Il Fiore delle Perle/19. Un massacro in mezzo alla foresta
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Capitolo XIX
Un massacro in mezzo alla foresta
Quello strano galleggiante, ideato dall’intraprendente chinese, si reggeva a meraviglia, ma in causa della sua estrema leggerezza e del peso che portava, subiva delle pericolose ondulazioni al solo urto della corrente od alla più piccola mossa delle persone che lo montavano.
L’urto contro un banco o l’incontro d’un coccodrillo sarebbero stati sufficienti per sfasciarlo, tanto era fragile; la più lieve onda poi avrebbe bastato per cacciare i chinesi ed il malese in acqua; nonostante tutti avevano fiducia di poter attraversare felicemente la laguna.
Raccolti al centro della zattera, coi fucili in mano per tener lontani i sauriani, si studiavano di mantenere una immobilità quasi assoluta, poichè le canne, quantunque sorrette dalle vesciche e dalle budella si trovavano a fior d’acqua, costringendo i poveri naviganti ad avere le gambe continuamente bagnate.
La corrente era lenta, nondimeno il galleggiante dopo un’ora si trovava già a tre chilometri dall’isolotto, i cui canneti si distinguevano ancora confusamente, avendo cominciato le stelle ad impallidire ed il cielo a rischiararsi.
— Forse il più grave pericolo l’abbiamo già felicemente passato, — disse Hong, che continuava a girare gli sguardi in tutte le direzioni. — È stata una grande fortuna per noi che i coccodrilli non abbiano osato darci la caccia.
— Si saranno accorti che noi eravamo uomini da far di loro un nuovo macello, — disse Pram-Li.
— Non avrei però dato una pallottolina d’oppio della mia pelle, se avessero avuto la brutta intenzione di ritentare la lotta. È meglio che se ne siano rimasti tranquilli.
— Lo credo, Hong, — disse Than-Kiù. — Non avrei sopportato una seconda prova come quella di ieri sera. Io fremo ancora a pensare a quel terribile assalto.
— Nessuna fanciulla avrebbe potuto resistere, Than-Kiù, te lo dico io. Solo la sorella dell’eroe degli uomini gialli poteva sostenere simile lotta.
— Speriamo che sia stata l’ultima.
— Coi coccodrilli forse, ma non cogli uomini. Avremo da affrontare altri pericoli, prima di salvare l’uomo che tu hai amato.
— Affronterò tutto, Hong.
— Sei sempre decisa?...
— Sempre, se tu mi aiuterai.
— Sai che io t’appartengo corpo ed anima.
— Lo so e ti ringrazio, amico mio. Ho già verso di te dei debiti di riconoscenza forse più grandi...
— Continua, — disse Hong, vedendo che la giovanetta si era arrestata.
— Di quelli che avevo contratti con Romero.
— Forse esageri.
— No, Hong. Io non ti ho ringraziato questa notte, quando affrontavi, per salvar me, la più orribile morte; ma il Fiore delle perle serbava per altro tempo l’occasione di manifestarti la sua riconoscenza.
— Spiegati, fanciulla.
— Non è ancor giunto il momento, ma tu puoi comprendermi ugualmente.
— Sì, eppure non l’oso. Potrei crearmi una fallace speranza, una delusione atroce al pari di quella che hai sofferto tu.
— No, Hong, — rispose Than-Kiù, con voce melanconica. — Io non saprei infrangere un bel sogno come l’ha infranto Romero. Le donne del nostro paese, lo sai, sono generose e.... —
Un urto improvviso, che fece cappeggiare bruscamente la zattera, gettando Hong ed i suoi compagni l’uno sull’altro, troncò la frase della giovanetta.
— Per Fo e Confucio!... — esclamò Hong. — Cos’è accaduto?... Un altro urto come questo e la zattera va in pezzi.
— Che sia stato un coccodrillo?... — chiese Sheu-Kin.
— Io non ne ho veduto alcuno, — rispose il malese. — L’acqua è tranquilla attorno a noi.
— Allora abbiamo urtato contro un banco, — disse Than-Kiù.
Sheu-Kin ed il malese si trascinarono con precauzione fino all’orlo della zattera e cacciarono le braccia in acqua.
