Il Marchese di Roccaverdina/Capitolo XXXI
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XXXI.
Maria, la nuova serva, era venuta incontro al marchese per annunziargli:
— La signora marchesa si è messa a letto dopo mezzogiorno; è un po’ indisposta. Ha un forte dolore di capo.
— Perchè non avete mandato a chiamare sua madre?
— Non ha voluto.
— Riposa?
— Eccellenza, no; è sveglia. Credo che abbia anche un po’ di febbre. Cosa da niente.... Porto il lume. Ha voluto essere lasciata allo scuro.
Maria lo precedette in camera.
— Che cosa è stato? — egli domandò chinandosi su la giacente.
— Non so; mi sono sentita male tutt’a un colpo. Ora mi pare di star meglio — rispose la marchesa con voce turbata.
— Mando pel dottore?
— Non occorre.
— Lo faccio avvertire perchè venga domattina, di buon’ora.
— È inutile. Mi sento meglio.
Egli ficcò la mano sotto le coltri per tastarle il polso. E siccome la marchesa evitò che la toccasse, sforzandosi di sorridere e schermendosi, il marchese le posò la mano su la fronte.
— Scottate!
— È il calore del letto — ella rispose.
— Non ha preso nulla? — domandò il marchese alla serva.
— Nulla. Il brodo è pronto in cucina.
— Bevetene almeno una tazza. Non potrà farvi male — egli disse con accento di preghiera, rivolgendosi alla marchesa.
— Più tardi, forse.
— Pòrtalo — ordinò alla serva. — Sarà meglio che lo prendiate sùbito, — soggiunse tornando a posare la mano su la fronte della moglie.
Ella non rispose e chiuse gli occhi.
— Vi dà fastidio il lume?
— Un poco.
Il marchese tolse il lume dal posto dove la serva lo aveva posato, lo collocò su un tavolinetto coprendolo con una ventola che quasi abbuiò la camera, e rimase ritto in piedi davanti a la sponda del letto, attendendo che la serva recasse la tazza col brodo.
— Avete avuto brividi di freddo? — domandò dopo lunga pausa.
— No.
— Avreste potuto almeno mandare a chiamare la mamma — egli disse dopo altra pausa.
— Per così poco?
Egli prese la tazza di mano della serva.
— È un sorso — fece. — Bevetelo prima che si freddi.
La marchesa si sollevò su un gomito e bevve lentamente.
— Grazie! — disse lasciandosi ricadere sul letto.
Egli la guardava con grande apprensione. Gli sembrava che qualche altra terribile cosa stèsse per accadere e che quella povera creatura innocente dovesse pagare per lui. L’insolita tenerezza nei suoi modi e nella sua voce proveniva da questo.
E mentre egli restava là, in piedi, silenzioso con le mani appoggiate a la sponda del letto, un po’ chino e con gli sguardi intenti, la marchesa pensava a quel gesto, a quella dolorosa espressione del viso di lui osservata la mattina, quando il marchese stava per partire per Margitello, e che l’aveva tenuta in profonda agitazione.
Pensava anche alla cesta e alla lettera arrivate da Modica quel giorno. L’aveva portate un giovane capraio spedito a posta.
— Chi vi manda? — ella gli aveva domandato, quantunque già avesse capito da chi potessero provenire lettera e cesta.
— Mia zia Spano... Solmo la chiamavano qui. Bacia le mani anche a voscenza.
La marchesa, a quel nome, si era sentita rimescolare.
— Il marchese è in campagna. Volete aspettarlo? — ella disse.
— Aspetterò per la risposta. Mia zia vuole la risposta. Dice: Loro eccellenze devono scusare la sua impertinenza; sono cacicavallo. Qui non ne fanno; per questo si è presa la libertà....
— Va bene. Siete stanco? Mangerete un boccone.
E dato l’ordine alla serva perchè lo servisse in cucina, era rimasta, con crescente turbamento, davanti a quella lettera da lei buttata sul tavolino quasi le avesse scottato le dita.
