Il Re prega/II
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II.
Come il vescovo di Policastro accudiva al suo ovile.
Monsignore Laudisio era un vescovo secondo il cuore del re. Egli si preoccupava mediocremente di esserlo secondo lo spirito di Dio. Lo si era innalzato a quel posto per dargli una ricompensa. Monsignor Laudisio aveva denunziato parecchie migliaia di carbonari, snidati al confessionale nel tempo delle sue missioni evangeliche, quando era monaco nella congregazione di San Alfonso de Liguori. Lo si era installato come vescovo in una provincia, in una diocesi, le più infette di liberalismo, — il Cilento, — ed egli dominava nel vescovato di Policastro e Lauria.
Egli esercitava le funzioni apparenti di vescovo; le funzioni intime di alto commissario di polizia della provincia. Monsignore Laudisio corrispondeva poco punto col papa e col ministro del culto; quasi tutti i giorni col ministro della polizia. Egli aveva aperto, oltre a ciò, un grande ufficio di collocamento di sudditi fedeli al trono ed all’altare. Si dibatteva il prezzo direttamente con lui, il sant’uomo, perocchè egli era avaro come un prete soppannato di un vescovo, un vescovo foderato di un monaco. Egli non faceva punto mistero di questo traffico; all’occorrenza avrebbe trattato innanzi notaro! Si depositava al Banco, al suo indirizzo, il danaro convenuto qual prezzo del posto, e monsignore andava a pigliarselo quando le convenzioni verbalmente stipulate erano adempite. Egli riceveva molti regali di ogni sorta. Ma una gran parte di questi doni, bisogna pur confessarlo, pigliava la volta di Napoli onde intrattenere le piccole amicizie degl’impiegati e richiamarsi alla memoria dei ministri. Re Ferdinando gli dava del tu e gli baciava la mano. La regina austriaca orlava per lui dei moccichini di seta delle Indie e gli regalava del tabacco da naso. Egli raccontava storielle ai piccoli principi, e le piccole principesse giuocarellavano col suo berrettino e con la sua croce episcopale.
Monsignor Laudisio portava la sua dignità con un’aria di gendarme. Aveva il verbo alto, la voce un poco rauca a causa del suo lungo predicare. Ei declamava, anche dicendo un: come stai, figliuolo mio? Aveva i modi vivi, intermittenti, mostrandosi a volta a volta brusco od insinuante, secondo la convenienza, le disposizioni dell’animo, la natura dell’affare, il carattere e la condotta dell’individuo con cui trattava. Egli piaggiava anche talvolta. Nella collera poi ruggiva, dava calci, pugni, schiaffi; — ma in quest’ultimo caso aveva cura di voltare al di dentro l’amatista del suo anello episcopale, per imprimerla sul viso dell’infelice cui batteva.
Egli mangiava enormemente, grossolanamente, ma beveva con sobrietà. Non si obbliava che a disegno. Monsignor Laudisio camminava sollecito, dritto, capo alto, seminando le sue benedizioni a manate, a chi ne voleva e sopratutto a chi non ne voleva. Il suo aspetto magro e pallido era dotato di una grande mobilità, — ciò che aumentava la sua grande forza di mimo, la quale lo aveva fatto riescire nella sua parte di missionario. Egli spremeva delle gocciole dalla sua glandola lagrimale a volontà, anche dicendo: Il diavolo ti pigli, figliuolo benedetto! Non uno dei suoi capelli grigi era caduto. Aveva non di meno cinquantasei anni e quattro o cinque divote morte.... sul campo del confessionale. La sua giovialità lo lasciava di rado. Non provava alcun rimorso, e non aveva a sperar altro che di succedere al santo ubbriacone Gregorio XVI. Vi pensava? Chi lo sa? Monsignor Laudisio opinava che col danaro si può tutto osare; che con una croce episcopale sul petto, e l’assenza di coscienza nel petto si può tutto sperare, — dal triregno e l’aureola di santo ad un posto nell’alcova della regina. L’espressione della sua fisonomia rassomigliava alquanto a quella del becco, ma addolcita, starei per dire femminizzata dalla pallidezza del suo colorito, dal sorriso schernitore che la rischiarava costantemente. La sua bocca poteva mordere e baciare, bevere e piaggiare.
