Il Re dell'Aria/Parte prima/9. La gaida degli Hoolygani

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CAPITOLO IX.

La “Gaida„ degli Hoolygani.

La gaida degli Hoolygani è la più potente società di ladri che esista non solo in Pietroburgo, ma bensì in tutta la Russia, poichè conta migliaia e migliaia di soci, in massima parte evasi dalle galere russe o dalle miniere siberiane.

Per essere ascritti a quella triste società bisogna essere individui scaltri, esperti in tutte le male arti, ladri audacissimi, pronti sempre a maneggiare il coltello o la pistola, abilissimi nei trucchi e nei travestimenti, intelligenti nella preparazione dei colpi ed assolutamente fedeli al capo dell’associazione.

I timidi, gli onesti sono recisamente scartati: è necessario, prima d’inscriversi, avere un passato, condanne marcate sulla fedina criminale, poichè quella potente lega non accoglie fra le sue fila che gli ultimi e più spregevoli rifiuti della società, dall’assassino che ha scannato freddamente un povero viandante per derubarlo, al volgare ladruncolo.

Fra quelle falangi si trovano persone d’ogni ceto, non essendo solamente gli evasi dalle galere imperiali che le formano: vi si trovano dei rifugiati, dei profughi della società, degli spostati, dei viveurs caduti nella più squallida miseria, dopo d’aver divorato terre e palazzi e gettato magari nel fango l’onore delle spalline e della spada, impiegati scacciati per corruzioni, soprusi e prevaricazioni, ladri di professione, usciti dall’infima plebe, mendicanti per burla, degenerati per alcoolismo, assassini e briganti sfuggiti alla giustizia umana; figure losche e sinistre, pronte a rubare e ad uccidere, strette tutte in un sudicio ed immenso gruppo, come i camorristi napoletani e siciliani, e diretti dalla criminosa volontà del loro capo.

Non è raro il caso che i poliziotti, incaricati di sorvegliare quelle pericolose falangi, vi trovino dei loro antichi compagni, dei vecchi complici, scacciati dal corpo in seguito ad un’infinita serie di birbonate.

Le amicizie però sono così salde in Russia, che gli ex-agenti inscritti [p. 100 modifica] fra gli Hoolygani non corrono nessun pericolo di venire denunciati dai loro vecchi colleghi, per spirito di passato cameratismo e per avidità anche di denaro, perchè una parte dei bottini passano pure nelle loro mani, onde impedire una troppo feroce persecuzione.

Invece quelli che, essendo una volta ascritti alla gaida, passano fra le file dei poliziotti, non possono sperare di godere lunga vita.

Gli Hoolygani su ciò sono inflessibili. Il traditore, presto o tardi, durante una notte nebbiosa, cade sotto un colpo di rivoltella o d’un colpo di boxe d’acciaio, maneggiato da una mano sicura e formidabile.

In generale, quantunque questo non faccia troppo onore alla polizia russa, agenti ed ex-agenti se la intendono benissimo, e forse è in seguito a ciò che la gaida ha potuto svilupparsi terribilmente nella capitale russa e continuare tranquillamente i suoi affari.

La gaida ha parecchie succursali, composte queste, per la maggior parte, di donne uscite dai bassifondi di Pietroburgo, che aiutano validamente gli Hoolygani maschi, sia introducendosi come domestiche nelle grandi case, sia adescando qualche ricco personaggio per strappargli, dopo averlo per bene ubbriacato, informazioni preziose, che sono necessarie al capo ed ai suoi consiglieri per preparare qualche grosso colpo.

Le domestiche non rimangono al servizio che poche settimane, cioè quanto basta per avere il piano della casa da consegnare agli Hoolygani maschi e conoscere il luogo ove il padrone cela la sua cassaforte, poi si squagliano e non si lasciano, si capisce, più vedere.

Quelle miserabili, che sono di solito bene stipendiate dalla società, talvolta vestono come grandi dame e frequentano i bars di lusso per raccogliere informazioni che, in altro modo, non potrebbero avere.

La gaida è perfettamente organizzata ed un vero codice regola i rapporti fra i soci ed il loro possente capo.

Tutti obbediscono ciecamente al re della grande camorra, e non si osano discutere, per nessun motivo, gli ordini che ricevono. Se lo facessero non uscirebbero vivi dalla Tractir Uglitch, che è la sede notturna della società.