Che voleva costei? Perchè si faceva viva? Le parve di vederla, a un tratto, aggirarsi di nuovo per quelle stanze dov’era stata quasi dieci anni padrona assoluta della casa e più del cuore del marchese, come a lei, moglie, non era riuscito; le parve che quella lettera e quella cesta nascondessero un tranello per far riprendere a colei l’antico posto, e scacciarne chi vi era divenuta legittima signora. E fissava, con sguardi diffidenti, la cesta dove poteva, forse, essere qualche opera di malìa. Le tornavano in mente casi uditi raccontare da popolane (allora l’avevano fatta sorridere d’incredulità), casi di malìe, preparate in una torta, in una frittata dalle quali erano stati prodotti o una lenta malattia di sfinimento e poi la morte, o un rinfocolamento di passione da confinare con la pazzia. No, non avrebbe permesso che il marchese mangiasse di quei cacicavallo, e lei non li avrebbe neppure toccati. Chi lo sa? Tante cose che paiono fiabe, sono vere; altrimenti non si racconterebbero. E, a poco a poco, si affondò talmente in questo sospetto, che esso assunse per lei evidenza di certezza. Sentiva diffondersi, a traverso dei vimini della cesta, la maligna influenza colà rinchiusa, e invaderla e inquinarle il sangue e attossicarle la fonte della vita. Ebbe la tentazione di aprire la lettera, di strapparla anche senza leggerla, giacchè fin le parole colà scritte potevano avere qualche malefica potenza. Resistè; intanto ordinava alla serva di mettere cesta e lettera in un ripostiglio nascosto.
— Che ti ha detto quell’uomo? — le domandò.
— Dice che sua zia ha sempre su le labbra il nome del padrone, benedicendolo.
— Niente altro?
— Dice che vorrebbe venire a baciargli le mani, e che verrà un giorno o l’altro. E mi ha domandato se il padrone ha già avuto un figlio.
— Che gliene importa?
— Così mi ha detto.
— Ha un figlio.... sua zia?
— Vuole voscenza che glielo domandi?
— No.
Ma quando la serva ebbe portato via cesta e lettera, la marchesa ripensò lungamente quella domanda che le pareva insidiosa quanto il regalo e la lettera. E per tutta la mattinata non potè distrarsi, con dinanzi gli occhi la figura di Agrippina Solmo come l’aveva veduta di sfuggita due o tre volte, anni addietro. L’aveva invidiata allora, sentendosi inferiore a lei per giovinezza e bellezza, ma senza sdegno e senz’odio, perchè allora stimava che non era colpa di colei se il marchese l’aveva voluta e se l’era tenuta in casa. Ne aveva avuto anzi compassione, povera giovane! La miseria, le insistenze del marchese.... Come non cadere in peccato? E talvolta l’aveva ammirata per la devozione, per la sottomissione assoluta, pel quasi incredibile disinteresse; lo dicevano tutti. Ma dopo? Zòsima rammentava il sospetto della baronessa intorno alla Solmo per l’uccisione di suo marito. Rammentava il respiro di soddisfazione della vecchia signora quando la Solmo era andata via da Ràbbato col secondo marito. — Non mi par vero, figlia mia! — aveva esclamato. — Ti si è levata di torno una gran nemica! — Ma ella era piena di illusioni e di fiducia in quei giorni, e le parole della baronessa le erano parse esagerazioni. Invece.... Invece oggi le riconosceva molto minori del vero. La sua gran nemica ella l’aveva sùbito ritrovata, invisibile, ma presente in quella casa dove si era lusingata di regnare sola e senza contrasti; l’aveva ritrovata su la soglia del cuore del marchese, e non aveva permesso che la moglie vi penetrasse.... Ed eccola ora; arrivava da lontano, col regalo e con la lettera, per rafforzare il suo potere, forse creduto in punto di diminuire: eccola, arrivava forse per mettere in opera una mortale malìa, contro di lei certamente!
Andando da una stanza all’altra, torcendosi le mani, parlando a voce alta, reprimendosi di tratto in tratto per timore di essere osservata, con gli occhi pieni di lagrime che non potevano sgorgare, ella metteva tutto questo in confronto col contegno del marchese verso di lei, e vi trovava una chiara conferma di quel che pensava e che non avrebbe voluto credere. Ma come non credere? Ah, Signore! Che aveva mai fatto per meritarsi tale castigo? Non aveva già rinunciato al bel sogno della sua giovinezza? Non si era già rassegnata a morire in quella sua triste casa dove ora le sembrava di non aver sofferto niente a paragone di quel che soffriva là, tra la ricchezza e il lusso che le facevano sentire maggiormente la desolazione del suo povero cuore?
E un lentore l’aveva invasa, e un cerchio di ferro le aveva stretto le tempia e gliele stringeva ancora, mentre il marchese, nella penombra della camera, con le mani appoggiate alla sponda del letto, più non osava di interrogarla, ed ella avrebbe voluto gridargli: — La lettera è di là! La cesta è di là! — quasi il marchese stèsse muto e chino su di lei in attesa di tale rivelazione perchè già sapeva!
Spalancò gli occhi, lo fissò in viso, e con voce velata dal turbamento, gli disse:
— Avete visto il capraio arrivato da Modica?
— No. Che cosa vuole?
— Ve lo dirà lui e la lettera che ha portato. Ha portato anche una cesta.
