Il Libro dei Re - Volume I/Il re Dahâk/IV

Il re Dahâk - IV. - Il fabbro-ferraio

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Il re Dahâk - III Il re Dahâk - V
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IV. Il fabbro-ferraio.

(Ed. Calc. p. 34-38).


550     Avvenne allor che sempre le sue labbra,
E notte e dì, schiudea Dahàk nel nome

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Di Fredùn sì tremendo. In sua grandezza
Temea la sua caduta, e pien d’angoscia
Pel predetto nemico era quel core.
555E un giorno fu ch’egli, sedendo in trono
Di sculto avorio (la regal sua benda
In fronte gli lucea di bei turchesi),
Raccolse da ogni parte i sacerdoti
E al vacillante suo poter sostegno
560In lor fede cercò. Diss’egli ai saggi:
     Antichi saggi, per virtù, per alta
Stirpe famosi in nostra terra, un fiero
Nemico a me sta nell’agguato, e a tutti
I saggi è questo ver ben noto e aperto.
565Giovinetto egli è ancor, ma sapïenza
Di antico gli sta in cor, prence gagliardo
Per nascimento, ardimentoso eroe
Nell’opre grandi del suo braccio. E disse
Un sacerdote, di virtù maestro,
570Nella presenza degli eroi, che, d’anni
Ben che tenero sia tal giovinetto,
Giovinetto nemico e imberbe ancora
Stimar non dobbiam noi vile e dappoco.
Nè il dispregio però, ben che fanciullo,
575Ma temo sì della fortuna avversa
L’arti mal fide; e ben sarà s’io vegga
Raccòrsi qui d’eroi, di combattenti
Maggior drappello, a me fedel, di Devi
E d’alate Perì, d’uomini ancora
580In armi esperti. Esercito infinito
Io leverò; vogl’io che con le genti
S’accapiglino i Devi. Intanto voi,
Voi con me v’accordate. Io già non valgo
A sopportar lo stato mio. Ma un foglio
585Segnate voi dinanzi a me; si attesti
In quel foglio per voi che la semenza
D’opre soltanto commendate e belle

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Sparse il vostro signor, che mai parola
Non pronunciò che vera anche non fosse,
590Che nessun danno ebbe da lui giustizia.
     Tutti que’ saggi allor per timor grave
Che aveano in cor dell’arabo signore,
Giovani e vecchi insiem, sovra quel foglio
Scrisser lor nomi asseverando il falso
595Dir di cotal dagli orridi serpenti.
Ma là sul regio limitar, di doglia
Strido s’intese, d’uom che ad alta voce
Chiedea giustizia. Di Dahàk fu addotto
L’infelice al cospetto, e ai prenci accanto
600Dato un loco gli fu. Ma quel possente,
Con fier cipiglio e corrugata fronte,
Dimmi, gridò, da chi t’avesti offesa!
     Alto diè un grido e per l’arabo prence
Ruppe in lamenti: O re, Kàveh son io
605Che giustizia ti chieggo. Oh! tu mi rendi
Giustizia, o re, che qui correndo venni
E piangendo qui sto con desolata
L’anima mia per te. Che se t’è ufficio
Render giustizia a chi la chiede e implora,
610D’assai crescer dovea la tua possanza
Su questa terra. Ma venìa l’offesa
Da te solo, o signor, sì che nel core
Sempre e sempre per te mi sia confitta
Atroce punta di dolor. Se questo
615Non era il voler tuo perch’io dovessi
Sì gran danno patir, perchè la mano
Stender sui figli miei? Deh! tu li rendi,
Li rendi all’amor mio. Guarda l’affanno
Di me infelice, di cui sempre afflitta
620L’anima resterà. Deh che fec’io?
Che feci, o re? Dillo, se il sai. Ma colpa
Se in me non trovi, a che cercar pretesti
E scuse mendicar? Ben tu riguarda

