Il Re dell'Aria/Parte prima/8. I misteri di Pietroburgo
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Parte prima - 7. Il Re dell'Aria | Parte prima - 9. La gaida degli Hoolygani | ► |
CAPITOLO VIII.
I misteri di Pietroburgo.
Sette giorni dopo la sua partenza dalla Sakaline, dopo d’aver attraversata, colla velocità d’una rondine o di un piccione viaggiatore tutta la Siberia e la Russia settentrionale, l’aereo-treno si librava sopra Pietroburgo.
Era una notte freddissima e nebbiosa, eppure, attraverso quel fitto strato di vapori, filtrava una strana luminosità prodotta dalle migliaia e migliaia di fanali a gaz e a luce elettrica, illuminanti le interminabili arterie della capitale russa e le superbe passeggiate lungo la Neva e lungo le tre linee di canali concentrici derivati dal gelido fiume.
Lo Sparviero seguiva, malgrado il nebbione, con una precisione matematica, la Prospettiva Nevsky, la larga e magnifica via che toglie il suo nome dal monastero da cui ha origine di Sant’Alessandro Nevsky, bellissimo santuario consacrato alle reliquie dell’eroe nazionale e che oggi serve di sepolcreto alle famiglie più aristocratiche di Pietroburgo.
Due linee di fanali, che apparivano come due nastri di fuoco, prolungantisi per tre chilometri, fino ai grandiosi fabbricati dell’Ammiragliato, mascheranti la Neva, indicavano al capitano dello Sparviero la via che doveva tenere.
Attraverso il nebbione, rotto di quando in quando da lampi strani, lanciati dai poderosi fanali di quelle strette slitte senza schienale, chiamate dai russi egoisti, trascinate da vigorosi cavalli lanciati a corsa sfrenata, salivano mille fragori: colpi di frusta, galoppare di animali, grida umane mescolate al rombo sinistro delle acque della Neva non ancora interamente gelate.
Il capitano, l’ex-comandante della Pobieda e Wassili, curvi sul parapetto di prora, seguivano attentamente quella linea che fiammeggiava al di sotto della nebbia, ora lucidissima ed ora opaca.
Una profonda emozione pareva che si fosse impadronita dei due fratelli. Ranzoff invece conservava una impassibilità meravigliosa.
Lo Sparviero, reso invisibile dai fitti vapori, s’avanzava sempre lentamente, guidato da Liwitz e da uno dei cinque marinai. Non producendo alcun rumore, ed avendo tutti i fanali spenti, nessuno poteva accorgersi della sua presenza. A un tratto quella striscia doppia di luce scomparve quasi bruscamente.
— Ci siamo, — disse Ranzoff, indicando un gruppo di fiammelle che brillavano lontane. — Quello è l’albergo di Dvor, dove troveremo il capitano Rokoff ed il suo inseparabile amico.
Sono appena le undici e prima di mezzanotte non lo lasceranno: questa è la parola d’ordine.
Liwitz, fa preparare una scala di corda. Siamo sopra uno degli isolotti della Neva e caleremo in uno dei suoi boschetti.
Le troike non passano qui sotto.
— I vostri ordini prima, signore, — chiese il fedele macchinista.
— Hai mai contemplato dall’alto il lago Ladoga?
— Mai, signore.
— Ci sono dei salmoni splendidi e anche delle superbe trote che valgono quelle famose che noi abbiamo pescato nel Carakurum e che hanno fatto tanto stupire quel bravo signor Rokoff, — rispose il capitano, ridendo. — Te le ricordi?
— Sì, signore.
— Ti piace la pesca!
— Molto.
— Va dunque a nascondere il nostro Sparviero in mezzo ad una di quelle pinete e dedicati esclusivamente alla pesca.
Ogni sera, alla mezzanotte, tu seguirai, a grande altezza, la via che ci sta sotto e che tu, antico abitante della capitale, conosci forse meglio di me.
— La Newsky mi è famigliare, signore.
