Il Parlamento del Regno d'Italia/Marco Minghetti

Marco Minghetti

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Paolo Paternostro Roberto d'Azeglio
Questo testo fa parte della serie Il Parlamento del Regno d'Italia


Marco Minghetti.

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MINGHETTI MARCO

deputato.

vice presidente della camera dei deputati.


Non sorprenderemo nessuno dicendo che il Minghetti è uno dei membri i più eminenti del nostro Parlamento. Scrittore, oratore, uomo di Stato, amministratore, il Minghetti ha preso, prende e prenderà senza dubbio larga parte nelle vicende d’Italia, e il suo nome è uno di quelli che resteranno nelle pagine dell’istoria nazionale. N’è dunque mestieri di consacrargli un certo numero di pagine, non quante certo questa illustre individualità meriterebbe, ma il più che per noi si possa, costretti dai limiti di questa nostr’opera.

Il Minghetti è nato in Bologna nel 1818 da famiglia di commercianti assai doviziosi. Perduto il padre in tenera età, deve alle cure le più assidue e le più intelligenti della propria madre d’aver potuto ricevere un’educazione delle migliori. Gli studî del Minghetti [p. 555 modifica]furono diligenti e profondi. Egli apprese dapprima scienze fisiche e matematiche, quindi le morali e sociali. Ma fin da giovinetto non credette dover sommettersi alle norme comumi, nè chieder diplomi o concorrere a conseguir lauree e gradi dottorali.

Più tardi, comprendendo che il vero complemento di una educazione perfetta è il viaggiare, egli percorse dapprima le patrie contrade, quindi si recò a visitare la Francia, l’Inghilterra e la Germania, studiando accuratamente gli usi, le istituzioni, e le lettere dei diversi popoli stranieri e rientrando in patria ricco di cognizioni e più maturo di senno.

Uno dei primi lavori che, tornato dal suo viaggio in Inghilterra, il Minghetti producesse, fu un discorso ch’ei lesse nel 1846 nel seno della società agraria di Bologna, discorso in cui parlava delle leggi frumentarie inglesi e degli effetti che l’applicazione di tali leggi potrebbero produrre in Italia, e sopratutto negli scambi commerciali. Fin da quel tempo adunque, cosa invero degna d’esser notata, il Minghetti mostravasi partigiano deciso della libertà la più assoluta nelle contrattazioni commerciali e non attribuiva altra parte al governo fuorchè quella che consisteva nel vegliare alla sicurezza e lealtà di quelle stesse contrattazioni.

Il suo discorso concludeva proponendo una lega doganale tra i principi italiani, lega che almeno avrebbe fruttato l’abolizione delle numerose gabelle che ad ogni piè sospinto inceppavano il commercio nella penisola.

Vari altri discorsi, tutti appunto su materie agrarie ed economiche, pubblicò quindi il Minghetti, e tutti questi discorsi furono apprezzati da chi gli udì e li lesse e fruttarono al loro autore fama di mente acuta e studiosa.

Ma ben presto le vicende politiche italiane dovevano porgere al Minghetti più vasto campo nel quale giostrarsi. Assunto nel 1846 al pontificato Pio IX, e mentre questo pontefice sembrava animato da sentimenti liberali e desioso di far progredire ogni sorta di nobile disciplina in Italia, il Minghetti, insieme al Montanari, ora senatore, e all’Audinot, pur oggi deputato, [p. 556 modifica]fondò a Bologna un giornale, il Felsineo, che fin dal suo primo apparire si cattivò l’attenzione e le simpatie del pubblico italiano e non tardò ad occupare un posto de’ più onorati tra la stampa periodica di quel tempo. Quel foglio si distingueva sopratutto per la fermezza e la moderazione dei principî che sosteneva e il nostro protagonista vi discorreva con molta dottrina di argomenti economici e morali e vi pubblicava serie considerazioni sulle riforme da introdursi negli Stati della Chiesa in materia di amministrazione.

Nel medesimo tempo il giovine pubblicista presiedeva le conferenze agrarie ed economiche, nelle quali si agitavano le più importanti questioni relative agl’interessi materiali e morali del paese.