— Vi sono dei canneti sotto di noi — dissero.
— Passiamo sopra qualche isolotto sommerso?...
— Senza dubbio, Hong — rispose il malese.
— Badiamo di non urtare ancora, o non rispondo più della solidità del galleggiante.
— E teniamo d’occhio quel mangiatore d’uomini, — disse Sheu-Kin. — Lo vedete?... Pare che abbia l’intenzione di venirci a visitare. —
Una testa era comparsa a venti braccia dalla zattera mostrando due enormi mascelle armate di lunghi denti. Si rituffò subito, ma tutti avevano avuto tempo d’accorgersi con quale pericoloso avversario avevano da fare.
— Quel bruto è ben più da temersi che l’incontro d’un altro isolotto, — disse Hong, con inquietudine. — Che non ci lascino un momento tranquilli questi dannati sauriani?... Si direbbe che hanno giurata la nostra perdita o che si siano alleati ai pesci-cani d’acqua dolce di Pandaras.
— Aspettiamo che mostri la gola e facciamo fuoco, — suggerì il malese.
— Amerei piuttosto assalirlo col kampilang. Gli spari potrebbero tradirci ancora.
— Temi sempre Pandaras, Hong? — chiese Than-Kiù.
— Sì, fanciulla. Quell’uomo deve essere più tenace delle mignatte.
— E credo che tu abbia ragione, — disse improvvisamente Sheu-Kin.
— Ancora delle grida!... — esclamò Hong.
— E degli spari!... — aggiunse Than-Kiù.
Urla acute erano scoppiate sulla laguna, verso il sud, accompagnate da parecchi colpi di fuoco. Pareva che un combattimento accanito si fosse impegnato o sopra qualche isola o su qualche costa di quel grande bacino.
Quel fracasso durò un quarto d’ora con un crescendo spaventevole, poi gli spari divennero più radi e le grida, più fioche, si perdettero in lontananza.
— Brutto paese, — mormorò Hong. — Le acque infestate di coccodrilli e le selve di uomini che pare non abbiano altro desiderio che di sterminarsi reciprocamente.
— Che sia stato un combattimento di selvaggi? — chiese Than-Kiù.
— Con quegli spari!... Io temo che Pandaras, volendo seguirci a qualunque rischio, sia stato nuovamente assalito dagli abitanti.
— Allora bisognerebbe supporre che non ci abbia creduti morti.
— Così la penso anch’io, fanciulla. Chissà, forse quel birbante si era accorto che noi eravamo riusciti a salvarci.
— Vi è dunque la probabilità d’incontrarlo.
— Forse, — rispose Hong, il quale era diventato meditabondo. — Egli avrà osservato la direzione della corrente e si sarà affrettato a correre al sud della laguna per attenderci.
— Cosa pensi di fare?... Non è possibile deviare?...
— Non abbiamo remi, Than-Kiù, e tutto quello che possiamo fare è di lasciarci trasportare.
— Che uomo vendicativo quel Pandaras!... — disse Sheu-Kin.
— Non sarebbe malese se non fosse così tenace nel suo odio, — rispose Hong. — E dov’è il coccodrillo che ci seguiva?...
— È scomparso, forse spaventato da quelle grida e dagli spari, — rispose Pram-Li.
— Ah!...
— Cos’hai?... Torna ancora?...
— No, Hong, comincio invece a discernere, verso il sud, una linea oscura che suppongo sia il margine di qualche foresta.
— È vero, — disse Sheu-Kin. — Laggiù vi è la riva.
— Fra poco lo sapremo, — rispose Hong, che guardava il cielo. — L’alba è vicina. —
Ad oriente le stelle impallidivano rapidamente ed una luce biancastra si diffondeva in cielo. Già gli uccelli acquatici cominciavano a svegliarsi e si vedevano radunarsi in grandi bande per cominciare le loro pesche.
Hong, che non staccava gli sguardi dalla linea oscura, la quale si disegnava sempre più nettamente sull’orizzonte, si convinse ben presto che Sheu-Kin ed il malese non si erano ingannati.
Una costa assai bassa sorgeva laggiù, interrotta da gruppi d’alberi. Era lontana almeno sette miglia, ma essendo la corrente diventata più rapida, in un paio d’ore si poteva raggiungerla.
Alle cinque il sole sorse bruscamente, illuminando d’un colpo solo la grande laguna e facendo alzare da ogni parte immensi stormi di volatili.
Hong, Than-Kiù ed i loro compagni si erano alzati in piedi per abbracciare maggior orizzonte, spingendo lontani gli sguardi. Non videro alcuna imbarcazione solcare le acque; solamente la costa appariva verso il sud.
— Pare che i pirati siano scomparsi, — disse Hong, respirando. — Vedi nulla tu, malese, che hai gli occhi migliori de’ nostri?...
— Assolutamente nulla, — rispose Pram-Li.
— Guarda bene quella costa.
— Vedo solamente degli alberi.
— Fra un’ora saremo a terra, — disse Sheu-Kin. — La corrente diventa sempre più rapida.
— Vi sarà qualche sfogo verso quella costa, — disse Than-Kiù.
— Qualche fiume o qualche canale, — rispose Hong. — Oh!... Tocchiamo?... —
La zattera aveva urtato e si era arrestata dopo d’aver girato due volte su se stessa.
Pram-Li guardò e vide che il fondo della laguna non era che a venti centimetri.
— La nostra navigazione è finita — disse. — Bisogna abbandonare la zattera e procedere coll’acqua fino alle ginocchia.
— Che si tratti invece d’un banco? — chiese Hong.
— No, — disse Pram-Li, che si era alzato. — Vedo sorgere dappertutto delle piccole piante acquatiche, le quali indicano che il fondo si estende fino alla riva.
— Caricatevi delle armi e delle munizioni, mentre io m’occuperò di portare Than-Kiù.
— Posso camminare anch’io, Hong, — disse la giovanetta.
— No, io sono robusto e tu pesi così poco per me, che non farò alcuna fatica. Vieni, fanciulla. —
L’afferrò fra le braccia e mise i piedi in acqua, tastando il fondo.
— È solido, — disse. — Seguitemi, amici. —
Abbandonarono la zattera che si era arenata e si misero in cammino coll’acqua fino alle ginocchia, dirigendosi verso la riva lontana non più di due o tre miglia.
La traversata di quel bassofondo si compì senza incidenti e un’ora dopo i fuggiaschi riposavano tranquillamente all’ombra dei primi alberi della foresta.
Prima cura di Hong fu quella di mettere la polvere ad asciugare, essendovi la probabilità di dover in breve far uso delle armi da fuoco, poi Sheu-Kin e Pram-Li si cacciarono sotto il bosco per raccogliere delle frutta, non avendo mangiato dal giorno innanzi ed avendo perdute tutte le loro provviste.
Dapprima non riuscirono a vedere che certe specie di palme, poi inoltrandosi riuscirono a scoprire, fra ammassi di arbusti e di canne di rotang, un pombo, pianta grandissima che produce degli aranci grossi come la testa d’un bambino ed ai quali i malesi dànno il nome di buâ kadarigsa; quindi più oltre un cavolo palmista, il quale produce una specie di legume colossale, lungo talvolta un metro e grosso come la coscia d’un uomo, composto d’una polpa bianca, un po’ dolce e che ha il sapore delle mandorle.
I due fedeli compagni di Than-Kiù, raccolte le loro provviste, stavano per far ritorno verso la laguna, quando nel passare vicini ad un macchione di banani selvatici scorsero a terra parecchie lance spezzate, dei kriss e due bolos scheggiati in modo da non essere più servibili.
— Qui è avvenuto qualche combattimento! — esclamò il malese, arrestandosi.
— E di recente, — soggiunse Sheu-Kin, il quale si era avanzato fra la macchia. — Vedo del sangue sparso sulle erbe e sulle foglie.
— Che sia stato qui che hanno combattuto stamane?... Le detonazioni venivano da questa parte.
— Vediamo: se vi è del sangue, vi saranno anche dei cadaveri. —
Scostarono le foglie giganti dei banani e si cacciarono fra gli alberi. Avevano appena fatti pochi passi, quando si arrestarono gettando due grida d’orrore.
Lì, dinanzi a loro, in mezzo ad uno spiazzo del terreno, si trovavano ammonticchiati alla rinfusa quindici o venti cadaveri, mancanti tutti della testa. Erano quasi tutti coperti di spaventevoli ferite che parevano prodotte da colpi di bolos o di kampilang e non avevano indosso che pochi stracci insanguinati.
Attorno a quei miseri corpi si vedevano armi infrante, alcuni fucili spezzati, lance senza punta, cartucce, brandelli di stoffa, cespugli e foglie lacerate, e più oltre due cadaveri di statura piccola, dalla pelle assai più scura degli altri, ma colla loro testa.
— Qui è successo un massacro!... — esclamò Sheu-Kin, il quale era diventato pallido. — Chi saranno questi disgraziati?...
— Chi?... — rispose il malese, che aveva sollevato alcuni cadaveri, osservandoli attentamente. — Se vuoi sapere chi sono, ti dirò che questi erano gli uomini di Pandaras.
— Del pirata?...
— Sì, io conosco quell’uomo là che porta ancora stretta alle reni quella fascia di seta azzurra; era il timoniere del praho, e sono certo di non ingannarmi. Toh!... Anche quello che è steso laggiù, con le ginocchia ripiegate sul ventre e che ha ancora la cartuccera, l’ho veduto sul praho. Era uno dei malesi che faceva parte della guardia d’onore del pirata.
— E Pandaras, non lo vedi?...
— Guardo, ma non lo trovo.
— Che sia sfuggito al massacro?...
— Lo suppongo.
— Allora può trovarsi ancora in questi dintorni.
— È probabile, e credo che faremo bene a prendere il largo.
— E chi può averlo assalito?...
— Gl’igoroti, amico Sheu-Kin. Quei due negri che hanno ancora la testa, sono veri igoroti, ossia selvaggi che abitano l’interno di questa grande isola.
— I feroci cacciatori di teste?...
— Sì, Sheu-Kin. Alcune tribù fanno raccolta di cranî.
— Allora bisogna fuggire o decapiteranno anche noi.
— Credo che faremo bene ad allontanarci presto da questa dannata laguna. Affrettiamoci a raggiungere i compagni ed a sloggiare. —
Uscirono dal macchione in preda a vivissime inquietudini, temendo che durante la loro assenza i selvaggi avessero potuto sorprendere e decapitare anche i loro compagni, e dopo di essersi assicurati che non vi era alcuno, si diressero sollecitamente verso la laguna.
Un sospiro di soddisfazione uscì dai loro petti, vedendo Hong e Than-Kiù ancora sdraiati sotto lo stesso albero, chiacchierando tranquillamente.
Appena raggiuntili, il malese s’affrettò ad informarli della orribile scoperta e del grave pericolo che correvano fermandosi in quei dintorni.
— Dannato paese!... — esclamò Hong. — Siamo appena sfuggiti alla morte, che corriamo il pericolo di farci decapitare!... Che non si possa riposare un momento in quest’isola?... Fortunatamente le nostre gambe sono ancora buone e potremo prendere il largo prima che quei feroci selvaggi ci sorprendano.
— E Pandaras, che sia riuscito a fuggire? — chiese Than-Kiù.
— Comincio a sperare che quel birbante, causa principale di tutte le nostre disgrazie, non ci darà più fastidio. Se è rimasto senza uomini si sarà affrettato a raggiungere le rive del Bacat. Orsù! Mangiamo un boccone e poi partiamo, in cerca d’un rifugio che ci permetta di dormire ventiquattro ore tutte d’un fiato.
— E d’un arrosto, — disse il malese. — Un pezzo d’orso o di babirussa sarebbe il benvenuto.
— La selvaggina non mancherà, Pram-Li — rispose Hong.
Divorarono la loro parca colazione, si dissetarono nella laguna, si divisero le munizioni, poi, orizzontatisi colla bussola e colla carta dell’isola che Hong teneva rinchiusa in una scatoletta di latta assolutamente impenetrabile all’acqua, si misero in cammino costeggiando quel grande bacino che pareva si tramutasse in paludi.