— Benissimo: quando tu vedrai innalzarsi nell’aria da uno dei boschetti che la fiancheggiano tre razzi: uno bianco, uno azzurro ed uno verde, scenderai senza alcun timore collo Sparviero e ci raccoglierai.
Mi hai capito bene?
— Perfettamente, signore.
— Fa gettare la scala di corda. La nebbia è foltissima e nessuno si accorgerà della nostra discesa.
— Vi può essere qualche guardia nascosta nel boschetto, signore, — osservò Liwitz.
— Ebbene, la uccideremo, — rispose freddamente il capitano, — così non andrà a raccontare a nessuno d’aver veduto in aria qualche cosa di sospetto.
Signori, vi siete armati?
— Abbiamo due rivoltelle ciascuno ed un pugnale, — rispose Wassili.
La scala di corda, lunga più di cinquanta metri, fu calata lentamente, potendo darsi che nel boschetto vi fosse qualcuno, poi i due russi, due marinai e il capitano scesero uno ad uno, tuffandosi nel nebbione che saliva a grandi ondate dalla vicina Neva, oscurando la luce dei fanali.
Una forte scossa data alla scala avvertì Liwitz che tutto era andato bene e che doveva subito allontanarsi.
Nessuno infatti si era accorto della discesa di quelle cinque persone.
La notte era troppo fredda e troppo umida per invogliare i buoni abitanti di Pietroburgo a recarsi a passeggiare, in quell’ora tarda, sotto l’ombra cupa dei giardini e dei boschetti fiancheggianti la Newsky.
Il capitano dello Sparviero si fermò un momento per accertarsi se si poteva distinguere la sua macchina volante; poi, rassicurato pienamente, attraversò il boschetto, le cui piante, sature di nebbia, gocciolavano da tutte le parti come se piovesse e sbucò sulla magnifica via, sfarzosamente illuminata da due file di lampade elettriche le quali tentavano invano di aver ragione della nebbia che saliva sempre più fitta dal fiume, allargandosi come un freddo sudario.
Quantunque le undici fossero suonate, una viva animazione regnava sulla Newsky, essendo i grandi signori russi, i bojardi, piuttosto nottambuli.
Avviene specialmente quando nevica e quando la nebbia cala sulla capitale, che quei figli del freddo e dell’umido si divertono maggiormente.
Passavano in gran numero, rapide come saette, le strette e leggere egoiste, trascinate da bellissimi trottatori tutti neri che facevano sprizzare in polvere la neve sminuzzata dai pattini d’acciaio, guidate da giganteschi cocchieri, dalla lunga barba, avvolti in un gran cappotto e la testa riparata da alti berretti, di forma quadrata, di velluto rosso o azzurro, e che tenevano ben salde, nei pugni formidabili, le redini sottili come fili di ferro.
Poi sfilavano le eleganti troike, coi loro tre cavalli e la duga tintinnante sonoramente, lanciate a corsa sfrenata con una sicurezza straordinaria; incrociandosi colle modeste slitte da nolo tirate da umili ronzini.
Signore avvolte in ricche pellicce, tenute per la vita dai loro mariti, per sorreggerle meglio e ripararle dagli urti improvvisi, occupavano quegli eleganti e pittoreschi veicoli, ridendo e chiacchierando forte, insensibili al freddo e all’umidità.
Sui marciapiedi una folla svariata, composta però per la maggior parte di ufficiali della guardia, faceva ressa verso il Gostinnyi Dvor, il gran bazar dalla vôlta orientale, soffermandosi sotto i portici ad ammirare le vetrine degli orefici, scintillanti ancora di luce e di gioielli, malgrado l’ora tarda.
Il capitano, che pareva conoscesse a menadito la grande città, condusse i suoi compagni ed i due marinai fino presso l’imponente palazzo dell’Ammiragliato; poi piegò verso la Grande Morskaia che è il ritrovo dei passeggiatori eleganti, la via più frequentata della capitale, che possiede i maggiori magazzini ed i ristoranti più in voga.
— Ancora pochi passi e ci saremo, — disse il capitano dello Sparviero, volgendosi verso Wassili e Boris che gli camminavano ai fianchi. — L’albergo di Dvor non è lontano.
