne di ricordo, come il Fonte battesimale di marmo, costituito di Frammenti del primitivo fonte del XII secolo, riuniti e completati nel XVI, e due graziosi tabernacoli o cibori ricchi d'ornati del XVI secolo.
Più interessante è il corredo artistico della chiesa di S. Andreaa Brozzi che fu un giorno di patronato dei Mazzingi. Più specialmente sono degni di ricordo: un affresco raffigurante la Vergine in trono col bambino Gesù ritto sulle ginocchia ed i Santi Sebastiano e Giuliano ai lati, opera di squisita fattura che può attribuirsi a Domenico Ghirlandajo, ed una grandiosa croce dipinta da Giuliano d’Arrego, detto il Pesello. A questi due dipinti meritevoli di figurare in una chiesa di maggiore importanza e degni di un museo, sono da aggiungersi: un’ancona d’altare coll’ Annunciazione ed i Santi Eustachio e Antonio abate della maniera di Lorenzo Monaco; una tavola che si attribuisce a Francesco di Giovanni Botticini, colla Vergine, il putto, S. Sebastiano, S. Bartolomeo, S. Jacopo e S. Antonio abate fatta nel 148....; una lunetta coll’Eterno Padre che ricorda la vigoria di Alessio Baldovinetti; un affresco del XVI secolo colla figura di S. Alberto monaco e S. Sigismondo, indicati da una singolare iscrizione, il primo come devoto della febre quotidiana e terzana ed il secondo devoto la febre quartana, allusioni queste alle febbri palustri che in que’ tempi infestavano questa bassa pianura. Altre chiese vicine sono S. Lucia alla Sala che possiede due tabernacoletti della maniera di Giuliano da Majano, S. Donnino a Brozzi nella quale si conserva un’interessante ancona giottesca, S. Piero a Ponti che ha sulla porta una lunetta di Giovanni Della Robbia colle figure della Vergine, del bambino e degli apostoli Pietro e Paolo.
Ultima fra le chiese di questo vasto piano ricorderemo quella di S. Mauro, volgarmente detta di S. Moro, nella quale sono da ammirarsi altre due di quelle opere robbiane che sono sparse con tanta profusione nelle chiese della Toscana: un bel dossale d’altare della maniera di Giovanni Della Robbia colla Vergine in trono, il bambino Gesù, due santi e due angeli volanti che sostengono una corona;
un ciborio di squisita fattura con esuberante ricchezza d’adornamenti che può attribuirsi all’ultima maniera di Andrea Della Robbia.
San Moro è posto all’estrema base dei Colli di Signa, poco lungi dal fiume Bisenzio che va a deporre in Arno il tributo delle sue acque limacciose; nobilmente limacciose, sia lecito dire, perchè giungono alla foce dopo aver dato moto e vita ai numerosi opifici dell’industre città di Prato dove lavorano migliaja d’artefici. Sulla riva destra del Bisenzio è Signa, il popoloso paese del quale parleremo dopo aver con eguale rapidità percorso il territorio situato sull’opposta riva dell’Arno.
Sulla sponda sinistra dell’Arno, corre attraverso agli ampi piani e lambisce di tanto in tanto la base delle dolci colline che seguono parallelamente la linea del fiume, La via pisana, ampia e comoda strada che fin da tempo remoto servì di comunicazione diretta fra Firenze e il mare.
Per questa via passarono, per giungere a Firenze Imperatori, Papi, Principi, Ambasciatori, accolti sul limitare della Porta San Frediano dai magistrati della repubblica, circondati dal loro seguito sontuoso e lungo questa via si svolsero quegli avvenimenti che sono scritti con caratteri di sangue nelle pagine della storia. I piani che si stendono da questo lato fino alla confluenza del fiume Greve nell’Arno, sono celebri per la dovizia di ortaggi prosperosi che per tanti secoli servirono di gradito alimento alla popolazione fiorentina e che oggi forniscono i più lontani paesi de’ loro lussureggianti prodotti. Difatti fin da’ lontani tempi sono celebrati nelle tradizioni gastronomiche i deliziosi poponi di S. Frediano ed i maestosi cavoli di Legnaja che oggi fan bella mostra sui mercati di Pietroburgo, di Berlino e di Londra.
