Il Libro dei Re - Volume I/Il re Dahâk/III
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III. Nascita di Frêdûn.
(Ed. Calc. p. 31-34).
Lungo tempo trascorse, e già vicino
Era a l’estremo dì l’uom che le serpi
Attorte aveva a le sue spalle. Intanto
315Nascea dalla sua madre il fortunato
Fredùn gagliardo, per cui venne in terra
Nuovo costume allor. Crebbe quel prode
Come agile cipresso entro la selva,
E gli splendea di re dei re nel volto
320La maestà, chè di Gemshìd la luce
Viva brillava su quell’alta fronte,
Ed egli a questo sol che splende in cielo,
Veracemente era simìl. Qual pioggia
Che a tempo vien, comparve egli alla terra
325Oppressa e stanca; all’alme de’ mortali
Fu qual scïenza in un’angoscia estrema;
E il ciel volgea su lui rotando in giro
Placidamente, e nell’amor di lui
Compiacersi parea. Pur da que’ giorni
330La giovenca Birmàyeh ora di tutte
L’altre giovenche la più bella, e quando
Uscì dall’alvo della madre, in vista
Sembrò quale un pavon leggiadro e vago,
Chè ogni suo pelo d’un color diverso,
335Fresco e vivo, ora tinto. A lei dintorno
Si adunàr prontamente e sacerdoti
E astrologi e indovini e sapïenti,
Chè niuno in terra mai sì nuova e bella
Giovenca vista avea con gli occhi suoi,
340Né udita mai descrivere da saggi
O da vegliardi in molte cose esperti.
Piena frattanto di scompigli strani
Dahàk rendea quest’ampia terra e tutte
Le sparse regioni ei percorrea
345Fredùn cercando. Abtìn del pargoletto
Era il misero padre, ed era angusta
La terra a lui, grama la vita e trista.
Ei si fuggìa di qua di là, ma sazio
Divenne alfin del viver suo dolente
350E del fero leon cadde nel laccio
All’improvviso, chè gl’immani sgherri
Dell’empio un giorno l’incontràr soletto
E il presero, e qual belva di catene
Oppresso il trascinàr. Ma il trasse a morte
355Dahàk subitamente; e allor che il tristo
Fato vedea dell’infelice sposo
La saggia madre di Fredùn, costei
Che donna era preclara, alto ornamento
Dell’età sua, qual fortunata pianta
360Da cui, frutto giocondo, un re possente
Era nato alla terra, essa che nome
Franèk avea, prudente e accorta e piena
D’un caldo amor pel figlio suo bennato,
Venne, correndo e con la morte in petto
365E in ira al fato, ai solitari alberghi
Di gente ignota, alla campagna, al loco
Ove Birmàyeh, la giovenca illustre,
Per li boschi pascea, vaga e leggiadra
Nelle agili sue membra. E l’infelice
370Pregò al cospetto dolorosamente
Del guardian di quegli alpestri lochi,
E bagnando le gote e il sen di pianto
Così a lui favellava: Oh! tu ricevi
E proteggi per me questo fanciullo
375Lattante ancor, per alcun tempo. A lui
Padre tu sii, da me che gli son madre,
Il ricevendo con amor; lo nutrì
D’esta giovenca sì leggiadra e bella
Col puro latte. E se da me tu vuoi
380Mercede alcuna, è tua questa mia vita,
Quest’alma mia t’è pegno e t’è promessa
Per quel che da me brami, o generoso.
E il guardian di quelle selve antiche,
Della giovenca sì leggiadra e bella
385Fedel custode, a quella mesta e saggia
Donna rispose: Come schiavo innanzi
Al figlio tuo sarò, donna preclara.
Ciò che tu vuoi da me, con molto amore
Io sì farò. — Tra le sue braccia allora
390Franèk l’infante deponea piangendo.
E assai gli favellò, diè ammonimenti
Prudenti e saggi. E il semplice pastore
Per tre giri di sol, sì come padre,
Guardò l’infante e lo nutrì col latte
395Della giovenca sì leggiadra e bella.
Ma poiché di cercar sazio non ora
Dahàk in suo furor, mentre dovunque
Pel mondo si spargea l’inclita fama
Della giovenca sì leggiadra e bella,
400Corso a quei lochi solitari e ameni
Quella madre infelice e così disse
All’uom custode di sua fè: Pensiero
Sorse divino in me; ragion con senno
Il risvegliò. Consiglio che da Dio
405Ne vien, d’uopo è seguir, n’è v’ha riparo,
Chè una sol cosa è questo infante mio
Col mio spirto vital. Ma questa terra
Infida e rea, di magic’arti piena,
Fuggendo lascierò. D’India remota
410Al confin recherò questo fanciullo
Da questa turba scomparendo, e ai monti
Recherò dell’Albùrz il figlio mio.
Detto cotesto, il suo leggiadro infante
La mesta a sè raccolse e le cadenti
415Stille del pianto di sua doglia acerba
Si terse con la man. Qual messaggiero
Che ratto corre, il pargoletto infante
Ella via si portò, come gazzella
Che timida si tragge alla montagna
420Alta, inaccessa. Un uomo antico e pio
Stava sul monte, e niun pensier, nessuna
Cura il toccava mai di questa umile
Terra quaggiù. Franèk gli disse allora:
Uom solitario e pio, dolente e mesta
425Fino al tuo piè vengo d’Irania. E sappi
Che questo infante mio, germe preclaro
D’antichi re, d’un popolo gagliardo
Signor primo sarà. Torrà costui
A Dahàk la corona, e il suo regale
430Cinto, qual pegno di una età più lieta,
Alla terra imporrà. Tu il custodisci,
Padre gli sii, ma padre, che pei giorni
Del picciol figlio suo si affanna e trema.
