Il Governo Pontificio o la Quistione Romana/Capitolo 12
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CAPITOLO XII
Il Governo dei Preti.
Se il Papa fosse solo capo della Chiesa, e l’azione sua stesse tutta nell’interno dei sacri recinti, rinunzierebbe il governo delle cose temporali (di che non intende un jota ), ed i suoi compatrioti di Roma, di Ancona e di Bologna potrebbero governarsi da sè stessi, siccome facciamo noi a Londra o a Parigi. L’amministrazione sarebbe laicale, la giustizia e la finanza laicali; e la nazione sopperirebbe ai propri bisogni coi propri redditi, seguendo l’andazzo di tutti i paesi civili.
In quanto alle spese generali del culto cattolico, che non tocca più da vicino il Romano che l’Americano, volontaria contribuzione fornita da 139 milioni d’uomini vi provvederebbe ampiamente. Se ciascun fedele desse un soldo all’anno, il capo della Chiesa avrebbe la bagattella di sette milioni a spendere per candele, incenso, salario de’cantori, regali ai sacrestani, e riparazioni della basilica di San Pietro. E nessun cattolico ricuserebbe il danaro-soldo, avvegnachè il Santo Padre, rimoto siccome gli Apostoli, dalle faccende di questo mondo, non sarebbe a mali termini o in iscrezio con chicchessia. Cotesta imposta-soldo darebbe ai Romani l’ indipendenza senza scemar d’un bossolo quella del Papa.
Ma sventuratamente il Papa è re; e come tale, vi vuol corte e cortigiani, che hanno ad essere uomini della stessa risma: nulla più logico. La corte del Papa agogna anch’ella ad immedesimare spirituale e temporale, e disporre a talento degl’impieghi dello Stato. Può forse il Sovrano dichiarar strana una tal pretensione? Arroge, ch’ei spera (e si appone ) d’esser servito più fedelmente da preti. Arroge, che la rendita de’ più alti impieghi e meglio retribuiti è necessaria allo splendore di sua corte.
Di che séguita, che confortare il Papa alla secolarizzazione del governo, gli è predicare la castità in chiasso. Cotest’uomo che non ha voluto esser laico, che compiange i laici di esser tali, e considerali come casta inferiore alla propria, che ha avuta educazione antilaicale, che pensa, nelle maggiori questioni, differentemente dai laici, di quell’impero in cui è assoluto signore, volete voi che egli divida coʻlaici il potere? Che si circondi di tal fatta gente, che chiamila ne’ suoi consigli, e ad essa affidi l’eseguimento dei proprii voleri? Che cosa farà egli? Se ha paura di voi, se ama accoccarvela, se gli preme farsi credere animato da buone intenzioni, cercherà nei mezzanini de’suoi ministeri qual che laico privo di none, di carattere, di talenti; porrà poi in mostra la di lui nullità, e ne farà pompa; quindi, presane l’ esperienza, vi dirà in piglio melanconico: «Or che volete? ho fatto quant’ho potuto.» Che se fosse ardito, intraprendente, e da non istarsi con le mani in mano, ei vi direbbe dalla prima parola: « Ponete pure un laico nel mio posto, se volete secolarizzar qualche cosa.»
A vero dire, nel 1859, il Papà non adopererebbe si stringente discorso. Intimidito dalla protezione di Francia, sbalordito dalle doglianze unanimi de’ suoi sudditi, ridotto a concedere alcun che all’opinione pubblica, ei protesta che ha tutto secolarizzato. «Guardate attenti, ei dice; contate i miei impiegati. Ne ho 14,576 laici; esercito a pezza maggiore dei soldati. Vi han contato che gli ecclesiastici assorbivano tutti gl’impieghi: or, dove sono essi? Il signor di Rayneval, per cercar che abbia fatto, è giunto, a stento, a contarne 98, dei quali buona metà non sono preti! Uo stesso ho decretato l’ammessibilità dei laici in tutti gl’impieghi, salvo un solo. Ed a far prova di buonvolere, ho per alcun tempo tenuto ministri laici. Ho affidato la finanza ad un semplice contabile, la giustizia ad un oscuro avvocatuzzo, la guerra ad un uom d’ufficio, che aveva servito in qualità d’intendente presso parecchie Eminenze. Al presente, confessolo, non abbiamo laici al ministero, ma la legge non mi vieta di nominarne, lo che è grande consolazione per i sudditi miei. Nelle provincie ho nominato perfino tre prefetti laici sopra diciotto! Che se poi ho ad essi surrogato prelati, gli è, perchè i popoli me ne dimandavano incessantemente. Che colpa ho io se le genti hanno solamente rispetto per l’abito ecclesiastico?»