I furti che gli Hoolygani commettono, con un’audacia incredibile, sono infiniti. Quei furfanti non indietreggiano dinanzi ad alcuna difficoltà e compiono temerarie aggressioni anche nei luoghi più frequentati.

Sovente si travestono, con abilità teatrale, perfino da poliziotti, da ufficiali dell’esercito e uccidono indifferentemente un ragazzo, [p. 101 modifica] una donna od un vecchio impotente, se la buona riuscita del colpo lo esige.

Il capo riceve tutto il bottino ricavato da quelle sinistre spedizioni e solo lui ha il diritto di fare le parti. È però legato da obblighi imprescindibili verso gli associati: deve, innanzi tutto, mantenerli sempre, vadano gli affari male o bene, e far ottenere loro, nelle innumerevoli bettole della capitale, a credito, il vitto necessario, se l’associato non ha più il becco di un quattrino.

Le infrazioni, poco frequenti però, come abbiamo già accennato, sono punite rigorosamente colla morte. Chi si è inscritto fra gli Hoolygani non può più uscirne se non dopo morto, poiché i loro compagni hanno troppo paura delle delazioni.

Così quella strana e pericolosa società si è affermata potentemente, e continua, oggi più che mai, a terrorizzare i buoni e tranquilli pietroburghesi.

La polizia non si occupa gran che di dare la caccia a quei formidabili banditi, anche perché una gran parte dei funzionari ne ricava vantaggi finanziari.

Quando gli Hoolygani fanno qualche grosso colpo a danno di qualche influente personaggio, che può efficacemente far valere i suoi diritti per la carica che occupa, la polizia allora solamente si muove, e riesce quasi sempre a scoprire il ladro ed a ricuperare anche la refurtiva, ma dei furti commessi a danno dei borghesi e dei negozianti non si affanna affatto. La denuncia viene messa a dormire negli archivi e non se ne parla più.

Gli Hoolygani hanno però anche essi dei nemici in altre gaide meno numerose e meno organizzate e conflitti sanguinosi macchiano spesso di sangue le strette e luride vie dei quartieri popolari.

Altre volte è nelle più infime bettole che avvengono delle vere battaglie fra i ladri delle diverse gaide e le strette e sporche pareti soffocano le detonazioni delle rivoltelle ed i gemiti lunghi e strazianti delle vittime.

· · · · · · · · · · ·

L’atman, ossia il capo degli Hoolygani, dopo essersi presentato, aveva fatto cenno ai nuovi arrivati di accomodarsi intorno alla tavola.

Un garzone dell’albergo, che fino allora aveva sonnecchiato in un angolo, aveva già portati via i vasi contenenti la votka e le tazze.

Vi fu, fra tutti quegli uomini, un silenzio piuttosto lungo. [p. 102 modifica]

L’atman, coi suoi occhietti grigi e che avevano il lampo dell’acciaio, come se volesse, prima di parlare, ben convincersi di non aver dinanzi qualche agente di polizia, osservava attentamente tutti, uno ad uno.

Fu Fedoro che ruppe finalmente il silenzio.

— Queste, — disse, indicando Wassili e Boris, — sono le persone di cui vi ho parlato e che furono accusate, oltre ad appartenere ad un circolo nichilista, di essere anche ascritte alla vostra gaida.

Uno è un ingegnere; suo fratello, un anno fa, era comandante della corazzata la Pobieda. —

Il bandito fece un profondo inchino.

— Li avete mai veduti, questi signori, militare nelle vostre file? — chiese Rokoff.

— Mai! Noi non abbiamo avuto che l’onore di contare fra i nostri membri Savin, ex-ufficiale della guardia, una vera intelligenza1.

— Dunque sono stati condannati ingiustamente, — disse Fedoro.

— Almeno in ciò che riguarda l’accusa di essere stati affiliati alla mia gaida, — rispose l’atman. — Il miserabile, però, che ha osato far passare questi gentiluomini per Hoolygani pagherà il conto. Io vi avevo promesso d’interessarmi di questo affare ed ho mantenuto la promessa. Durante la vostra assenza ho avuto delle preziose informazioni da Olga.

— Olga! Chi è costei?

— Una ragazza intelligentissima e che alla sua bellezza aggiunge una furberia straordinaria. È a lei che devo tutto.

— Sarà largamente ricompensata, — disse il capitano dello Sparviero.