Percorsero altri tre o quattrocento passi, aprendosi faticosamente il passo fra la folla che ingombrava la larga via, scintillante di luce elettrica, poi si fermarono dinanzi ad una specie di birreria i cui saloni erano occupati da una gran folla di bevitori.
Ranzoff, da uomo pratico, entrò risolutamente, osservando attentamente le persone sedute dinanzi ai tavolini di marmo.
— Come sono puntuali! — disse ad un tratto.
Nell’angolo di un salone, due uomini stavano chiacchierando tranquillamente, seduti dinanzi a due monumentali tazze di birra già semi-vuote.
Uno era un bel giovane di poco più di trent’anni, bianco e roseo come una fanciulla, cogli occhi azzurrognoli, i baffi biondi, la fronte alta e spaziosa. L’altro invece aveva l’aspetto d’un vero orso. Faccia larga ed un po’ piatta, naso grosso e rosso come quello dei grandi bevitori, mascelle assai sporgenti, occhi neri e vivissimi, pelle brunastra e barba e capelli d’un rosso infuocato.
Mentre il suo compagno aveva l’aspetto un po’ effemminato ed una statura appena superiore alla media, il secondo aveva un torso da bisonte, un petto da orso grigio, membra massicce e perfino le mani villose, quasi come quelle d’una scimmia.
— È molto tempo che non ci vediamo, è vero, cari amici? — disse il capitano dello Sparviero, avvicinandosi rapidamente al tavolo.
I due uomini erano balzati rapidamente in piedi esclamando:
— Il signor Ranzoff!...
— E questo signore lo conoscete? — chiese sottovoce il capitano, indicando Wassili.
— Sì, — rispose l’uomo tozzo e rosso, sorridendo. — È quel misterioso personaggio che noi abbiamo veduto dopo la famosa pesca delle trote nel deserto di Gobi.
È il signor...
— Zitto! — disse il capitano, con voce imperiosa. — Vi sono troppi orecchi qui. —
Poi, indicando l’ex-comandante della Pobieda, aggiunse:
— E questo è suo fratello Boris. —
I due russi e i due personaggi che stavano dinanzi al tavolino si strinsero cordialmente la mano, osservandosi nel medesimo tempo con vivissima curiosità.
— Usciamo, — disse Ranzoff a voce alta. — Qui è troppo caldo e vi è troppo fumo. —
L’uomo rosso gettò sul tavolino un rublo e tutti cinque lasciarono il salone, che andava sempre più affollandosi di nottambuli.
Al di fuori la nebbia era scesa così fitta da intercettare quasi completamente la luce delle lampade elettriche e da rendere quasi invisibili i fanali a gaz.
Coll’umidità scendevano fiocchi di neve, che un vento freddissimo del settentrione travolgeva.
Slitte, troike ed egoiste fuggivano rapidissime, avvolte in un pulviscolo scintillante, facendo tintinnare furiosamente i campanelli delle dughe e scoppiettare le corte fruste.
— Ecco il capitano Rokoff del 12.° Regg. del Don, di cui vi ho parlato, — disse Ranzoff. — Ed ecco qui il signor Fedoro Mitenko, il ricchissimo negoziante di the di Odessa. Già, Wassili li conosce entrambi. —
I quattro uomini tornarono a stringersi le mani con maggior effusione di prima.
— A voi molto dobbiamo, — disse Wassili, — e non sappiamo come potremo sdebitarci di quello che avete fatto.
— Per le steppe del Don! — esclamò il capitano dei cosacchi, colla sua voce grossa ed un po’ rauca. — Siamo ancora vivi, mercè l’intervento del signor Ranzoff, il quale ci ha strappati ai chinesi proprio nel momento in cui stavano per decapitarci, come se fossimo briganti.
Come potevamo rifiutarci di aiutare i suoi amici?
— E siamo anzi tutti e due a loro intera disposizione, — aggiunse il negoziante di the. — Conosciamo la vostra storia, signori; sappiamo che siete stati condannati innocenti ed io ed il mio amico Rokoff faremo di tutto per riabilitarvi ed anche per vendicarvi.