Monsignor Laudisio gettava il terrore fra i liberali della provincia; ma egli rendeva volontieri servigio agli amici del re e della fede — mediante pecunia. Egli dava ordini ai prefetti, alla gendarmeria, ai presidenti dei tribunali: si sarebbe detto che avesse ministri e re nella scarsella. Sapeva di tutto. Ed in realtà, sapeva molto: lettere e scienze come affari. Nessuno raccontava un aneddoto bernesco o lugubre al pari di lui: egli possedeva la vena della buffoneria al grado supremo. Onde è che bisognava vedere come le religiose dei conventi ammattivano per lui e come le gonne correvano dietro alla sottana violetta.
Con i liberali, con i filosofi, con i liberi pensatori cui non terrorizzava, con coloro che punto nol temevano o non avevan bisogno di lui, egli prendeva un’aria untuosa, melliflua, e dava ad intendere che, se il suo mestiere di vescovo gl’imponeva una certa condotta, il suo cuore era lontano dal giustificarla. Egli mi ha detto un giorno, a me che scrivo queste pagine: «Nessuno fa il carnefice di cuore gaio; io sono più italiano di voi!»
Egli utilizzava tutto. Gli uomini, i fatti, gli avvenimenti, le passioni, divenivano nelle sue mani delle pedine che l’aiutavano a giuocar la sua partita di scacchi. Egli scandagliava un’anima, pesava un uomo con uno sguardo. Guai a chi era più forte di lui, o poteva divenire un ostacolo! Egli si serviva di una calunnia, che poteva partorire una sentenza capitale, come di un agnus dei a dare ad una beghina. Però egli largiva gratis un’assoluzione in articulo mortis alla sua vittima, e si scomodava per andarla a confessare in persona ed accompagnarla al patibolo.
Tale era l’uomo che aveva fatto chiamare Don Diego Spani.
Don Diego si trovò al palazzo vescovile all’ora indicata. Monsignor Laudisio, da uomo che ha dell’ordine ed una buona memoria, era esatto.
E qui due osservazioni indispensabili per i lettori del 1872. Non bisogna paragonare il clero napolitano di quell’epoca col clero attuale e giudicarli come di un sol tipo. La specie è la stessa, differisce il genere. Non bisogna credere inoltre che io m’imbrigo a disegno nel clero e nella polizia per destare orrore. La società delle provincie dell’Italia meridionale di quei tempi sinistri era polizia e clero, o vittima di queste due instituzioni infernali. I Borboni di Napoli non hanno avuto del genio che nella polizia: Canosa, Intondi, Delcarretto, Picchineda, Mazza.... figuratevi il non plusultra del genere! Di qui la rivoluzione del 1848, poi il successo di Garibaldi sans coup férir!
Non appena il cameriere di monsignor Laudisio annunziò Don Diego, monsignore lo fece entrare. E’ terminava un dispaccio per il ministro dei lavori pubblici. Perocchè monsignore aveva assunto l’impresa di una strada, alla quale non si lavorava punto, e per la quale il consiglio d’intendenza faceva istanza che fosse terminata. Monsignore rosicava nel tempo stesso una tavoletta di cioccolatte e dava dei colpi di piedi ad una mezza dozzina di gatti che si stropicciavano alle sue calze violette.
Perchè i vescovi amano i gatti?
Monsignor Laudisio stese la sua mano al prete che la baciò, piegando il ginocchio, e lo lasciò in piedi senza dir motto. Don Diego potè contemplare così a suo comodo il grande disordine del gabinetto episcopale.