L’atman degli Hoolygani aggrottò la fronte, poi disse con un certo sussiego:

— Noi siamo dei ladri, questo è vero, ma quando si tratta di rendere giustizia sappiamo essere onesti. I vostri amici hanno sofferto la galera, per colpa degli Hoolygani, sia pure involontariamente; tocca ora agli Hoolygani di vendicarli, senza esigere compenso di sorta. [p. 103 modifica]

E poi Olga è un’affiliata; è la cassa della gaida che pagherà i suoi disturbi.

— Accetterà almeno un regalo, — disse Wassili.

— Questo riguarda voi e lei: la gaida non deve entrarvi.

— Allora diteci quanto avete saputo sul nostro affare, — disse Boris.

L’atman, prima di rispondere, si volse verso il garzone dell’albergo, dicendogli:

— Servi a questi signori dello champagne e bada che sia della marca migliore se non vuoi che faccia tagliare gli orecchi al tuo padrone. —

Ciò detto estrasse uno splendido portasigari d’oro massiccio con cifre in brillanti, certo di provenienza furtiva, trasse un grosso sigaro, un avana autentico e l’accese, gettando in aria tre o quattro boccate di fumo profumato.

— Ecco come stanno le cose, signori miei, — disse poi, socchiudendo gli occhi. — Quel tal barone di Teriosky, da sei settimane è scomparso da Pietroburgo, dopo d’aver congedata tutta la sua servitù, nè finora abbiamo potuto sapere verso quali lidi abbia spiegate le vele.

— Scomparso! — esclamò Boris, diventando pallidissimo. — Solo o con una fanciulla?

— Abbiamo saputo che si è imbarcato a Riga, su uno dei suoi transatlantici, conducendo con sè una bellissima fanciulla.

— Si sa chi fosse? — chiese Boris a cui il cuore batteva forte.

— Si dice che fosse la figlia... sarebbe per caso la vostra? Suo padre era un uomo di mare appartenente alla marina russa da guerra, — rispose l'atman della gaida.

L’ex-comandante della Pobieda si passò sulla fronte madida di sudore un fazzoletto, poi disse, facendo uno sforzo supremo, per dominare il suo dolore:

— Continuate.

— Per dove sia partito, finora, non sono riuscito a saperlo, quantunque abbia lanciato sulle tracce di quel barone i miei più intelligenti affiliati.

Tuttavia io non dispero ancora. Il suo intendente non ha ancora parlato, neppure Olga è riuscita, fra una bottiglia di Champagne e di Tokay, a strappargli qualche cosa.

Quell’uomo era il confidente del barone e molto deve sapere. Si [p. 104 modifica] tratta solo di fargli una visita e di ricorrere ai grandi mezzi. Se voi tardavate a venire, avevo già deciso di andarlo a scovare io.

— Dove abita? Nel palazzo del barone? — chiese Fedoro.

— No, signore; dopo la partenza del barone si è ritirato in uno splendido padiglione che sorge in mezzo al giardino.

— Vive solo?

— Di notte non ha che un vecchio servitore, — rispose l’atman. — Oh!... Non ci darà troppo fastidio quell’uomo. —

Trasse di tasca un orologio e guardò:

— Sono appena suonate le dodici, — disse poi. — Abbiamo quindi ancora un’ora di tempo, poichè Olga ha promesso di recarsi dall’intendente del barone fra l’una e l’una e mezza. Signori, avete delle slitte con voi?

— No, — rispose Fedoro.

— Penserò io a farne venire. Ne teniamo sempre parecchie pronte per le nostre spedizioni e filano, ve lo dico io, perchè ci tengo ad avere buoni cavalli. —

Con un cenno chiamò il garzone.

— Fra mezz’ora che siano pronte quattro troike, — disse. — Le migliori e le più veloci, mi hai capito?

— Sì, atman.

— Che cosa fa Olga?

— Beve dello champagne con Demitri.

— Falla venire subito e manda Demitri a dormire. Non ho bisogno di lui questa notte.

— Va bene, atman. —

Il capo della gaida riaccese il sigaro, che aveva lasciato spegnere, poi vuotò un bicchiere a lenti sorsi, facendo grillettare il liquido spumante fra i denti, per meglio assaporarlo.

Aveva appena deposto il calice, quando una porta della vasta sala si aprì ed una fanciulla entrò, leggera come un uccello, avvicinandosi rapidamente alla tavola e facendo echeggiare uno scoppio di risa argentine.

Era Olga.