La via Pisana può considerarsi per il tratto di parecchi chilometri come un borgo, interrotto soltanto a piccoli tratti, tante sono le abitazioni che la fiancheggiano. Nei piani adiacenti sorgono fra la verzura dei campi vecchie e graziose chiesette che, se lo comportasse l’indole della nostra pubblicazione, meriterebbero tutte di essere illustrate per le loro storiche ricordanze, come per le opere d’arte che conservano. Colle chiese dovremmo pure ricordare le ville di remota costruzione nelle quali si svolse tanta parte della vita fastosa della società fiorentina.
Ma procediamo oltre e soffermiamoci appena al Ponte a Greve, una singolare costruzione del XIV secolo a tre grandi archi di pietra che nel serraglio portano gli stemmi della Repubblica, mentre un vaghissimo tabernacolo di stile ogivale s’inalza da una delle sue pile e racchiude un bel fresco de’ primi del XV secolo.
Poco lungi di qui, sulla riva stessa del fiume, che scende dalle alte poggiate del Chianti ricoperte di vigneti che producono in abbondanza i vini universalmente celebrati, è un fiorente villaggio di moderna origine, Scandicci, capoluogo di un vasto comune costituitosi coi territori di due delle 72 Leghe nelle quali era ripartito il contado fiorentino: Casellina e Torri. Oltrepassato il ponte, la via Pisana lascia alla sua sinistra un elegante e caratteristico castelletto, tuttora munito di due massicce torri, ornate di merli ghibellini: il castello di Calcherelli, chiamato più modernamente l'Acciajuolo, che fu dei Davizzi, la potente famiglia che ebbe in Firenze il severo palagio in Via Porta Rossa, passato dipoi nei Davanzati. Calcherelli, ch’è oggi una casa di fattoria, evoca il ricordo di un truce dramma che vi si svolse negli ultimi anni della libertà fiorentina. Neri di Piero Davizzi per odio contro la moglie che teneva quasi prigioniera in questo cupo maniero avito, le propinò il veleno, e siccome questo non agiva colla desiderata celerità, egli si rivolse a medici e poi ad un ciurmatore perchè gli dassero modo di raggiungere l’intento. Scoperto il delitto, il Davizzi fu condannato il 25 giugno del 1521 alla reclusione perpetua nei sotterranei del Maschio di Volterra; ma egli era nobile e potente, aveva altissime aderenze e poco tempo dopo potè ottenere che la pena gli fosse commutata nell’esilio da tutto il dominio fiorentino, al di là di cento miglia dai confini.
Una piccola catena di deliziose colline che divide le valli della Greve, del Vingone e della Pesa si spinge colle sue pendici verso i piani ubertosi e vi s’interseca come le volute e i meandri di una trina e su quei colli, parte ridotti a coltura, parte coperti tuttora da verdi boscaglie, sorgono leggiadri villaggi, quiete chiesette, deliziosi palazzi di villeggiatura.
Sopra ad una prominenza che domina il piano di Settimo, è la chiesa di S. Martino, alla Palma dipendente un giorno de' Cistercensi di Badia a Settimo. Adornamento maggiore di questa chiesa è un grandioso ciborio marmoreo che serve oggi per conservare l'olio santo. È un delizioso e gentile lavoro di scultura ornamentale del più bel quattrocento fiorentino e porta inciso nella gocciola il nome di Donatello. Che quella firma sia autentica non si potrebbe garantire; ma si può invece affermare senza esitanza che l’opera è degna della fama del sommo maestro fiorentino.
Attorno a S. Martino alla Palma sorgono numerose e belle ville signorili, fra le quali vanno specialmente ricordate quella detta La Loggia dei marchesi Torrigiani che conserva quasi intatta una sala nella quale Bernardino Poccetti con tutta la brillante leggiadria del suo colorito ritrasse il trionfo di Psiche, e la villa Antinori di Monte Aguglione che ricorda forse il luogo d’onde provenne quel Baldo, il Villan d'Aguglione, uno dei giudici che decretarono l’esilio dell’Alighieri.