Tale sistema di difesa potrà trarre in inganno qualche dappoco; ma a pari che se fossi Papa, o Secretario di Stato, o solo partigiano dell’amministrazione pontificia, direi schietta e tonda la verità. Ella è logica, e conforme al principio del governo, ella emerge dalla Costituzione. Le cose sono davvero ciò ch’elle hanno ad essere, se non pel bene del popolo, certo per la grandezza, la sicurezza e la soddisfazione del suo capo temporale.
Maisì; tutti i ministri, tutti i delegati, tutti gli ambasciatori, tutti i dignitarii della corte e tutti i magistrati dei tribunali superiori sono ecclesiastici.
Maisì; l’auditor santissimo, il secretario dei Brevi e de’ Memoriali, i presidenti e vice- presidenti del consiglio di Stato, della consulta e delle finanze, il direttor generale di polizia, quello della pubblica sanità e delle prigioni, il direttor degli archivii, il procurator generale del fisco, il presidente della commissione di agricoltura sono tutti ecclesiastici. L’istruzion pubblica è nelle mani degli ecclesiastici, sotto l’alta sorveglianza di tredici cardinali. Tutti gli stabilimenti di beneficenza, tutti i beni dei poveri son patrimonio di ecclesiastici direttori. Le congregazioni cardinalizie giudicano dei processi a tempo perduto, ed i vescovi del regno sono altrettanti tribunali ambulanti. Perchè mai dissimulare all’Europa un ordine di cose si naturale? É forza ch’ella sappia il ben che ha fatto ricollocando un prete sul trono.
Ogni impiego che produce potenza o profitto appartiene, prima, al Papa; dipoi, al secretario di Stato, quindi ai cardinali, ultimamente ai prelati. Ciascuno, nell’ordine gerarchico, tira acqua al suo molino, e quando le parti sono fatte, gettansi alla nazione quei frustoli di potere che niuno ecclesiastico volle per sè, ed eccovi i 14,576 impiegati d’ogni sorta, massime di guardie campestri! Ne maravigliate di cotesta distribuzione, pensando in buon punto che, nel governo di Roma, il Papa è tutto, il secretario di Stato quasi-tutto, i cardinali qualche cosa, i prelati in via di divenir qualche cosa; ma la nazion laica, che ha moglie e figliuoli da nutricare, non fu, non è, non sarà mai altro che un nonnulla!
La parola prelato m’è venuta giù dalla penna, e debbo dichiararla. È titolo assai onorato in Francia, non altrettanto a Roma. Noi non abbiamo altri prelati, che arcivescovi e vescovi. Allorquando uno di cotesti uomini venerabili esce dal suo palagio in un cocchio antico, a passo lento, sappiamo, senzaché altri lo dica, che il buon uomo ha consumato tre quarti di sua vita nelle più meritorie fatiche. Egli diceva la messa in un villaggio prima d’essere curato. Ha confessato, predicato, associato i trapassati al cimitero, recato il viatico agl’infermi, distribuito la limosina ai poverelli. Il prelato romano è spesso un giovinotto che esce dal seminario con non altri ordini che la ionsura: ha una laurea in qualche facoltà, una piccola rendita, ed entra nella Chiesa da dilettante, per saggiare se può farvi suo cammino. Il Papa gli consente il titolo di monsignore in luogo di signore, e l’uso delle calzette pavonazze. In tal modo calzato, si pone in via; ed eccolo di portante verso il cappello cardinalizio. Passa pe’ tribunali, o per le amministrazioni, o per l’ordine dell’intimo servidorame del Vaticano: tutte le vie sono buone, purchè facciasi ostentazion di zelo e di pio disprezzo delle idee liberali. La vocazione ecclesiastica (cotest’anticaglia di san Paolo) non si esige a rigore; ma non si sta nella caldaia senza buona provvigione d’idee retrograde. Il prelato, che prendesse sul serio la lettera dell’Imperatore ad Edgardo Ney, saria uom perduto; e, deposto il nicchio, potrebbe pur ammogliarsi; imperciocchè si mena donna nel tempo in che si dispera di toccare il segno. Un ambizioso scoraggiato a Parigi si suicida; a Roma si ammoglia.
Il prelato è pur talvolta cadetto di grande famiglia; e la sua casa è di quelle che hanno diritto al cappello. Ei lo sa. Il giorno che mette le calze violacee è pur quello in cui può ordinare, in anticipazione, le rosse. Frattanto comincia suo tirocinio; fa buon tempone e getta le pastoie. I cardinali chiudono gli occhi sulla sua condotta, a condizione chg'egli abbia sane idee. Fa come ti aggrada, figliuol di principe, ma il tuo cuore sia clericale, veh!
Neanche è raro trovar fra’prelati alcuni cavalieri d’industria, avventurieri della Chiesa, tirati fuori da’loro paesi dalla ambizione delle grandezze ecclesiastiche. Al qual corpo di volontarii tutto l’universo cattoilico arreca suo contingente, Cotesti messeri danno al popolo romano bellissimi esempi di costume; ed io ne conosco ai quali le madri di famiglia punto non affiderebbero l’educazione de’loro figliuoli. Mi è avvenuto di ritrarre in una novella un prelato meritevole della forca; or bene, la buona gente di Roma me ne ha nominati tre o quattro che credeva ravvisare nel mio ritratto. Ma ciò che non si è mai udito, è che un prelato, per rotto che sia ad ogni vizio, faccia professione d’idee liberali. Una parola sfuggita di sua bocca in pro della nazione rovinerebbelo.
Il signor di Rayneval ha sprecato molto ingegno per dimostrare che i prelati, non avendo il sacramento dell’Ordine, appartengono all’elemento laicale. E perciò dovrebbe ogni provincia estimarsi in cima della felicità, e credersi esente dal governo dei preti, e ogni quando le si largisce per prefetto (che costì dicono delegato) un tonsurato. In quanto a me, io non veggo in che sieno i tonsurati più laici de’preti. Eglino non han vocazione, nė virtù di sacerdote: ma posseggono idee, interessi e passioni della casta pretesca. Eglino hanno gli occhi rivolti al cappello rosso, se pure la sfrenata ambizione non si elevi fino alla tiara: nuova razza di laici, in fè di Dio, e nati fatti per ispirar fiducia in popolo laico! Meglio cento volte fossero cardinali; non avrebbero ad assicurare la loro fortuna, e quindi lo zelo contro la nazione andrebbe più rimesso.
Poiché, non serve a dire, qui giace Nocco! La casta ecclesiastica, cosi maravigliosamente organata nei legami di una sapiente gerarchia, regna in paese di conquista. E conseguentemente tiene la classe mediana, ossia la parte intelligente e laboriosa della nazione, in concetto di irreconciliabilmente nemica. I delegati pertanto non han mandato di amministrare, si di raffrenar le provincie. La polizia non protegge, ma sorveglia il cittadino: i tribunali hanno bene altri interessi a difendere che quelli del giusto: il corpo diplomatico non rappresenta una nazione, sibbene un partito: il corpo insegnante ha compito non d’istruire, ma d’impedire l’istruzione: le imposizioni non sono un riparto razionale, ma un ladroneccio ufficiale a profitto dei preti. Ponete a rassegna tutte le parti della pubblica amministrazione: incontrerete ogni sempre, ogni dove l’elemento clericale alle prese con la nazione, e trionfante dalla A alla ZETA.
In simile stato di cose, e al tutto inutile dire al Papa: «Nominate agli impieghi rilevanti i laici.» Sarebbe come dire all’Imperatore d’Austria: «Date in custodia le vostre fortezze ai Piemontesi.» La romana amministrazione è ciò, che debb’essere; e rimarrà cosi, finchè vi sarà Papa in trono.
Da altro canto, sebbene la popolazione laica querelisi d’essere per sistema esclusa dal potere, pure le cose sono giunte a tale che un uomo onorato della classe media riputerebbe disonorarsi accettando un alto impiego: direbbesi ch’ei tradisce la nazione per servirne il nemico.