Costituitasi a Roma la Consulta delle finanze, il Minghetti fu chiamato a farne parte nel 1847; ma poco rimase a quel posto, chè, formatosi il ministero presieduto dal cardinale Antonelli, allora fautore di libertà! e in cui sedevano il Recchi all’interno, il Pasolini al commercio, il Mezzofanti all’istruzione pubblica e il Giuseppe Galletti alla polizia, al Minghetti fu affidato il portafoglio dei lavori pubblici.

Si mise egli tosto all’opera fervidamente e i suoi disegni erano de’ più vasti, senonchè ben presto la la pubblicazione dell’enciclica avvenuta il dì 29 aprile ebbe ben presto tarpate le ali del suo buon volere, e il costrinse a dare, insieme agli altri suoi colleghi laici, le proprie dimissioni. Da quel momento anzi il Minghetti, ch’era stato, a sua confessione, uno di coloro che si erano lasciati andare a vedere realizzabile la strana utopia d’un papa-re, re costituzionale e italiano, provò un pronto e completo disinganno e si persuase anzi fin da quel punto che papato ed indipendenza nazionale erano inconciliabili. Da quel momento ei ricusò di prender più parte alla gestione dei pubblici affari, e ritrattosi dalla vita politica, benchè le elezioni di varî collegî gli affidassero la Deputazione alla Camera, lasciò lo Stato Pontificio e si recò in Lombardia al campo di re Carlo Alberto, ove offrì i proprî servigî; venne accolto con molto soddisfacimento ed ebbe il grado di capitano dello Stato maggiore. In tale [p. 557 modifica]qualità ei prese parte attiva a tutta la campagna, nel corso della quale ebbe più d’una occasione di distinguersi, sì che dopo la battaglia di Goito il Re il promoveva a maggiore e di sue mani gli metteva sul petto la decorazione dell’ordine Mauriziano. Ma dappoichè seppe gli avvenimenti di Roma e come ogni di più nella capitale del mondo cattolico la piazza signoreggiasse e l’ordine fosse turbato, chiese un congedo provvisorio e vi accorse, arrivandovi il giorno medesimo in cui l’amico suo Pellegrino Rossi cadeva vittima del pugnale di un assassino. Il Minghetti, inorridito e profondamente indignato per quell’atrocissimo misfatto, pubblicò un’energica sua protesta contro di esso, quindi, benchè vivamente sollecitato dal Pontefice per mezzo del Montanari onde volesse subentrare al Rossi in quel gabinetto od in altro di nuova formazione, egli si rifiutò fermamente e ritornossi a prendere il suo posto nell’esercito piemontese.

Dopo la pace, chiese il ritiro, conservando il grado, e tornò a coltivare i prediletti studî, recandosi tuttavia spesse fiate a Torino, ove avvicinava il conte di Cavour e ben presto diveniva familiare di cotant’uomo. Questi non tardava ad apprezzare l’egregie qualità ond’era fornito il Minghetti e si riserbava, all’occasione di testimoniargli coi fatti qual conto si facesse di lui.

Nè la circostanza tardava molto a presentarsi, che allorquando nel congresso di Parigi, dopo la guerra d’Oriente, il grande uomo di Stato potè riescire a intavolare la questione italiana, si diè premura di chiamare presso di sè il Minghetti onde questi gli porgesse i lumi necessarî a trattare a fondo la questione romana nel famoso memorandum presentato ai plenipotenziarî europei sulle condizioni delli Stati Pontifici e napoletani. E ognuno che ricordi il discorso pronunciato dal presidente del Consiglio il 25 marzo del 1861, quando le interpellanze del deputato Audinot motivarono la discussione sulla questione romana, non potrà non sovvenirsi come il conte di Cavour nel suo notevolissimo discorso si desse premura di tributare un elogio dei più spontanei ed onorevoli per l’aiuto [p. 558 modifica]prestatogli dal Minghetti in quell’occasione a Parigi.