— Ah! — fece il marchese accigliandosi.
— Lettera e cesta sono nel ripostiglio.
Il marchese rispose con una spallucciata.
— Se vi pregassi.... — disse la marchesa quasi balbettando dalla commozione. E arrestàtasi un istante, riprese sùbito: — Sono una sciocca!... Non voglio procurarmi un rifiuto!
Scoppiò in pianto dirotto.
— Zosima!... Zosima! Che cosa è accaduto?... Non mi nascondete nulla! — esclamò stupito il marchese.
— Voi, voi mi nascondete qualche cosa! — ella rispose tra i singhiozzi.
Si sollevò, si mise a sedere sul letto, e frenando il pianto, ripetè:
— Sì, sì! Voi mi nascondete qualche cosa!... Mi trattate da moglie forse? Neppure da amica! A un’amica spesso si confida tutto, si chiedono conforti o consigli. Ma io qui sono un'estranea che deve ignorare, che deve macerarsi il cuore nel buio. Oh, non parlo per me, non mi curo soltanto di me. Anche voi soffrite; lo veggo! Non state continuamente in guardia? Ogni mia domanda, anzi, ogni mia parola non vi mettono in sospetto? Credete che non me ne sia accorta? Da un pezzo! Se non vi volessi bene, non baderei a niente. Se non vi volessi bene, non mi torturerei pensando e ripensando: — È per cagione mia? In che ho potuto dispiacergli? — Involontariamente, se mai; e dovreste dirmelo.... Se avete provato un gran disinganno, dovreste dirmelo pure.... Non ho voluto ingannarvi, io. Siete venuto voi a cercarmi, quando già non m’illudevo più, non speravo più...
— Oh, marchesa! Oh, Zòsima!
— Chiamatemi Zòsima! Marchesa di Roccaverdina non son potuta divenire finora!
— Non dite così!
— Debbo dirlo per forza!... Vorreste darmi a credere, per esempio, che la notizia di quella cesta e di quella lettera non vi ha prodotto nessuna impressione? Quale, non so. Avete alzato le spalle; ma questo non prova nulla; non rivela quel che avete pensato, nè quel che pensate in questo momento.... Chiamate Maria, fatevi dare la lettera.... Conterrà forse cose che potrebbero farvi molto piacere... commuovervi, distrarvi dal presente che sembra vi pesi.... Se io fossi un ostacolo.... Oh! io sono un fuscellino che potete cacciar via con un soffio!... Voi lo sapete.... Voi lo sapete!
La voce, vibrata un momento con dolorosa ironia, e poi diventata tremula, incerta, le si era affievolita tra i singhiozzi di nuovo irrompenti; e le ultime parole le erano uscite dalle labbra soffocate dallo scoppio di pianto che l’accasciava sui guanciali, con la faccia nascosta tra le mani.
— Ma ditemi la verità! Che cosa vi hanno insinuato? Ditemi la verità!
Il marchese non sapeva persuadersi che unicamente la cesta e la lettera avessero prodotto quell’esplosione di gelosia, quel grido d’anima trambasciata! Immaginava che, nella sua assenza, fosse dovuto accadere qualche cosa di inatteso, di grave, e per ciò insisteva a ripetere: — Ditemi la verità! Ditemi la verità! — Stringendosi forte la fronte con le mani convulse era andato premurosamente a mettere il paletto all’uscio, per impedire che Maria — non ancora abituata a picchiare prima di introdursi in una stanza — entrasse all’improvviso; e, tornato davanti al letto, premendo con una mano carezzevolmente la testa della marchesa, la supplicava, sottovoce, di frenarsi, di tranquillarsi.
— Siete eccitata.... Forse avete la febbre.... Voi un ostacolo? Come avete potuto pronunziare questa parola? Ostacolo a che?... Oh, non voglio farvi l’offesa di credervi gelosa di un’ombra; sarebbe indegno di voi.... Mi giudicate male. Quella cesta?... La farò buttar via, con tutto quel che contiene.... Quella lettera?... Non la leggerò; la getterò nel fuoco senza aprirla. Dovreste leggerla voi, per disingannarvi.... Che cosa potrei nascondervi? La mia vita trascorre sotto i vostri occhi.... Non sono galante, lo so; sono anzi rozzo di maniere. Marchese contadino mi chiamava una volta lo zio don Tindaro; e me ne glorio, ve lo confesso. Avrei potuto vivere in ozio come tant’altri, meglio di tant’altri.... e faccio il contadino; dovreste esserne orgogliosa anche voi. Potrei avere sciocche ambizioni, come tant’altri, meglio di tant’altri.... Avete veduto; ho rifiutato di esser Sindaco, per continuare a fare il contadino. Il cugino Pergola mi tiene il broncio; il dottor Meccio sparla di me in Casino, nelle farmacie, dovunque; mi ha fin chiamato: — Fantoccio di cencio! Pulcinella! — Che me n’importa? Ma voi, voi, Zòsima, non dovreste giudicarmi come lo zio don Tindaro, come il cugino Pergola, come il dottor Meccio!... Sì, ho preoccupazioni.... di interessi.... Sono cose che non vi riguardano.... Si accomoderanno. Forse io do troppa importanza a certe difficoltà, a certi incidenti.... Me lo ripeteva, giorni addietro, don Aquilante.... Ma neppur lui mi capisce. Ormai la mia vita è così; non posso stare inoperoso, non posso arrestarmi.... Se verrà un figlio — e spero che verrà — non dovrà dire che suo padre è stato un fannullone, superbo soltanto del suo titolo di marchese. E se non vorrà essere un marchese contadino, come me, se vorrà fare tutt’altro.... non potrà dire che io abbia offuscato il nome dei Roccaverdina; non potrà dire....