In una biblioteca, alcuni volumi rovesciati, collocati di traverso con dei segnuoli di carta, — dei libri di teologia, — poi la Storia della Chiesa di Fleury, il Codice del Regno, i Commentari sul Codice, di Tullier, le opere di S. Alfonso di Liguori, l'Orlando Innamorato di Berni, La Scienza e la Fede, giornale dei gesuiti, un volume di Walter Scott.... Dei fasci di carta occupavano le poche sedie del gabinetto; dei fascicoli in carta bollata, dei pezzi di minerali — ferro, marmo, rame — giacevano in ogni angolo. In uno spigolo una coppia di capponi legati ancora dai piedi ed otto di quei caciocavalli di Pollino che i ghiottoni napolitani trovano deliziosi. Li aveva ricevuti in dono proprio allora, e monsignore non aveva pensato di farli torre via prima di ammettere il prete alla sua udienza. Un Cristo in avorio, grassotto e panciuto, pendeva dal muro alle sue spalle, fiancheggiato da un’immagine di San Alfonso all’aria di un doppione in galloria, dall’altra il ritratto del marchese di Sora. A portata della sua mano una sferza. Perchè monsignore infliggeva personalmente la ferula ai seminaristi... per fare della ginnastica! Sur una tavola, una disciplina di missionario, un paio di manette da gendarme, un sacco di libercoli sul Cuore di Gesù. Poi, dei bei ricami per le sue cotte ed i suoi camici, una manata di medaglie del Cuore di Maria, un paio di speroni, — perchè monsignore cavalcava benissimo a traverso le montagne della sua diocesi. Poi ancora, sul suo tavolo, dispacci suggellati pel ministro della polizia. In faccia, i busti in gesso del re e della regina. Sopra uno sgabello a sinistra una tazza di porcellana per dare a bere del latte ai suoi gatti, delle zuccheriere, due zaini di pelle di capretto ripieni di piastre, un oggetto di toiletta, — che io non oso nominare benchè Molière ne parli sovente, — una mezza dozzina di tabacchiere in argento ed in vermiglio e molte cartacce. Il Codice del Contenzioso era aperto innanzi a lui.
Monsignore portava la sottana nera del suo ordine, la croce d’oro gittata dietro le spalle, la berretta piantata di traverso sulle tempie, un collare aperto al collo, lasciando intravedere un collo di camicia di servizio da parecchi giorni.
Quando si ebbe terminato il suo dispaccio, e che l’ebbe suggellato e collocato con gli altri, levò il capo e disse a Don Diego, poggiando i gomiti sul tavolo e congiungendo le mani sotto il suo mento:
— Don Diego, figlio mio, tu vai a confessarti con me.
— Vi domando perdono, monsignore, non sono preparato.
— Ah! fece monsignore Laudisio, un prete che terminò or ora di dir la messa e che non è preparato per confessarsi al suo vescovo?
Don Diego lo guardò raddrizzandosi e piegando le braccia sul petto. Monsignor Laudisio fissò egualmente i suoi occhi schernitori sul prete. Ambi si misurarono dalla testa ai piedi, si compresero.
— Monsignor reverendissimo, dimandò Don Diego, codesta confessione è dessa indispensabile?
— Dubiteresti tu dunque dell’efficacia di un sacramento? sclamò il vescovo.
— Il sacramento può esser buono, monsignore, ma le disposizioni del penitente e del confessore non altrettanto. Il padre Sanchez l’ha detto.
— I gesuiti, figliuolo mio, facci attenzione, non sono sempre finamente ortodossi.
— Vostra Eccellenza appartiene alla compagnia di S. Alfonso.
— Così dunque?
— Sta bene monsignore.
— Allora vatti a raccogliere per qualche minuto nella camera qui presso, mentre io scrivo due parole al procuratore generale di Potenza.
Don Diego obbedì. Però monsignore lo udì a passeggiare nella camera ove ei doveva darsi alla preghiera ed all’esame di coscienza.
— Quest’uomo è pericoloso, mormorò monsignore scrivendo la lettera.
Dieci minuti dopo chiamava Don Diego, che si mise in ginocchio e fece sembiante di confessarsi male o bene. Monsignore non l’interruppe punto ed ascoltò. Quando Don Diego ebbe cessato di parlare, monsignor Laudisio dimandò:
— Hai finito, figliuolo?
— Sì, monsignore.
— Tu non obblii nulla?
— Nulla.
— Tu non commetti dunque che dei peccatuzzi veniali, eh!