Già speriamo di essere ormai sulla buona via.
— Avete qualche cosa di nuovo, dunque? — chiese il capitano dello Sparviero, conducendo i suoi compagni verso uno dei boschetti deserti fiancheggianti la Neva.
— Abbiamo trovato, durante la vostra assenza, un potente alleato.
— Chi è?
— Un uomo veramente poco onorevole, ma che ci aiuterà efficacemente nelle nostre indagini.
— Lo indovino: il presidente della gaida degli Hoolygani.
— Avete colpito nel segno, signor Ranzoff.
— Una grande canaglia che però in questo momento vale meglio di tutta la polizia russa.
— È vero, capitano.
— Gli avete comunicato l’affare?
— Sì, e quando ha appreso che due personaggi così distinti, come i signori Wassili e Boris, sono stati accusati di essere membri del Consiglio della gaida, si è mostrato terribilmente indignato. Che cosa volete? Quei furfanti posseggono una, diremo così, cavalleria tutta loro speciale.
— E che cosa ha deciso quel re dei ladri?
— Di prestarci il suo aiuto. Egli dispone di trentamila birbanti che valgono come centomila poliziotti. — disse Fedoro.
— Gli avete narrato tutta la dolorosa istoria dei signori Starinsky, dunque?
— Sì, signor Ranzoff.
— Hanno saputo qualche cosa sul barone? — chiesero ad una voce Wassili e Boris, con viva ansietà.
— Ci ha mandato quest’oggi stesso un biglietto, pregandoci di recarci da lui.
— E non vi siete andati? — chiese il capitano dello Sparviero.
— Non ancora. Voi ci avevate detto di aspettarvi, tutte le sere, fino alla mezzanotte, in quella birreria e mancano ancora dieci minuti ai dodici tocchi.
— Non ci attendevate di certo questa sera, signor Fedoro.
— Mah!... Avevo un presentimento. Colla vostra meravigliosa macchina, voi potete attraversare distanze enormi.
— Deve essere stata una corsa furiosa, — disse il capitano dei cosacchi. — Ci avete lasciati appena tre settimane or sono sulle rive del Ladoga.
Nessun uccello riuscirà mai a competere col vostro treno-aereo. Per le steppe del Don! Voi volate meglio d’un’aquila e d’un albatro!
— Ho attraversata la Siberia due volte senza mai accordare un momento di riposo alla mia macchina, — rispose Ranzoff. — Non ho fatto che una sola fermata nei dintorni di Tomsky per imbarcare Wassili, cui aveva dato in quel luogo un appuntamento.
Orsù, si può vedere questa notte quel famoso capo della gaida?
— Anzi, non riceve che di notte, — rispose Rokoff. — Di giorno gli affari dei suoi bricconi sono sospesi e perciò dorme.
— Dove abita? — chiese Wassili.
— Nella Tractir Uglitch, dietro il mercato della Sennaia, sulla strada Cadowaia, — rispose Fedoro.
— È in quell’albergo che tiene seduta il consiglio della gaida? — chiese Wassili.
— Sì, signore.
— Non ci ammazzeranno?
— O non ci apriranno? — disse Ranzoff.
— Abbiamo la parola d’ordine del presidente e godiamo la sua protezione.
— E poi siamo armati e abbiamo dietro di noi tre robusti marinai, — disse Boris, indicando tre ombre che si erano fermate a breve distanza.
— Ursoff, il mio timoniere, è capace di ammazzare un uomo con un solo pugno, — disse Ranzoff.
Passavano in quel momento tre slitte da nolo, tirate da magri ronzini e guidate da mujik, quei poveri lavoratori delle campagne che durante l’inverno piombano in gran numero su Pietroburgo per guadagnarsi qualche rublo.
Ranzoff fece loro segno di fermarsi.
— Cinque rubli se ci conducete alla Tractir Uglitch, — disse loro. — Vi avverto che abbiamo molta fretta. —
I mujiks, che non ne guadagnavano probabilmente tanti in due giorni di lavoro, balzarono precipitosamente dalle loro cassette per aiutare quei grandi signori a salire.