Tutti, eccettuato l’atman, non avevano potuto frenare un gesto di meraviglia. Avevano dinanzi una bellissima ragazza, con una folta chioma bionda, che le cadeva, in pittoresco disordine, sulla giacca di velluto rosso adorna di grossi alamari d’argento e di grossi bottoni d’egual metallo. [p. 105 modifica]

I suoi occhi erano d’un azzurro cupo, profondi come l’acqua degli oceani ed iridiscenti, il suo nasino un po’ impertinente, la sua boccuccia bellissima, con labbra rosse come corallo e dentini d’uno splendore perlaceo, la sua pelle d’una bianchezza così abbagliante da gareggiare colla neve delle immense pianure russe.

Quantunque non potesse contare più di diciassette o diciotto anni, si scorgevano già su quel bel viso le tracce d’una precoce vecchiaia, provocata certamente dalle orgie incessanti a cui la costringevano i membri della gaida.

— Buona sera, atman; buona sera, signori, — disse, facendo un grazioso e civettuolo inchino.

— Siedi, — disse il capo.

— Ho sete.

— Bevi. —

La ragazza prese una tazza colma di champagne e la vuotò d’un fiato.

— Ah! Questo è migliore di quello che mi ha offerto Demitri, — disse. — Quello non sa scegliere le buone bottiglie.

— Taci e rispondi solamente alle mie domande, — disse l’atman, ruvidamente. — Noi non ci siamo qui radunati per ascoltare le tue sciocchezze. —

Olga si sedette, guardando cogli occhi bene aperti e col capo graziosamente piegato su una spalla, con un certo fare provocante, ad uno ad uno gli sconosciuti che stavano attorno alla tavola.

— L’intendente del barone ti aspetta?...

— Dall’una alle due, atman, — rispose la ragazza. — L’avevo avvertito che avevo un impegno.

— Quando vai a trovarlo è sempre ubbriaco?

— Come un bojardo.

— Tu non conosci ancora i bojardi per dare un tale giudizio. Forse un giorno arriverai a pescare anche qualcuno di quelli. Vi è un solo servo nel padiglione, è vero?

— E anche vecchio, atman. È quello che ci porta sempre le bottiglie di champagne.

— Racconta a questi signori, mia brava figliuola, quanto hai potuto strappare all’intendente del barone, durante le sue sbornie.

— Io ho fatto il possibile per farlo chiacchierare sull’affare di cui tu mi hai incaricata, atman, — rispose la ragazza, diventata improvvisamente seria, — ma quel signor Stossel ha la brutta abitudine di [p. 106 modifica] bere troppo e quando è pieno di votka e di champagne il suo cervello si annebbia maledettamente e la sua lingua s’ingrossa a tal punto che certe volte non riesco più a capirlo.

— Tira innanzi presto, figliuola, — disse il capo della gaida, facendo un gesto d’impazienza. — Noi non abbiamo tempo da perdere.

— Dammi allora da bere se vuoi che la mia lingua prenda maggior elasticità.

— Tu hai un brutto vizio, fanciulla.

— Tu sai meglio di me, atman, che lo champagne piace più alle donne russe che alle francesi.

— Bevi e tira innanzi. —

Olga si riempì la coppa e, come prima, la vuotò d’un colpo, facendo schioccare la lingua con visibile soddisfazione.

— Prosegui, — disse l’atman con voce imperiosa.

— Egli mi ha adunque narrato che il suo padrone, il barone di Teriosky, è partito per un lungo viaggio con una giovane bellissima, figlia d’un alto personaggio, della quale si era pazzamente innamorato e che aveva fatto violentemente rapire dai suoi servi.

— Sapresti dirmi dove l’ha condotta? — chiese Boris il cui viso era spaventosamente alterato.

— Questo non volle dirmelo mai, per quanto avessi insistito. Anche ubbriaco quel dannato uomo non ha voluto tradire il segreto del suo padrone, — rispose Olga. — Ho potuto solamente sapere da lui che quella fanciulla era figlia d’un uomo di mare, che il suo padrone aveva fatto esiliare in non so più quale penitenziario della Siberia orientale.

— A Sakalin, — disse Boris.

— Sì, io ho udito pronunciare questo nome.

— E poi? — chiese Wassili il quale appariva estremamente commosso per l’intenso dolore che traspariva dal viso del suo disgraziato fratello.

— Una sera che era più ubbriaco del solito mi confessò, vantandosene, di essere stato lui a nascondere nel palazzo del padre di quella fanciulla, dei documenti compromettenti, falsificati da non so quale furfante, e di avere poi avvertito la polizia.