E quell’uom generoso al sen l’accolse,
435Nè lasciò mai che aura importuna o grave
Giugnesse fino a lui. Toccò frattanto
Novella certa all’arabo signore,
Prence sciaurato, di que’ paschi ameni
E di Birmàyeh ancor leggiadra e bella;
440Ed ei venne bramoso e orrida fiera
Pareva in suo furor. Tosto atterrava
Birmàyeh al suol, la nobile giovenca,
Tutti atterrava quanti ei là scoverse
Quadrupedi pascenti, e il solitario
445Loco ne disgombrò. Corse affrettato
A l’ostel di Fredùn rapidamente,
Molto cercò, ma non rinvenne alcuno;
Sì che il fuoco ei destò per voglia rea
Nel vuoto albergo ed atterrò le case.
450 Ma poi che giunse all’anno sedicesmo,
Dalle vette d’Albùrz venne quel prode
Alla vasta pianura, e con intensa
Brama Fredùn così a cercar si volse
L’antica madre sua: Deh! tu mi svela
455Il secreto del cor, deh! tu mi narra
Qual fu l’illustre padre mio, di quale
Stirpe son io, di qual semenza. Innanzi
A questa gente, qui, che dir potrei?
Deh! con alto saper tutta mi esponi
460L’antica istoria! — Ciò che a me tu chiedi,
Franèk rispose, io ti dirò. Ben sappi
Che in Irania già visse un uom prestante;
Abtìn fu il nome. Era di prenci antichi
Inclito germe, vigile e prudente,
465Eroe gagliardo che a nessun giammai
Danno recò per voglia trista. Il sangue
Da Tahmuràs avea, l’antica stirpe
Rammentando in suo cor di padre in padre.
Questi fu padre a te, sposo giocondo
470A me già un tempo, e soltanto per lui
Era a quest’occhi miei sereno il giorno.
Ma gl’indovini che degli astri il corso
Contemplano su in ciel, dissero un giorno
A re Dahàk: «Sì! da Fredùn la morte
475A te, prence, verrà». Dissero, e il crudo,
Di magic’arti gran maestro, stese
La man da Irania a trucidarti. Allora
Io da lui ti nascosi. Oh! quanti giorni
Infelici io passai, chè il padre tuo,
480Giovane ancor, sì forte e sì prestante.
Per te donò la cara vita. Sorgono
Di Dahàk da le spalle, orrido mago,
Due negre serpi; e venne gran sterminio
All’iranico suol, che al padre tuo
485Fûr tratte ancora le cervella, e un cibo
Ne fu addotto così dai regi scalchi
Agli orridi serpenti. Io m’involai
Dal loco infesto. In una selva oscura,
Là ’ve nessuno penetrar potea
490Nemmen pensando, ebbi soggiorno, e vidi,
Vidi in que’ lochi una giovenca eletta
Qual primavera dilettosa e vaga,
Tutta coperta di vivaci tinte
Dal capo al pie. Dinanzi a lei sull’erba
495Sedeva il guardïan, le gambe insieme
Raccolte, qual signor de’ lochi ameni,
In molta pace. A lui ti diedi, e lunga
Stagion si volse poi. Quei ti nudriva
Con molto amor nel grembo e il latte intanto
500Della giovenca ti porgea che bella
Era ne’ molti suoi color diversi,
Come altero pavon. Tu a me crescevi
Qual fiero alligator. Ma l’empio sire
Ebbe novella di que’ paschi alfine,
505Della giovenca ebbe notizia allora.
Io t’involai dalla foresta e il piede
Rivolsi in fuga dall’irania terra,
Dalla casa de’ miei. L’empio signore
Corse a que’ lochi, e la nutrice tua,
510Ben che muta così, dolce mai sempre
Amorosa nutrice, a morte ei trasse,
E fino al cielo sollevò di nostre
Case distrutte la rotante polve,
Pareggiandone al suol le torri eccelse.
515 Arse di sdegno a quel racconto il prode
Giovinetto. Ascoltava ei dalla madre
Avidamente ogni parola, e l’ira
Cresceva in lui. Trafitto il cor, la mente
Da un sol pensier di sangue e di vendetta
520Signoreggiata, le sue fosche ciglia
Su la fronte aggrottando, egli in tal guisa
Le diè risposta: Forte non si rende
Generoso leon se tu nol provi.
Tutta or compiea la voglia sua quel tristo
525Di magic’arti gran maestro; il ferro
Or tocca a me. Con quello in pugno, Iddio
Seguendo e il cenno suo, l’empia dimora
Di re Dahàk distruggerò dall’alto.
Oh! sconsigliato, rispondea la madre;
530Vano pensiero è il tuo, nè tu potrai
D’un ampio regno e della terra tutta
L’armi infrenar. Non sai che trono e serto
Dahàk possiede, che infinito esercito
Attende un cenno suo, che per far guerra,
535Pur ch’ei le chiami, da ogni terra a mille
Sorgon sue schiere? Ben dà ciò diverso
È di tua gente il pensiero e il costume,
Altra è la guerra! Ogni più grave cosa
Non giudicar dei teneri anni tuoi
540Col senno giovanil. Chi de’ primi anni
Gustò il fervido vin, nessun nel mondo
Vede fuor che sè stesso, e alfin dell’opra
Cade vittima ei pur di quella prima
Effervescenza dell’età inesperta.
545Scorran felici, scorrano beati
I giorni tuoi, ma tu ricorda il savio
Consiglio mio. Le cose tutte, o figlio,
Son vento inane, so pur togli il detto
Di quella sì che ti fu madre un giorno.