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All’orrendo mio stato, e la sventura
625Che già già ti minaccia, assai più grave
Non far così per te. Vedi che il rio
Destino il dorso m’incurvò, che ancora
Vive sperando il cor, ma la memoria
È piena di dolor. La giovinezza
630Non mi restò, per me non son più figli,
E vincolo non è quaggiù nel mondo
Pari a quel della prole. Ha l’ingiustizia
Mezzo e confin; per adoprarla, grave
Cagion trovar si dee. Ma tu qual mai
635Cagione avevi? E se l’avesti, fuori,
Fuori l’esponi e dì, l’alta cagione,
Per cui tanta su me sorte malvagia
Meditavi di duolo. Umil son io,
Povero fabbro, e vennemi sul capo
640Dal mio signor divoratrice fiamma.
Che se prence sei tu, se due serpenti
Rechi, segno del ciel, sulla cervice,
T’è pur forza a me ancor render giustizia
E l’offesa purgar. Prence di sette
645Regïoni del mondo esser ti vanti;
Deh! perchè sarà mia del duol soltanto
La trista eredità? Grave, o signore,
È la ragion che rendermi t’è forza,
E stupir ne dovrà tutta la terra,
650Che allor, per tal ragion, chiaro farassi
Che al dì che giunse a’ figli miei tal sorte,
Lor tenere cervella a’ tuoi serpenti
D’uopo fu dar, dinanzi al popol tuo!
     Mentr’ei così dicea, Dahàk guardava,
655E gli nascea per quegli accenti in core
Gran meraviglia. A Kàveh il figlio suo
Reso fu allor; cercàr di farlo amico
Per promesse e lusinghe i circostanti,
E cenno il re gli fea ch’ei pur sul foglio

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660Testimone gli fosse innanzi a Dio.
Ma Kàveh, appena il lesse, a quo’ vegliardi
Si volse in gran disdegno, e, Voi, sclamava,
Seguaci abietti d’un impuro Devo.
Timor di Dio dal vostro cor perverso
665Cancellaste così? Tutti io vi scorgo
Precipitar d’inferno all’ime chiostre
Così oprando, voi sì, chè ai detti suoi
Fidaste il core. Ma non io su questo
Foglio dinanzi a Dio sarò per lui
670Testimone giammai. Nessun pensiero
Di tal re forsennato il cor mi tocca.
     Balzò dal loco suo, tremante, ansante,
In alte grida di furor; quel foglio
Lacerò quindi e calpestò sul suolo.
675E col diletto figlio suo che innanzi
Gli andava, uscì dalla regal dimora,
Gridando scese nella via. Ma i prenci
Fecer plauso a Dahàk. Di nostra terra
Inclito re, dicean sommessi, al giorno
680Della pugna, fatal, deh! mai non venga
Dalle plaghe del ciel procella avversa
A colpirti la fronte. Oh! perchè mai
Nella presenza tua, quasi un eguale,
Entrar potrà costui, Kàveh ciarliero,
685Acceso il volto? Il foglio che noi tutti
Legava a te, signor, dal tuo comando
Sè disciogliendo, ei lacerò. Partissi
Pien di corruccio il cor, sì che diresti
Che un patto con Fredùn già il lega e stringe.
690Ma noi cosa peggior mai non vedemmo,
E nostr’alma si perde in ciò confusa.
     Stupenda cosa udrete voi, rispose
L’indclio re. Poi disse a que’ vegliardi:
Or sì temo davver che si converta
695In tenebre d’orror quest’alma luce

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Del dì giocondo!... Allor che da le soglie
Kàveh mostrassi e il grido suo gli orecchi
Acutamente mi ferì, nel mezzo
Di quest’aula regal, tra me, tra lui,
700Levossi un monte di solido ferro
Veracemente. E allor ch’ei si percosse
Il capo con la man, questo mio core
Parve spezzarsi per non so qual forza
Misterïosa... Ma qual mai sovrasti
705La sorte a noi, chiaro non è, chè sciorre
Del ciel gli arcani a niun fu dato in terra.
     Così proruppe da la reggia il fabbro,
E intorno a lui per le affollate piazze
Turba infinita si raccolse. Un grido
710Ei là in mezzo levò chiedendo aita,
Tutta del mondo a richiamar la gente
A più retto sentieri Ma quell’adusto
Cuoio onde i fabbri lor ginocchia e stinchi
Copronsi allor che a martellar si stanno
715Su l’incude sonante, egli d’un’asta
Legava a sommo, e sorse alto scompiglio
E negra polve da le vaste piazze.
Ed ei, quell’asta nella man serrata,
Venìa gridando: O glorïosi, o prodi,
720Fedeli a Dio, ciascun di voi che sente
Affetto in core per Fredùn, che i ceppi
Infranger brama di Dahàk, ne venga,
Venga con me sino a Fredùn, riposi
Di quella maestà con meco all’ombra.
725Venga ciascun di voi, che veramente
È Ahrimane costui, nemico a Dio
Nel profondo del cor. Per questo vile
Adusto cuoio si parrà ben chiara
Qual d’amico sia voce e qual d’avverso.
730     E tutti ei precedea, quell’uom gagliardo,