— Chi? L’intendente del barone!... — esclamò Boris balzando in piedi.

— Sì, mio signore.

— E quel miserabile che ha rovinato due oneste persone, me e mio fratello, vive ancora!... [p. 107 modifica]

— Per quanto ancora, signore? — disse il capo della gaida. — Gli Hoolygani si sono impegnati di vendicarvi e presto vi mostreremo come noi, quantunque ladri e furfanti, puniamo i malvagi che sono peggiori di noi.

Hai da dire altro, figliola mia?

— Che Stossel mi aspetta fra la una e le due, come ti ho già detto, essendosi recato stamane fuori di Pietroburgo.

— Ci condurrai da lui.

— Vuoi ucciderlo?

— Ciò riguarda me, capo supremo della gaida e non te.

L’ameresti forse? —

La ragazza alzò le spalle e rise cinicamente.

— Io sono ascritta alla gaida, — disse poi. — Le appartengo tutta.

— Ecco una risposta prudente, — disse l’atman, che aveva corrugata la fronte. — Gli Hoolygani hanno la mano sempre pronta per punire coloro che non obbediscono agli ordini del Consiglio. —

Si volse verso il garzone, che stava sempre ritto dietro la sedia del terribile capo, chiedendogli:

— Sono pronte le slitte?

— Sì, atman.

— È stato disposto intorno all’albergo un servizio di sorveglianza? Non desidero che la polizia m’importuni questa notte.

— Tutti sono al loro posto.

— Che una slitta montata da quattro dei nostri e guidata da Pugno di ferro ci preceda e sbarazzi la via in caso di pericolo.

Voglio essere completamente libero. —

Il garzone, che doveva avere una paura indiavolata del capo dei ladri, scomparve per far eseguire gli ordini.

— Signori, — disse allora l'atman, — possiamo partire. Il palazzo del barone è piuttosto lontano e mancano solamente venti minuti all’una.

Siete tutti armati?

— Tutti, — rispose Ranzoff, — e anche decisi a far uso delle nostre rivoltelle e dei nostri pugnali. —

L’atman gettò via il mozzicone di sigaro, diede fondo alla sua tazza e condusse Ranzoff ed i suoi compagni nel cortile dell’albergo.

Quattro troike, coi fanali accesi, tirate ognuna da tre vigorosi cavalli e guidate da cocchieri di statura gigantesca, aspettavano. [p. 108 modifica]

L’atman salì sulla prima con Boris e Olga, gli altri presero posto in quelle che seguivano.

— È già partito Pugno di ferro? — chiese il capo al cocchiere.

— Un minuto fa, — rispose il colosso.

— Allenta le briglie. —

Il portone del cortile era stato aperto.

Le fruste scoppiettarono e le troike partirono a corsa sfrenata, tuffandosi nel nebbione che era diventato, nel frattempo, più fitto che mai. Dinanzi, a non molta distanza, si udiva il galoppo di altri cavalli. Era la slitta guidata da Pugno di ferro e montata da quattro Hoolygani incaricati di servire da staffetta e di aprire la via alle troike.

— Sono curioso di sapere come finirà questa strana avventura, — disse Ranzoff, il quale si trovava insieme a Wassili ed a Boris. — Non avrei mai creduto di poter avvicinare questa formidabile banda di ladri e di assassini.

— Eppure, mio caro Ranzoff, — rispose l’ingegnere, — questi furfanti ci daranno il bandolo dell’arruffata matassa e solamente per mezzo loro potremo sapere qualche cosa.

— Non sospettavo, nemmeno lontanamente, che fossero così perfettamente organizzati. Avevo udito parlare vagamente di questi Hoolygani senza annettervi grande importanza.

— Mentre invece sono più potenti della polizia segreta russa.

— Lo vedo io. Mi stupisce però una cosa.

— Quale?

— Che questi furfanti abbiano un fondo, diremo così, d’onestà.

— Perchè si sono interessati della nostra sorte?

— Sì, Wassili.

— Tutti i birbanti hanno il loro punto debole. Ci hanno accusato di far parte della società degli Hoolygani ed essi ci tengono a dimostrare che non arruolano nelle loro file delle persone oneste e così ci vendicano.

— Non vorrei però trovarmi nei panni dell’intendente del barone.

— E nemmeno io, perchè scommetterei mille rupie contro un solo kopek che quel disgraziato domani non sarà più vivo, nè che berrà più lo champagne del suo padrone.