Sulla vetta di un alto poggetto, un’altra villa, più modesta d’apparenza e dominata da una vecchia torre, ricorda il nome ed il luogo di n’antica rocca dei conti Cadolingi, Monte Cascioli. Quel castello, i cui signori davano molestia a’ passanti ed al ristretto territorio della Repubblica Fiorentina, dette ragione ad una delle primitive imprese guerresche delle milizie fiorentine, le quali nel 1113, preso d’assalto il molesto fortilizio, ne uccisero i difensori e ne smantellarono le mura.
Poco oltre, un grandioso edifizio che nel suo ampio prospetto rappresenta il tipo delle suntuose ville toscane del XVII secolo, apparisce a metà della pendice, in fondo ad un lungo ed ampio viale. E Castel Pulci, fortilizio un giorno di quella famiglia Pulci che dette alle lettere poeti gentili e che, dopo avere avuto in patria potenza grandissima, subì nelle lotte delle fazioni la sorte dei vinti. Il castello fu più tardi trasformato in palazzo, ricco di ogni comodità, dai marchesi Riccardi; oggi è una succursale del manicomio di Firenze.
Giù nella pianura, spicca colla sua massa grandiosa e severa la chiesa di S. Giuliano a Settimo, una delle pievi più antiche del territorio fiorentino. Di lei si hanno memorie fin dal secolo Vili, mentre nel campanile si legge tuttora la data 1143. Della primitiva struttura conserva soltanto i fianchi ed il tergo; ogni altra parte fu raffazzonata ne' tempi moderni. Delle opere che, scampate alla d’ispersione adornano ancora questa chiesa, la più interessante è un bassorilievo di terracotta colorita che il popolo chiama per antica consuetudine la Madonna dei fiori. La Vergine, animata da un soave sentimento di dolcezza, vedisi di mezza figura seduta in atto di ammirare con materna compiacenza il putto leggiadro che le sta in grembo. Attorno al bassorilievo, che ricorda il fare del Rossellino, è un festone scolpito in pietra. Di maggiore importanza per la sua antichità, per la sua storia, per le manifestazioni differenti all’arte che vi son riunite, è la
BADIA A SETTIMO
La storia di quest’antica abbazia ha il suo inizio dal 900 e le molti singolari vicende de] suo svolgimento si connettono di continuo colla storia generale della Repubblica Fiorentina. La sua costruzione gigantesca, che associa in un insieme meraviglioso i caratteri di un forte castello medievale toscano, colle tracce dell’architettura francese di tempi remoti e colle forme classiche e gentili del rinascimento fiorentino, la pone in prima linea fra gli edifizi monastici più preziosi della Toscana.
In fatto di opere d’arte poi, le spogliazioni continue, alle quali la Badia andò soggetta, sono state insufficienti a toglierle le tracce abbondanti del prezioso corredo di meravigliosi capolavori ond’era adorna.
Della Badia a Settimo le notizie più antiche sono del X secolo, giacché fu nel 908 che i Cadolingi conti di Borgonuovo e signori del vicino castello di Monte Cascioli la edificarono e la dotarono di cospicui beni. Il conte Guglielmo Bulgaro vi chiamò S. Giovanni Gualberto per la riforma dei monaci Benedettini e fu qui che nel 1068, secondo narra la tradizione, S. Pietro Igneo fece la famosa prova di attraversare il fuoco. Ai Benedettini successero nel 1236 i monaci Cistercensi che venuti di Francia riformarono il monastero e ne costrussero alcune parti nuove. Comincia da quest’epoca la grande importanza della Badia a Settimo, perchè i Cistercensi, non solo si occuparono delle pratiche ascetiche, ma dedicarono l’attività loro all'agricoltura e alle industrie e istituirono opifci e mulini sull’Arno e dettero grande impulso alla bonifica delle terre adiacenti.