— Ve ne occorrono dei mortali, monsignore? osservò Don Diego impertinentemente.
— Va benissimo, figliuolo mio: alzati
— Voi non mi date dunque l’assoluzione, monsignore?
— E’ sarebbe uno sciupar le buone cose fuor di proposito. Tu non ne hai bisogno d’altronde.
Don Diego si levò.
— Ho voluto vedere, riprese monsignore cangiando tuono, fin dove si poteva spingere l’audacia del sacrilegio. L’ho visto.
— Prego Vostra Eccellenza Reverendissima di spiegarsi, disse Don Diego con calma, prendendo una sedia e sedendosi, con grande stupore del vescovo che lo aveva lasciato in piedi e l’avrebbe voluto a ginocchio.
— Io non ho che una parola a dirvi, a voi, Don Diego Spani, rispose il vescovo alzandosi: io v’interdico.
Don Diego non si mosse: restò assiso e chiese:
— Potrei pregare Vostra Eccellenza Reverendissima di darmi una ragione della severità di questo gastigo?
— Io non ho ragione a rendere dei miei atti che al re, al papa ed a Dio, rispose il vescovo.
— Nonpertanto, monsignore, quando si batte sì duramente, sì crudelmente, si deve pur dire perchè, — non fosse che per lasciar venire il pentimento.
— Voi non siete uomo da pentirvi, replicò il vescovo.
— Chi sa, monsignore? se io fossi veramente colpevole! Ma voi sapete che per codesta punizione inesplicabile ed illimitata, voi mi rovinate. La messa è il mio pane, — e non solamente il mio, ma quello della mia povera sorella.
— Ah! sclamò il vescovo con un piccolo sorriso che esprimeva un mondo di cose.
Don Diego vide il sorriso, comprese il pensiero del suo superiore, si alzò, si avanzò di un passo verso il prelato e gridò:
— Monsignore, spezzatemi quanto volete: il prete è la cosa del vescovo. Ma non un sorriso di più, simile a quello che venite di smorfiare, non una parola, non un pensiero, non un aspetto... io ve l’ordino in nome del mio cuore, in nome della mia dignità di uomo.
Monsignore squadrò Don Diego impassibilmente poi soggiunse, giocando sulle parole:
— Voi date degli ordini troppo presto, figlio mio: procurate dapprima di esser vescovo.
Don Diego cadde a ginocchio e congiungendo le mani supplicò:
— Ve ne scongiuro, monsignore, ditemi di che mi accusano.
— Voglio soddisfarti, figlio mio, disse il vescovo sedendo di nuovo. Eccolo: 1.° tu sei incredulo; 2.° tu sei carbonaro; 3.° tu hai delle relazioni incestuose con tua sorella.
Don Diego si alzò lentamente, e poggiando la mano sinistra sul lembo della tavola del vescovo, rispose:
— Se sono incredulo, ciò riguarda Iddio. Se sono carbonaro, ciò riguarda il re. Se avessi le relazioni infami che dite voi, ciò riguarderebbe l’onore della mia famiglia, mia sorella e me. Il mondo non ha potuto mai sorprendere alcuno di questi delitti nella persona mia.
— Il mondo, chi sa? Ma Dio?
— Dio mi giudicherà quando la sua volta arriverà, ed io saprò che rispondere. A voi, monsignore, non ho a dire che questo: calunnia, calunnia, calunnia!
Vi era nella voce di don Diego tale solennità, nella sua aria un tal sentimento di fierezza, di verità, di dolore, che il vescovo si sentì come strangolare. E’ stette in silenzio per qualche minuto affondando lo sguardo fisso nello sguardo immobile del prete.
— Calunnia! disse egli infine. Voi non siete dunque ateo?
— Monsignore, io sono prete.
— Voi non siete carbonaro?
— Monsignore, io obbedisco alle leggi dello Stato senza mormorare.
— E voi non amate vostra sorella?