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Nè s’adunò su l’orme sue di gente
Picciola schiera. Ei ben sapea qual loco
A Fredùn fosse albergo, e là si volse
E corse ratto al segno suo mirando,
735Fin che le soglie a valicar pervenne
Del giovinetto re. La gente accolta
Da lungi il vide, e voci alterne udironsi.
     Vide quell’asta e vide quell’antico
Cuoio il novello re, sì che ne trasse
740Di lieta sorte lieto augurio. Il volle
Adorno allor di serico broccato
Tessuto in Grecia, ove in lucenti gemme
Eran figure sovra un aureo fondo,
E quale è il disco della bianca luna
745Sul suo capo il levò. Di bella sorte
Quel fu principio al nobil prence. Il cuoio
Egli adornò di panni vïoletti,
Di verdi e rossi, e lo chiamò Vessillo
Di Kàveh. Da quel dì, quando un novello
750Prence d’Irania alto sedea sul trono,
Allor ch’egli cingea l’aurea corona
Di re dei re, sul vile cuoio adusto
Una gemma ei ponea sempre novella,
E drappi di broccato e di lucente
755Seta ancor vi aggiugnea. Tale divenne
Di Kàveh quel vessil, che nella oscura
Notte splendea sì come sol nel cielo,
E ne traea di più gioconda sorte
Lieta speranza in cor sempre la gente.
760     Dopo cotesto, tempo ancor si volse
Le cose da venir tenendo ascose.
Ma Fredùn che vedea della sua terra
Misero stato e comandar per l’ampie
Regïoni del mondo un tristo sire,
765Dahàk superbo, corse alla sua madre
Cinto dell’armi e con un casco d’oro,

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Degno di re, su l’alta fronte, e disse:
     Madre, dègg’io partir, chè aspra tenzone
Mi attende, e tu lo sai. Nessuna cura,
770Fuor che dinanzi a Dio chinar la fronte,
Ti alberghi in cor. Di questa terra umile
È assai più in alto Iddio. La man solleva
A lui soltanto nella tua distretta.
     Pianse la madre a quegli accenti, e a Dio
775Così pregò nel suo dolor: Io questo
Diletto figlio mio, Signor del mondo,
Accomando a tua fè. L’opre dei tristi
Dall’alma sua lungi rattieni, e libera
Da ogni stolto mortal rendi la terra.
780     E del partir rapidamente allora
Fredùn all’opre attese; in core intanto
Alto secreto ne tenea. Ma due
Generosi egli avea cari fratelli,
Compagni suoi, d’età maggiori. Il primo
785Keyanùsh si dicea, l’altro Purmàyeh
Di lieto cor. Quel suo secreto allora
Disvelava ei così: Lieti mai sempre
Viver possiate voi, dolci fratelli,
Chè a lieta sorte volge omai quest’alto
790Cielo soltanto, e nostro serto illustre
Renduto a noi sarà. Qui m’adducete
Incliti fabbri. Essi una ferrea clava
Batter mi denno ponderosa. — Avea
Le labbra aperte, e già partìan correndo
795I due fratelli. Scesero a le piazze
De’ fabbri adusti, e qual de’ fabbri un chiaro
Nome in terra chiedea, corse bramoso
Di Fredùn all’ostello. Acuta in mano
Una sesta prendea l’inclito sire
800Rapidamente, e di sua clava tutta
La foggia lor svelò, ne disegnando
Su l’alta polve la figura in terra,

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Qual è d’una giovenca il capo eretto
805Con ardue corna. Stesero la mano
All’opra i fabbri con intenta voglia,
E poi che tutta della ponderosa
Clava fu l’opra a fin condotta, in folla
Nella presenza del signor novello
810Festosi la recâr, sì come sole
Che fiammeggia nel ciel, tutta splendente
D’un arcano fulgor. Piacque l’industre
Opra de’ fabbri al giovin prence, e molto
Oro ed argento lor donò con vesti,
815Ravvivando nel cor la morta speme
In più lieto avvenir, giorni sereni
Annunzïando. Se avverrà, dicea,
Ch’io sotterri l’orribile serpente,
Dalla polve del duol la fronte vostra
820Purificar saprò. Tutta la terra
Novellamente menerò a giustizia,
Invocando di Dio l’augusto nome.