La Repubblica Fiorentina tenne in tale estimazione codesti monaci, che affidò loro l'ammnistrazione del pubblico erario e quella del domestico andamento della Sigmoria, la soprintendenza della costruzione delle mura e dei castelli del contado, esentando il monastero dalle gabelle e dalle decime ecclesiastiiche. Tenendo poi conto della grande importanza militare del luogo dove la Badia era posta, vi fecero cotruire attorno solide mura e torri, mandandovi di presidio le sue milizie. Dal canto loro i Cistercensi ebbero cura di abbellire e d adornare la loro splendida sede ricostruendo la chiesa, riordinando il convento e decorandolo con mirabile sfarzo d’infinite opere d’arte.
Tanto splendore venne improvvisamente a cessare, allorquando questa, come le più ricche abbazie d’Italia, venne costituita in commenda e data a sfruttare a cardinali ed a prelati benaffetti della corte Romana. Eugenio IV concesse la Badia a Settimo al cardinale Domenico Capranica e dopo di lui ne furon commendatari tre altri celebri cardinali, fra i quali Ascanio Sforza. Così decadde affatto il monastero e quando nel 1782 vennero soppressi i Cistercensi, tutto il suo patrimonio era già stato disperso.
La Badia a Settimo ha la forma di un castello rettangolare cinto da solide mura, munite di ballatojo merlato e di torri. Una di queste torri difendeva l’accesso principale ed ha al disopra della porta una grande figura sedente del Salvatore, modellata a stucco da un artefice del XIV secolo. Nell’interno, attorno ad un gran chiostro jonico che si attribuisce a Filippo di Brunellesco, si distendono gli ampi e grandiosi edifici monastici, uno de’ quali conserva tuttora il suo caratteristico aspetto. È un ampio locale a tre navate coperte da vòlte che si svolgono sopra esili colonne adorne di capitelli nei quali si direbbero affratellati i tipi dell’arte francese e italiana. In origine se fu refettorio, o biblioteca, è difficile precisare; oggi è una modesta tinaja, dove il suolo rialzato di oltre un metro e mezzo nasconde parte delle svelte colonne.
La chiesa monastica è da un lato. Grandiosa, a tre navate, decorata all’esterno di ornamenti di laterizio di carattere ogivale, ha nella sua parte interna subito infinite alterazioni, delle quali una sola può essere accettata come un benefizio per l’arte.
È la tribuna maggiore di elegantissimo stile del rinascimento, con squisite decorazioni architettoniche e con un vaghissimo fregio di terracotta invetriata dei Della Robbia. Il nome di Filippo di Brunellesco si presenta immediatamente alla mente dell’osservatore di questa cappella che ha una strettissima analogia colla bellissima sagrestia di S. Felicita di Firenze. Sotto la chiesa è l’ampia cripta del XI secolo a grandi vòlte, sostenuta da colonne; ma ridotta sciaguratamente ad un serbatojo di acque che vi s’infiltrano continuamente, essendo l’attuale piano della Badia inferiore al livello ordinario delle magre del vicino Arno.
Degne della bellezza generale del fabbricato sono alcune sue parti originarie, come il piccolo refettorio, il quartiere dell’abate, l’esterna chiesa già parrocchiale Pagina:Il Valdarno da Firenze al mare.djvu/38 Pagina:Il Valdarno da Firenze al mare.djvu/39 Pagina:Il Valdarno da Firenze al mare.djvu/40 Pagina:Il Valdarno da Firenze al mare.djvu/41 Pagina:Il Valdarno da Firenze al mare.djvu/42 Pagina:Il Valdarno da Firenze al mare.djvu/43 Pagina:Il Valdarno da Firenze al mare.djvu/44 Pagina:Il Valdarno da Firenze al mare.djvu/45 Pagina:Il Valdarno da Firenze al mare.djvu/46 Pagina:Il Valdarno da Firenze al mare.djvu/47 Pagina:Il Valdarno da Firenze al mare.djvu/48