Dapprima marciarono in mezzo ai canneti, non osando cacciarsi nella foresta, ma dopo due o tre chilometri, avendo osservato che gli alberi crescevano fitti ed adorni di grandi foglie, offrendo dei nascondigli quasi inaccessibili, s’affrettarono a raggiungerli, cacciandosi in mezzo a macchioni giganteschi.
Quella boscaglia era una delle più maestose e delle più ricche di alberi svariati che fino allora avessero percorso. Forse prima di loro nessuno, nemmeno i selvaggi, l’avevano attraversata, poichè non si vedevano in alcun luogo tracce umane, nè il più piccolo sentiero.
In mezzo a quel caos di vegetali, in mezzo a quelle reti gigantesche di calamus e di liane d’ogni specie, crescevano l’un accanto all’altro i più pregiati ed i più splendidi alberi della flora malese.
Qui erano ammassi di piante del pepe, serpeggianti ora al suolo ed ora pendenti, come festoni, dai tronchi più annosi e più grossi, già cariche di grappolini d’un bel rosso corallo o bruno oscuro, a seconda dello stato di maturità; più oltre, in mezzo ad ammassi di radici mostruose, s’alzavano i massicci tronchi degli alberi della canfora, misuranti non meno di cinque metri di circonferenza; poi più innanzi, fra i betel dalle foglie giganti ed i banani selvatici, s’alzavano gruppi di sagu contenenti la preziosa fecola colla quale si fa un ottimo pane, e gruppi di certe specie di pini dai quali, facendo una incisione, si ricava quella ragia odorosa, così ricercata, chiamata belzoino; poi splendidi palmizi sostenenti, alle loro estremità, quella specie di mandorle lunghe un metro chiamate cavoli palmizii, poi sandali che producono quella polvere tanto odorosa, tek immensi, ebani, mangostani carichi di frutta squisite che in bocca si fondono come gelati, ed un numero immenso d’aranci dalle frutta più o meno grosse e succose, ma impregnate d’uno sgradevole sapore di trementina.
Fra quelle foglie, che erano quasi tutte grandissime, ed in mezzo alle liane, splendidi volatili cicalavano a gola spiegata, in piena sicurezza. Si vedevano coppie di superbi fagiani dalle penne giallo-dorate e picchiettate; grossi angang od uccelli rinoceronti, così chiamati perchè portano sul becco un’escrescenza cornea che dà loro un bizzarro aspetto; colombe coronate, splendenti d’azzurro e d’oro; epimacus magnifici dalle penne vellutate e la gola ed il petto verde-cupo a riflessi bronzini; vicinnurus regi, grandi quanto un tordo, e così belli che non si può farsene un’idea. Vedendoli volare si potrebbero scambiare per prismi riflettenti tutte le tinte dell’arcobaleno, poichè le penne di questi graziosi uccelli hanno tutte le tinte che si possano immaginare, riflessi d’argento e d’oro, di smeraldi, di rubini e di topazi.
Than-Kiù, Hong, Sheu-Kin e perfino Pram-Li, quantunque abituati a percorrere le maestose foreste delle isole malesi, si fermavano di frequente ad ammirare tutti quegli alberi ed i loro graziosi abitanti, senza più ricordarsi del pericolo che li minacciava e che li aveva costretti ad abbandonare precipitosamente le rive della laguna.
Di repente un grido strano, che non si poteva sapere se fosse stato lanciato da un essere umano o da un animale sconosciuto, li strappò bruscamente dalla loro contemplazione.
Hong, che camminava innanzi a tutti, si era arrestato armando precipitosamente la carabina, e girando gli sguardi sotto la fitta ombra delle piante.
— Un segnale?... — chiese Than-Kiù, con inquietudine.
— Lo ignoro, — rispose il chinese, che non pareva più tranquillo.
— Non ho mai udito un animale mandare un grido simile, — disse il malese.
— Allora qualcuno ci spia.
— Lo temo, Hong.
— Fermiamoci dietro il tronco di questo colossale albero della canfora e stiamo a vedere cosa sta per succedere. Armate le carabine e tenetevi pronti a far fuoco al mio comando.