Ranzoff, Fedoro e Boris si accomodarono nella prima, gli altri nelle altre due e le tre slitte partirono abbastanza velocemente, avviandosi verso la vasta piazza, ove giganteggia la chiesa di Nostra Signora di Kazan, che imita, pei suoi altissimi colonnati, quella di S. Pietro di Roma e che è la più vasta e la più bella di Pietroburgo, dopo la cattedrale di Sant’Isacco. Attraversata la piazza, le slitte si slanciarono sulla Grande Moskaia che era diventata deserta e, mezz’ora dopo, correvano sulla Sadowaia, girando intorno al grande mercato della Sennaia.
Una brusca scossa, che per poco non li fece rotolare in mezzo alla neve, avvertì Ranzoff ed i suoi compagni che erano giunti.
Si trovavano dinanzi ad un vasto albergo di bell’aspetto, con un ampio porticato sul dinanzi. Le porte erano ormai tutte chiuse; però della gente doveva trovarsi ancora nell’interno, poichè barlumi di luce trapelavano attraverso le fessure.
Era il Tractir Uglitch, un buon albergo, non già una indecente bettola, ove il puzzo acre del tabacco e dell’acquavite rendono l’aria irrespirabile; anzi, un albergo pulitissimo, frequentato di giorno da pacifici mercanti che non s’immaginavano forse neppure di consumare i loro modesti pasti in un luogo frequentato invece, di notte, dalla peggior canaglia di Pietroburgo.
Ranzoff pagò i cocchieri, attese che le slitte si fossero allontanate, poi si avvicinò alla porta di mezzo, seguìto da Fedoro e dagli altri.
— Tenete pronte le rivoltelle ed i pugnali, — disse ai tre marinai. — Entriamo in un covo di ladri.
Siete avvertiti.
— Saremo pronti, — rispose Ursoff, il timoniere dello Sparviero.
Fedoro accostò un orecchio alla porta e ascoltò qualche istante.
— Vi è della gente dentro, — disse. — Saranno i consiglieri della gaida occupati a tramare qualche buon colpo.
Bah!... Siamo tutti bene armati! —
Si levò da una tasca una grossa rivoltella americana e col calcio battè cinque colpi.
Il mormorìo, che poco prima aveva udito, cessò bruscamente; poi una voce rauca chiese:
— Chi siete? L’ora è tarda e non si apre a nessuno.
— Nostra Signora di Kazan, — disse Fedoro.
— Ah! La parola d’ordine! —
Si udì cadere a terra una sbarra di metallo, poi la porta si aprì, lasciando sfuggire una vera nuvola di fumo puzzolente.
Fedoro ed i suoi compagni, uno ad uno, entrarono in una vasta sala, malamente illuminata da un becco a gaz che irradiava intorno a sè una brutta luce giallognola.
Dinanzi ad un tavolo, su cui si vedevano parecchi vasi che tramandavano un acuto odore d’acquavite di segala, sette od otto brutti figuri, malamente vestiti, sparuti probabilmente più per le continue orgie, che non per la fame, stavano in piedi, stringendo delle rivoltelle.
Erano tutti giovani e robusti, eccettuato uno che aveva una lunga barba già biancastra ed una statura più che gigantesca.
— Nostra Signora di Kazan, — ripetè Fedoro, avanzandosi coraggiosamente verso quei banditi.
— Tu, signore! — esclamò il vecchio, facendo un gesto di sorpresa.
— Ti avevo detto che sarei venuto a trovarti, — rispose Fedoro. — Ti conduco i miei amici che aspettavo. —
Il vecchio fece un leggero inchino; poi, con un gesto energico, additò ai suoi compagni la porta, dicendo con voce imperiosa:
— Non ho più bisogno di voi. —
Fedoro attese che quei brutti figuri fossero usciti, quindi, volgendosi verso Ranzoff, disse:
— Ecco il presidente della gaida degli Hoolygani. —
Le grida erano cessate; non si udiva altro che il respiro affannoso dell’agonizzante. (Cap. X).