Parlando, parlando, con foga che maravigliava lui stesso, il marchese sentiva di divagare, di fare uno sforzo per lottare contro la terribile fatalità che si rinnovellava quando già gli era sembrata esaurita; che riappariva inesorabile, quando già gli era sembrata per lo meno respinta assai lontano; che per bocca altrui (come quello stesso giorno a Margitello, o per mezzo della sua coscienza, allorchè egli aveva creduto di poter sfuggire all’ossessione del ricordo immergendosi nelle lotte municipali, negli affari, mutando condizioni di vita) veniva a sconvolgerlo, a turbarlo!... Il tempo, le circostanze, non valevano dunque niente?... E la sua voce si addolciva, intenerita dal pensiero che quella dolce creatura, singhiozzante sui guanciali perchè gli voleva bene, non chiedeva infine altra ricompensa all’infuori di un po’ di affetto, d’una buona parola, di un gesto di carezza; poco, quasi niente!... Ah! C’era qualcosa che gli aggelava il cuore, che gli irrigidiva la lingua, che rendeva duri i suoi modi, proprio nel punto ch’egli stava per manifestarsi veramente qual'era.... l’opposto di quello poi che appariva per la parola interdetta, per la carezza vietata.... E Zòsima doveva per ciò credere ch’egli non si accorgesse di nulla, che rimanesse indifferente alle sue smanie, alle sue torture, e che il passato.... Ah, se Zòsima avesse potuto sapere com’egli imprecava ogni giorno contro di esso!... Se avesse potuto sapere!...
E intanto continuava a parlare, a parlare, senza notare che, di mano in mano, la sua voce diveniva meno dolce, meno dimessa, e la parola egualmente, anche per lo sforzo di pensare nello stesso tempo a cose diverse; anche per lo sforzo maggiore, di resistere all’improvvisa tentazione di gridare alla marchesa: — Vi spiegherò.... Vi dirò. Tutto vi dirò! — tentazione che cercava di sostituirgli su le labbra queste alle altre parole che non spiegavano e non rivelavano nulla.
— Sentite, Zòsima!... Ascoltatemi bene. Io non posso vedervi piangere, non voglio vedervi piangere più! Mai più, mai più non voglio vedervi piangere. Siete la marchesa di Roccaverdina.... Siate fiera e orgogliosa come sono io. E non mi dite mai più, mai più, che dubitate di me, che non vi sentite amata; mi fate offesa grave; non la tollero.... La gelosia è da donnicciuola. La gelosia del passato è peggio che da donnicciuola.... Io ho bisogno di tranquillità, di pace; per ciò sono venuto a cercarvi. Vi ho stimata degna di questa casa, e non credo di essermi ingannato.... Capisco che non state bene; forse avete la febbre.... Domani manderò a chiamare il dottore.... e vostra madre che è donna di molto senno e saprà consigliarvi bene, ne sono certo.... Ma voi non avete bisogno che altri vi consigli, all’infuori di me. Dovete avere fiducia in me.... E questa sia l’ultima volta che noi ragioniamo intorno a un argomento così dispiacevole. Se mi volete bene, sarà così! Se non volete contristarmi, sarà così!
La sua voce era divenuta all’ultimo talmente severa che la marchesa, quasi intimidita, aveva cessato di piangere; e seguitolo un po’ con gli occhi, mentre a testa bassa, con la fronte corrugata e le mani dietro la schiena andava su e giù, davanti al letto, da un punto all’altro della camera, non potè fare a meno di accennargli di accostarsi.
— Perdonatemi! — gli disse. — Mai più! Mai più!
— Vedremo! — rispose il marchese seccamente.