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Agrippina Solmo lo vestiva, gli lavava la faccia, lo pettinava, gli dava da mangiare, con cura materna. Certe volte, al suono della voce che lo chiamava: — Marchese! Marchese! — che lo sgridava con dolcezza quando si ostinava a rifiutare il cibo, egli rivolgeva lentamente la testa verso di lei, la guardava sottecchi, con aria sospettosa, quasi quella voce ridestasse dentro di lui reminiscenze di lontane sensazioni, che però dileguavano rapidissime e lo facevano ricadere nella cupa immobilità per ore ed ore.
E nella giornata gli si sedeva vicino; e mentre l’animalità di quel corpo sembrava di sentire qualche godimento pel tepore dell’occhiata di sole che lo investiva presso al balcone, ella gli parlava piano, per sfogo, quantunque sapesse di non essere capita:
— Perchè ha fatto così, voscenza? Perchè non mi disse mai una parola?... Ah, se mi avesse detto: “Agrippina, bada!„ Mezza parola sarebbe bastata! Non era voscenza il padrone? Che bisogno c’era di ammazzare?... È stato il destino! Chi credeva di far male? Ah, Signore! Ah Signore!...
Ella si rallegrava di vederlo tranquillo, di non più udirlo gridare nè smaniare. Le sembrava che questo fosse miglioramento. E rimaneva dolorosamente maravigliata che il dottore ogni volta venisse, guardasse, scotesse la testa e andasse via alzando le spalle, senza risponderle nemmeno quando gli domandava: