Il Fiore delle Perle/7. A bordo della tow-mêng
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Capitolo VII
A bordo della «tow-mêng»
Quattro giorni dopo, cioè il 26 aprile, la tow-mêng, che si era tenuta sempre fuori di vista dalle coste di Mindoro, per tema d’incontrare qualche cannoniera spagnuola mandata sulle sue tracce dalla polizia manillese, superato il passo occidentale di Apo, avvistava le spiagge di Busuanga, la prima e anche la più grande delle isole Calamine.
Questo piccolo arcipelago che si trova fra le coste meridionali di Mindoro e quelle settentrionali della lunghissima e stretta isola di Palauan o di Paragua, si compone di diciassette isole, ma tre sole hanno una superficie notevole, e cioè Busuanga, che è la maggiore, Calamian e Penon de Coron, che è la più piccola. Le altre sono quasi tutti isolotti, pochissimo abitati e cinti per lo più di scogliere che ne rendono difficile l’approdo anche alle navi di piccola portata.
La popolazione di tutte queste isole, di poco supera le ventimila anime. Sono tutti coltivatori che traggono, da quelle terre fertilissime di che vivere abbondantemente con poca fatica, ma nell’interno vi sono delle tribù d’igoroti, ossia di selvaggi dalla pelle nera, i quali vivono quasi indipendenti e godono fama di essere cattivissimi, inospitali.
La tow-mêng, che malgrado le sue forme massicce e la sua velatura quasi primitiva, teneva bene il mare, avendo avuto fino allora tempo favorevole e buon vento, appena avvistata la punta Coconongon di Busuanga, chiuse parte delle sue vele per rallentare la marcia. Non era prudente mantenere troppa velocità in quel mare cosparso d’isole, d’isolotti, di banchi e di scogliere pericolosissime.
Rilevata la punta, il vecchio chinese mise la prora verso il sud-est, in modo da passare fra la costa dell’isola e le due minori di Tara e di Bantac.
Il tempo era splendido ed il mare tranquillo. Non una nube su quel cielo d’un azzurro brillante, d’una purezza meravigliosa, saturo di luce, la quale si rifletteva sulla superficie marina con degli scintillìi abbaglianti che ferivano gli occhi.
Una brezzolina fresca, che soffiava da tramontana, mitigando gli ardenti raggi del sole, spingeva la giunca verso il sud-est con una velocità di quattro nodi all’ora, gonfiando le enormi vele di giunchi intrecciati.
Hong e Than-Kiù, seduti sull’alta prora, sotto una tenda che li riparava dall’intenso calore, guardavano con viva curiosità le alte spiagge di Busuanga che spiccavano nettamente sul luminoso orizzonte; le giunche di varie specie veleggianti verso la grande Calamina; i rapidi e leggeri prahos scivolanti, come giganteschi farfalloni dalle ali dipinte in rosso cupo a striscioni neri, sulla calma superficie del mare.
Di quando in quando il chinese, che in gioventù, al pari di quasi tutti i suoi compatrioti della costa, aveva percorso i mari della China, indicava alla giovanetta grandi stormi di pesci che venivano a guizzare attorno alla giunca, scherzando fra la spuma.
Erano coppie di diodon, pesci assai strani, che abbondano in quelle tiepide acque della zona torrida, naviganti col ventre in su e che di tratto in tratto ingoiano un’abbondante provvista d’aria, diventando allora rotondi come palle o meglio come i ricci, poichè i loro corpi sono irti di punti acuti, specie di spine biancastre a macchie nere o violacee; o mostrava delle truppe di serpenti di mare lunghi un buon metro, di forma cilindrica, colla pelle bruno-nera sopra e bianco-giallastra sotto e la coda piatta, affatto inoffensivi, poichè hanno la bocca così stretta che riesce loro assai difficile il mordere, ma velenosissimi a mangiarsi; o dei banchi di bellissime meduse col disco coperto di granulazioni brune, galleggianti come ombrelli.
Talvolta però non erano sempre dei pesci inoffensivi che venivano a divertirsi fra la spuma della prora o la scia candida della tow-mêng. Apparivano anche dei grossi pesci-cani del genere charcharias, mostri pericolosi, lunghi cinque o sei metri, con certe bocche capaci di tagliare in due l’uomo più robusto come un semplice fuscello.
La tow-mêng però, spinta da quel vento fresco, li lasciava ben presto a poppa, essendo occupati ad inseguire delle bande di pesci volanti, e s’allontanava rapidamente verso il sud, accumulando miglia su miglia.
Già aveva perduto di vista le alte coste di Busuanga e s’inoltrava in quel mare racchiuso fra le isole di Palauan, di Mindoro, di Panai e le coste settentrionali di Mindanao, conosciuto sotto il nome di Mare di Sulù o di Jolo, è uno dei più difficili a percorrersi in causa delle numerose isole e dei numerosi banchi che lo coprono ed uno dei più pericolosi, poichè anche oggidì i pirati malesi e sululani non vi mancano.
Tseng-Kai, pratico di quel mare, conosceva così bene i pericoli che poteva correre la tow-mêng, che non abbandonava un solo istante il ponte. I suoi sguardi acuti si fissavano attentamente su tutti i velieri che apparivano all’orizzonte e se aveva qualche sospetto su qualcuno, si affrettava a cambiare rotta per tenersi molto lontano.
Non sono molti anni che le Sulù ed anche le isole Cuyo erano ancora nidi di formidabili pirati, i quali scorrevano quasi impunemente il mare, mostrando fieramente la loro bandiera, sulla quale spiccavano le porte della Mecca in campo rosso e argento.
I cannoni spagnuoli sono riusciti a domarli, specialmente dopo i terribili bombardamenti del 1847, ma non a completamente vincerli, e quando sanno di essere sicuri dall’impunità, assalgono ancora con grande coraggio i piccoli velieri, specialmente quelli chinesi che sono sempre così numerosi in quel mare.
Fortunatamente la giunca non aveva fino allora incontrato che delle tranquille navi mercantili, che d’altro non si occupavano che di guadagnare via più presto che potevano.
Di tratto in tratto qualche clipper americano od inglese, rapidissimi velieri adibiti al trasporto del thè e che hanno una carena così stretta ed uno sviluppo di vele così straordinario da poter ottenere delle velocità incredibili, di dieci e perfino undici miglia all’ora, appariva all’orizzonte per poi sparire quasi subito.
Talvolta invece erano vere flottiglie di navi chinesi naviganti di conserva per maggior sicurezza, di ts’ ao chwan ossia grosse giunche dai fianchi larghi e la prora assai rigonfia, di ta-ju-chwan ossia di grosse barche da pesca ad un solo albero, o di tia chau-ting velocissime barche a due alberi, adoperate per lo più dai contrabbandieri per introdurre le merci chinesi nelle isole spagnuole od olandesi senza pagare i gravosi diritti di dogana.
Non mancavano però i prahos montati dagli arditi malesi e armati di spingarde ed i geong altra specie di velieri più grandi dei primi, forniti di rande e di fiocchi e portanti qualcuno di quei grossi cannoni chiamati meriam, d’ottone ordinario fatto con una lega di piombo e di rame del fondo delle navi, ed era da questi veloci navigli che il vecchio chinese ben si guardava.
Il 28 aprile la tow-mêng, che aveva accelerata la corsa, essendo cresciuto il vento, dopo essere passata attraverso i banchi sottomarini di Aguirre, si cacciava fra le Cuyo, vasto arcipelago formato d’isole e d’isolotti di natura corallina, che si estende fra le coste settentrionali di Palauan e quelle occidentali di Panay del gruppo delle Filippine.
Non ve ne sono che quattro o cinque che abbiano una certa estensione, Cuyo che è la maggiore, Agutaya, Manamoci e Canipo; tutte le altre sono di poca vastità e molte sono anche disabitate.
Fu fra quelle isole che la tow-mêng, corse il pericolo di subire un attacco da parte di quegli irrequieti e bellicosi abitanti, che rimpiangono i bei tempi della pirateria protetta dal sultano delle Sulù.
Due prahos, approfittando dell’oscurità della notte, avevano tentato di stringerla verso l’isola di Dit, forse per farla assalire dai costieri, ma Tseng-Kai e Hong, accortisi a tempo di quella manovra sospetta, avevano fatto scaricare il pezzo di prora, onde avvertire quei predoni che possedevano dei potenti mezzi di difesa e la detonazione era stata sufficiente per far sfumare le idee bellicose di quei furfanti.
Il 30 anche il vasto arcipelago veniva felicemente superato senza altri cattivi incontri e la tow-mêng, sbarazzata dal pericolo di urtare contro qualcuno dei numerosi banchi ed isolotti, riprendeva liberamente la corsa verso il sud-est, puntando verso le isole Gagayanes.
— Fra cinque o sei giorni, se il tempo non cambia, noi avvisteremo le coste occidentali di Mindanao, — disse Hong a Than-Kiù.
— Lo sospiro quell’istante — rispose la giovanetta. — Penso, Hong, che ogni giorno perduto, i selvaggi possono condurlo sempre più lontano dalla costa.
— Ciò è possibile, — disse Hong, colpito da quella riflessione. — I pirati si saranno affrettati a vendere i prigionieri a qualche sultanello dell’interno per far sparire le tracce della loro rapina e per togliere a Romero ed ai suoi compagni la speranza di fuggire a bordo di qualche veliero.
— Saremo adunque costretti ad organizzare una spedizione armata? — chiese Than-Kiù.
— Che verrebbe distrutta subito, appena lasciata la costa. No, Than-Kiù, non sarebbe prudente.
— Allora, cosa intendi di fare?...
— Lo si vedrà più tardi.
— Io sono decisa a tutto.
— Lo so ed io pure. Mindanao è grande, ma una parte dell’isola è in mano degli spagnuoli ed i selvaggi non condurranno di certo colà i loro prigionieri. Sarà la regione dei laghi che noi saremo costretti a visitare.
— Una regione pericolosa?...
— Assai, Than-Kiù. È abitata dai più sanguinari cacciatori di teste di tutto l’Arcipelago malese, gente selvaggia che ci darà molto da fare. Tu ti sei assunta un’impresa che può costarti la vita.
— Non la mia sola, fors’anche quella dei miei amici.
— Che importa la nostra?... — disse Hong. — Morire a Mindanao o alla testa delle bande insorte, è la medesima cosa. È l’esistenza del Fiore delle perle, della più bella e valorosa fanciulla del Fiume Giallo che mi rincrescerebbe di vedere spenta laggiù, fra quelle orde selvagge e per salvare un uomo che l’ha ferita a morte...
— Taci!
— E che ha respinto la sua affezione, — terminò Hong.
— Tu odii Romero.
— Romero non è un chinese e rifiutando la più splendida perla del Celeste Impero ha ferito l’intera colonia degli uomini gialli, ma... basta così.
— Perchè amico?
— Che t’importa il saperlo?... Vorrei però che tu spegnessi per sempre la fiamma che t’ha bruciato il cuore, che tu dimenticassi quell’uomo che non ha saputo amare te, mentre tutti i tuoi compatrioti sarebbero stati felici di avere un sorriso, uno sguardo dal Fiore delle perle.
— Anche tu, Hong?...
— Forse più degli altri, — rispose il chinese nella cui voce vibrava un amaro rimpianto. — E tu l’ami ancora — proseguì egli con improvvisa violenza — l’ami ancora, mentre Romero, distruggendo il tuo sogno, ha spento anche la vita del più valoroso uomo che vantasse la nazione degli uomini gialli, di tuo fratello Hang.
— Taci, ti prego, Hong, — mormorò Than-Kiù con angoscia.
— Sia, — disse il chinese, — lo ritroveremo Romero; ma bada, Than-Kiù, che l’incontro con lui non ti sia fatale, poichè se tu dovessi morire, giuro su Fo e Confucio che ucciderò lui e anche la donna bianca!... —