Sì fu al suo ritorno a Bologna che il Minghetti delle alla luce un’opera di lungo studio e della più alla importanza, opera intitolata Dell’economia pubblica e delle sue attinenze con la morale e col diritto. Ognun comprende che noi non possiamo analizzare in queste pagine quell’importantissimo libro degno sotto molti rapporti d’esser messo accanto alle opere del Baudrillart, del Carey e del Bastiat. Tuttavia, non sappiamo resistere al desiderio di dare un’idea esatta al lettore dell’intendimento vero dell’opera, col riprodurre quella parte della prefazione in cui l’autore stesso viene esponendo con molta chiarezza il suo piano.

«Nel primo libro, citiamo le parole della prefazione stessa, discorro brevemente l’istoria dell’economia politica, e mostro che i principali errori economici ebbero loro radice in qualche falsa nozione di morale e di diritto. Tocco ancora delle ingiuste accuse date alla scienza nostra e di quelle svelo la vanità.

«Nel secondo libro entro a parlare della descrizione dell'economia come scienza e come arte. La quale descrizione non può trarsi soltanto dall’intimo di essa, ma ancora dalle sue relazioni con le altre discipline civili. L’analisi delle idee di ricchezza e di valore, che sono il fondamento dell’economia, mi conduce a discutere alcune fra le teoriche le più celebrate e alle discussioni alle quali diedero luogo.

«Nel terzo libro vengo a considerare le leggi più generali dell’economia, e seguendo l’ordine consueto, cerco le condizioni della massima produzione, della più equa repartizione, del più facile scambio, del più accomodato consumo. Quindi ritraggo come queste parti s’intreccino e si colleghino strettamente fra loro e come ciascuna di esse e tutte insieme richieggano l’osservanza della legge morale.

«Il quarto libro è come la riprova dell’antecedente, ma con un metodo al tutto diverso. Avvegnacchè l’osservanza della legge morale ha, in generalità, quest’effetto, di porre in ogni cosa la debita proporzione. Ora io dimostro, che, appunto una legge di proporzione è [p. 559 modifica]quella che governa tutte le parti dell’economia e insieme tra loro le congiunge. E a confermare il mio assunto, vengo investigando le armonie e le antinomie che taluni vi riscontrarono, e metto in chiaro che esse dipendono principalmente dalla coesistenza o dalla mancanza di condizioni morali. Il che finalmente mi guida a considerare il nesso che è fra ricchezza e virtù e come entrambe si conciliano nella perfezione civile.

«Nel quinto libro, infine, ragiono delle attinenze dell’economia col diritto, sia privato, sia famigliare, sia pubblico, sia internazionale. E qui spontanee vengono le indagini e i quesiti sulla libertà e proprietà, e quivi il metodo storico più che altrove si congiunge col razionale, sicchè, volgendo il pensiero a un ideale futuro, non trascuriamo le ragioni che giustificano molte passate istituzioni.»

Si vede da questa esposizione qual vasto campo abbracci l’opera del deputato di Bologna. Ci basti il dire che lo sviluppo di essa corrisponde pienamente alla grandiosità del piano disegnatone dall’autore.

Dettato un libro di tanta mole, per riposarsi e distrarsi dalle fatiche che gli era costato, il Minghetti fece un viaggio in Oriente visitando l’Egitto, ove spinse le sue peregrinazioni fino sopra le cateratte del Nilo. Ed era pure sua intenzione di recarsi in Siria, ma una lettera del conte di Cavour gli faceva presentire i grandi avvenimenti che si preparavano in Italia e il richiamava prontamente a Torino.

Nè il Minghetti fu tardo a quell’appello, e appena resosi a Torino, il grande uomo di Stato gli confidava le funzioni di Segretario generale degli affari esteri.

La parte presa dal nostro protagonista nelle vicende di quel tempo è a tutti nota, come quella che fu delle più cospicue.