— Signor Ranzoff, — disse in quel momento Boris, che fino allora era rimasto silenzioso, assorto nel suo intenso dolore. — Che cosa faremo poi?

— La guerra al barone, signor Boris, — rispose il capitano dello [p. 109 modifica] Sparviero con voce tranquilla. — Egli ha rovinato voi, vi ha spogliati dei vostri beni, vi ha rapita la figlia e nipote e noi rovineremo lui e non cesseremo, finchè quella fanciulla non ritornerà fra le vostre braccia.

Quale nave potrà gareggiare colla mia macchina volante? Chi potrà assalirla o cannoneggiarla a cinquemila ed a diecimila metri d’altezza? Chi potremo noi temere? Dovunque la bandiera dei Teriosky sventolerà, noi affonderemo in mare dei milioni.

È la fanciulla che mi preoccupa. Dove l’avrà condotta quel furfante? Su quale nave l’ha imbarcata? Tuttavia non dispero, signor Boris.

Forse dall’intendente sapremo qualche cosa. —

Mentre chiacchieravano, le troike divoravano la via, fendendo il nebbione intensissimo che la Neva lanciava in tutte le direzioni, a grandi ondate.

I velocissimi veicoli seguivano ora la riva destra del fiume, dirigendosi verso le isole che sorgono verso la foce e dove si trovavano le villeggiature dei bojardi russi.

Giunti ad un certo punto, si inoltrarono sulla superficie gelata della Neva, attraversandola. I giganteschi cocchieri trattenevano a gran fatica i cavalli, i quali pareva che avessero il fuoco nelle vene.

Ad un tratto quella corsa vertiginosa cessò quasi bruscamente, dinanzi ad un imponente palazzo che si ergeva in mezzo ad un folto boschetto di pini e di betulle.

L’atman era subito disceso, aiutando Olga.

— È qui, è vero?

— Sì — rispose la ragazza, che batteva i denti per l’intenso freddo. — Ah! Come desidererei una buona pelliccia ed un allegro fuoco.

— L’avrai presto, — rispose il capo della gaida, — l’una e l’altro. Come fai ad entrare?

— Vieni con me, atman.

— Chi viene ad aprirti?

— Il servo.

— Dov’è Pugno di ferro? —

Da una slitta, che si era fermata a breve distanza, discese un uomo di statura gigantesca.

— Eccomi, capo, — rispose. — Ti aspettavo.

— Sono pronti i tuoi uomini?

— Sempre. [p. 110 modifica]

— Armati?

— Non sarebbe necessario chiederlo, — rispose il gigante.

— Devi impadronirti d’un uomo.

— E ucciderlo con un coup de poing americain?

— Niente affatto. Quel povero diavolo non avrà probabilmente mai fatto male a nessuno, specialmente alla gaida, quindi non merita di provare la pesantezza e la robustezza del tuo pugno e del tuo braccio, bruto. Io non voglio altro che sia imbavagliato e legato.

Non è quello che deve pagare il conto.

Tutti a terra! —

Gli Hoolygani della slitta, i marinai dello Sparviero ed i loro capi balzarono in mezzo alla neve, impugnando le rivoltelle.

— Guidaci, — disse l’atman a Olga.

La ragazza raccolse la sua sottana di velluto rosso per non bagnarla troppo, immerse i suoi alti stivaletti di marocchino pure rosso nella neve e seguì la cancellata che si stendeva dinanzi al grandioso palazzo di pietra.

Giunta dinanzi ad una porticina di ferro, che doveva mettere nel giardino, alzò colla mano inguantata un pesante martello di bronzo, poi lo lasciò cadere bruscamente con un rimbombo sonoro.

— State attenti a seguirmi, — disse. — Io terrò la porta aperta.

— A te pel primo, Pugno di ferro, — disse l’atman. — Bada che l’uomo che viene ad aprirci non abbia il tempo di mandare un grido.

— Sì, padrone, — rispose il gigante, mettendosi dietro alla ragazza. — Sono già abituato a questi colpi.

— Zitto, — disse Olga. — Il servo si avvicina.



Note

  1. Questo Savin fu uno dei più famosi avventurieri russi: Ladro a Pietroburgo prima, poi a Vienna, dove, arrestato, riesce a scappare, rompendo una gamba ad una guardia; ladro a Napoli dove rubò le carte al principe di Lantrac moribondo, delle quali se ne serve a Parigi per sposare una gentildonna francese, finì poi in America, truffando in tutti i modi possibili perfino i furbi e sospettosi yankee.