— Io l’amo, monsignore. Mio padre era un povero sarto che andava in giornata, monsignore, e morì poco dopo la nascita di mia sorella. Mia madre guadagnava il nostro pane tessendo per la gente della comune. Ella morì di fatica lasciandomi sulle braccia una figliuolina di quattro anni. Mia sorella ha adesso diciassett’anni. Io ne ho quaranta. Io sono stato suo padre, il suo istitutore, la sua madre, la sua amica vera, monsignore, — ciò che le donne non incontrano mai. Io ho lavata, io ho coricata, io ho pettinata questa piccina. Io le ho insegnate le sue preghiere. Noi abbiamo pianto insieme. Noi abbiamo insieme digiunato quando non avevam pane. Io ho fatto la bisogna di casa in suo luogo, per risparmiare questo piccolo e gracile corpo. Io ho soppresso le mie camicie per comperarle una veste. Io ho sofferto la fame per nudrirla a seconda dei suoi bisogni. Io ho avuto il coraggio di sorridere, per non attristarla, quando il dolore e l’oltraggio mettevano a soqquadro l’anima mia. Breve, monsignore, questa figliuola è la mia anima. Il cielo non ha un cherubino più puro e più bello di Bambina.
Monsignor Laudisio aveva appoggiato il suo cubito sul braccio del seggiolone, il suo mento nella mano, ed ascoltava attentamente il prete, esaminando l’espressione illuminata di quella figura. Un’aria sarcastica svolazzava sul volto del vescovo.
— Tutti i preti della mia diocesi, disse infine il vescovo dopo un momento di silenzio, hanno delle ganze. I più onesti ne hanno due, — senza contare le cugine, le cognate, le religiose dei conventi. Io ho fatto tutto ciò che un vescovo, un ministro della polizia, un capitano di gendarmeria, un procuratore reale potevano fare per riformare questi infami costumi. Li ho interdetti. Li ho messi in prigione. Li ho relegati nei conventi a far penitenza. Li ho fatti mandare al bagno. Li ho ingiuriati dall’alto del trono della chiesa. Non sono riescito. Non mi resta che non aver più dei preti, se voglio averli morali. Un solo, in mezzo di questo branco immondo, si è preservato da ogni sozzura: voi!
— È vero, monsignore.
— Voi siete giovane, nondimeno, voi siete robusto. Le occasioni non vi sono mancate. Voi non avete nè cause, nè ragioni apparenti per condurvi differentemente degli altri.... Volete voi spiegarmi l’eccezione?
L’osservazione del vescovo era strana, ma profondamente giusta. Non si fa violenza alla natura quando le si può dare impunemente libero sfogo, quando non si è sotto l’imperio di una legge, di un bisogno; di una volontà superiore all’istinto. Laonde, Don Diego si trovò imbarazzato a rispondere.
— L’eccezione, monsignore, diss’egli infine dopo un istante di riflessione, tiene a delle cause moltiplici, — piccole cause forse, ma che, riunite in fascio, formano un ostacolo insormontabile, come i piccoli rami di vimini allacciati oppongono una diga all’innondamento del fiumi.
— Delle imagini! continuate.
— Ebbene, che so io? la miseria, le cure di casa mia, la mancanza di tutto, l’assenza delle tentazioni, la timidezza, l’assorbimento in altre occupazioni dello spirito, una fibra accasciata dal principio sotto il dominio della volontà, un altro corso dato all’attività della vita, un ideale qualunque che mi ha guidato per i cieli e mi ha fatto trovare la terra orribile e laida, quell’indomani che si sovrappone all’indomani per il compimento di un desiderio o di un disegno, l’isolamento, la stessa astinenza....
— E sopratutto, l’interruppe il vescovo con un sorriso ironico ed incredulo, perchè non si va al mercato a comperar delle pesche punticce quando se ne hanno delle così belle nel proprio verziere.
— Ah! sclamò don Diego d’un tuono freddo, abbassando la testa, incrociando le braccia sul petto.