Dopo le vittorie delle armate alleate essendo costituita a Torino una direzione degli affari d’Italia, direzione che aveva per iscopo di facilitare le annessioni dei Ducati e delle Legazioni, il Minghetti, conservando sempre il segretariato generale per gli affari esteri, la presiedette. Più tardi, dopo la pace di Villafranca, ei dette, insieme al conte di Cavour, le proprie dimissioni [p. 560 modifica]e recatosi nell’Italia centrale, vi aiutò potentemente l’opera, già iniziata dal Farini e da lui, delle annessioni, contribuì ad indurre il general Fanti ad accettare il comando supremo delle truppe dell’Emilia, fu eletto a presidente dell’Assemblea delle Romagne, e una volta le annessioni compiute, Bologna, la sua città natale, lo nominava deputato al Parlamento nazionale. Più tardi nell’ottobre del 1860 il conte di Cavour lo chiamava a far parte del gabinetto da lui presieduto, confidandogli il portafogli dell’interno.

Fino a questo punto noi non abbiamo avuto che a lodare; d’or innanzi non biasimeremo certo, ma ci permetteremo di criticare, e in varie occasioni e sotto diversi aspetti, l’operato del Minghetti. Naturalmente la nostra critica deve prima di tutto versarsi sulle famose riforme amministrative proposte con progetto di legge al Parlamento, proposte conosciute universalmente sotto il nome di sistema regionale.

Il cattivo effetto prodotto in Italia da quel sistema, eccessivamente discentralizzatore, è troppo conosciuto perchè noi abbiamo bisogno di parlarne. Vogliamo tuttavia accennare che la cagione principale dell’impopolarità del sistema Minghetti deve attribuirsi all’avversione, assai giustificabile, bisogna pur convenirne, dei partigiani dell’unitarismo, che sono per buona fortuna molto numerosi in Italia. Il suddividere il paese in scompartimenti, che possono, in un tempo più o meno prossimo, risospingerlo verso quello stato tanto infelice di debolezza, materialmente e politicamente parlando, dal quale dopo lunghi e tenaci sforzi, dopo duri e generosi sacrificî, siamo appena pervenuti a ritrarlo, è sembrata tal misura esiziale, che, quantunque forse ogni pericolo di sfracellamento non fosse da temersi nè nelle circostanze presenti nè nelle avvenire, pure l’idea sola è bastata a spaventare tutti ed a riversare il biasimo e l’avversione i più decisi sulle leggi Minghetti. Certo il legislatore non si è ispirato, come il doveva, all’opinione pubblica italiana, o non ha saputo comprenderne lo spirito e le tendenze; e ciò per sua parte fu colpa od errore. Quindi è che un tant’uomo, a molti titoli chiarissimo e benemerito, è caduto in [p. 561 modifica]disfavore ed è ben presto divenuto il bersaglio dei giornaluccoli delle opposizioni, che hanno profittato della circostanza per muovergli contro una guerra continua e accanita.

La morte del conte Camillo di Cavour gli aveva tolto l’appoggio validissimo che quel sommo uomo di Stato porgeva ai suoi colleghi di gabinetto, e più specialmente a quelli che, come il Minghetti, potevano riguardarsi come sue creature. Il barone Ricasoli, uomo, come ognun sa, di tutta lealtà, ma più concentrato e riservato che nol fosse colui del quale l’Italia piangerà sempre la perdita, lasciava il Minghetti a sè stesso, e questi aveva il torto di dar peso soverchio all’opposizione sempre crescente del giornalismo di partito, di cui pure dovevano essergli note assai le manovre perch’egli avesse a preoccuparsi di soverchio de’ virulenti suoi attacchi. E questi alfine trionfarono della di lui costanza e l’indussero, senza apparente ragione, senza che verun dissenso regnasse fra lui ed i colleghi suoi, a dare le proprie dimissioni: atto che i veri sostenitori dell’integro mantenimento del sistema costituzionale debbono a buon dritto rimproverargli, come quello che troppo si discosta dalle regole e consuetudini sulle, quali esso sistema è basato. Difatto, nè i ministri in massa, nè molto meno un solo ministro, quando tra esso ed i colleghi suoi non abbiavi discrepanza d’opinioni, debbono, in un governo che si regge a costituzione, porgere le loro dimissioni, ove un voto di sfiducia del Parlamento non gli abbia persuasi dell’impossibilità per essi di rimanersi al loro posto. Il Minghetti ebbe adunque torto di voler cedere il portafogli a cagione del tramestio che gli faceva contro la stampa delle fazioni, le quali, naturalmente, sapendolo uno dei più saldi campioni del partito moderato, si facevano un vero piacere e uno studio speciale d’ingigantire le conseguenze del disfavore col quale era stata accolta la proposta di legge relativa alle riforme amministrative, e non perdevano la più lieve occasione d’ingrossare a dismisura gli altri néi dell’amministrazione del Minghetti. — Loro scopo non era certo soltanto quello di rovesciare dal seggio il solo ministro dell’interno; [p. 562 modifica]esse preludevano ai maneggi e alle diatribe che dovevano impiegare più tardi a rovesciare l’intero gabinetto Ricasoli, e si lusingavano che minandolo da quel lato, potessero più presto venire a capo di disorganizzarlo e costringerlo a dimettersi.

Se i loro tentativi non riuscirono appieno, pure non rimasero pur troppo senza effetto, dacchè esercitarono una tale influenza sull’animo dell’uomo egregio del quale descriviamo la vita, da indurlo a cedere il campo e a presentare le proprie dimissioni, che dovettero essere accettate. L’opinione generale degli uomini sensati riguardò quell’atto del Minghetti come una debolezza e lo condannò siccome una deficienza di coraggio civile.

Più tardi il contegno del Minghetti durante le agitazioni che precedettero la caduta dell’intero gabinetto Ricasoli sembrò anche a molti soverchiamente circospetto e dubbioso. Da un uomo dalla tempra del nostro protagonista, il di cui patriotismo e la cui assennatezza politica erano noti ad ognuno, si sarebbe desiderato un contegno più fermo e sicuro, un’adesione più esplicita al ministero del quale egli aveva fatto parte per lungo tempo, e dal quale era uscito senza avere apparentemente motivo alcuno di dissenso con veruno de’ suoi membri.

Il Minghetti, mediante l’influenza che legittimamente esercitava ed esercita sugli animi dei suoi colleghi della Camera dei deputati, avrebbe potuto, ove l’avesse energicamente voluto, sostenere con molta efficacia il gabinetto presieduto dal barone Ricasoli, contribuire a consolidarlo e completarlo, sì che la crisi ministeriale del 2 marzo non avesse potuto aver luogo. Invece egli ha creduto meglio di non mai pronunciarsi decisamente in un senso o in un altro, dando così motivo a credere ai suoi avversari, o ch’egli volesse conservarsi buone relazioni nei due campi, contegno d’uomo ambidestro che noi non esitiamo a respingere, o che mancasse di quel colpo d’occhio politico che gli rendesse agevole la scelta fra due strade quasi diametralmente opposte.

Queste oscillanze per parte d’un personaggio che nei trascorsi tempi ha dato saggio, come i lettori [p. 563 modifica]possono averlo notato, di prontezza d’iniziativa e di fermezza di risoluzione, non possono non increscere ai suoi amici; ma giova sperare che sieno state passeggere mancanze, nelle quali talora avviene anche agli uomini i più energici di cadere.

Non possiamo chiudere questa notizia biografica senza parlare dei varî pregi che distinguono il Minghetti come oratore. La chiarezza dell’esposizione, l’eleganza della parola, l’elevazione delle idee lo fanno uno dei più eloquenti ed apprezzati dicitori del Parlamento italiano. La sua vasta istruzione, l’acutezza della sua mente che gli rende agevole afferrare e discutere qualsiasi più astrusa materia, rendono la di lui cooperazione molto preziosa, come quella che semplifica e rischiara ogni più complicata questione. I discorsi pronunziati dal Minghetti in materie economiche, finanziarie e giuridiche hanno sempre prodotto nella Camera e fuora del recinto parlamentare una profonda impressione, e sono rimasti e rimarranno quali modelli, nel loro genere, di eloquenza parlamentare.

La Camera gli ha dato una prova segnalata dell’alta stima che professa per lui eleggendolo a suo vice-presidente.