— Un giorno, continuò il vescovo, un contadino spagnuolo ed un contadino Moro si presentarono all’arcivescovo di Toledo, il quale era altresì principe sovrano. I due villici si disputavano un cavallo, di cui entrambi si dicevano proprietari. Non testimoni da interrogare. Non giudizio di Dio per le armi, da tentare. Non documenti, che stabilissero la proprietà o il possesso, da consultare. Il Moro diceva: il cavallo è a me! Lo spagnuolo assicurava: No, esso è il mio! L’arcivescovo, a fine di spedirli, dette il giuramento sul vangelo ai due litiganti. Ambo giurarono. Se voi foste stato l’arcivescovo di Toledo, a chi avreste consegnato il cavallo?
— Anzi tutto, rispose don Diego io non avrei fatto giurare il Moro sul vangelo, ma sul Corano.
— L’arcivescovo non credeva al Corano; egli credeva al giuramento del cristiano sul vangelo.
— Allora?
— Allora, riprese monsignore con tuono altero e severo, io fo come l’arcivescovo di Toledo: io credo ciò che mi è stato attestato da un prete cattolico, realista, credente, piuttosto che la negativa sofistica di un carbonaro empio, e v’interdico per tutta la vita.
Don Diego restò come fulminato per alcuni minuti. Il viso di monsignor Laudisio, pallido di collera, esprimeva una determinazione irremovibile, i suoi occhi fiammeggiavano. Don Diego disfece allora lentamente il suo collare di prete, lo gettò a terra, vi pose su il piede e gridò:
— Voi lo volete, monsignore? ebbene sia pur così. Io era stato buono, puro, onesto. Io aveva sofferto la miseria con rassegnazione, vagheggiando il meglio, ma non mi movendo per realizzarlo, rispettando ciò che non credevo, subendo tutti i pregiudizi della società senza mormorare, senza violarli.... Voi mi fate sentire che fui un minchione. Voi mi spezzate prete: io mi rialzerò...
— Papa? interruppe monsignore ghignando.
— Monsignore, io conosco tal figliuolo di beccaio, il quale non seppe altro che la sua piccola teologia, ed ancora! Ebbene quel garzone si fe’ vescovo. Vostro padre, il beccaio, valeva bene, io mi penso, il mio che era sarto. Ed il figliuolo di quest’ultimo conosce ben altre cose che la teologia, e non rincula più davanti a nulla, nulla! per conquistare il suo posto al sole della vita. Addio, monsignore.
— A rivederci, figliuolo mio, soggiunse il vescovo profondamente ferito dall’allusione del prete, ma sorridendo. Per facilitarvi il cammino, vado di questo punto, a raccomandarvi al ministro della polizia.
— Monsignore, al disopra del ministro vi è il re.
— No, bimbo mio, al disotto, brontolò il vescovo scrollando la testa; il re non governa, prega.
Don Diego salutò ed uscì. Monsignor Laudisio lo fece chiamare. Don Diego ritornò.
— Ascoltate, disse Monsignore, io non voglio spezzare la zattera sotto i piedi un naufrago senza offrirgli una tavola. Codesta tavola, eccola qui. Voi siete stato carbonaro. Voi siete adesso mazziniano ed unitario. Voi sapete molte cose. Voi conoscete gli uomini ed i progetti. Volete rendere servizio al re, alla chiesa, al vostro paese?
— Ed a voi, monsignore!
— Io fo il mio dovere, rispose il vescovo alteramente: io adempio l’articolo 19 del Concordato del 1818 che fa dei vescovi dei guardiani dell’ordine pubblico.
— Monsignore, voi mi dimandate lì il vostro cappello di cardinale. Io ve lo rifiuto. Grazie dell’infame tentazione. Se io dovessi giammai divenire un Giuda, io non farei mai come quel povero calunniato di Galilea cui dicon venduto per trenta denari.
Don Diego, partì senza salutare.
Entrando in casa, egli era stravolto. Cadde affranto sur una sedia, la testa piegata sul petto, le braccia penzoloni. Vedendolo entrare, col sembiante così decomposto, Bambina divenne scialba come raggio di luna. Di uno slancio, ella saltò sulle ginocchia del fratello e cingendo delle sue braccia le testa fulminata del povero prete, se l’attirò sul petto.
— Di’, che hai tu dunque, fratello, gridò dessa con voce lacerante.
— Tutto è perduto, povera ragazza mia, rispose Don Diego: il pane e l’onore.