Idillii spezzati/Il folletto nello specchio
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II Folletto nello specchio
(Fiaba per Maria).
Viveva una volta a Milano, a pochi passi dalla Galleria De Cristoforis, una vecchia dama, la contessa X. molto ricca e molto brutta, a cui piaceva assai di tenere società; e siccome aveva un ottimo cuoco, la società non le mancava mai. Una sera vi erano undici visitatori nel suo salotto; una giovane vedova, una signora inglese, un consigliere d’appello, un grosso generale, un sottile tenente del genio, un zazzeruto maestro di musica e un poeta pelato, celebri ambedue, e quattro giovinotti eleganti, occupatissimi di far niente.
Caduto il discorso sull’eterno paragone fra la vanità degli uomini e la vanità delle donne, la maggioranza fu d’avviso che il sesso più vanitoso fosse il mascolino; ma quando la padrona di casa, per darne un esempio, sentenziò che non v’era uomo per quanto vecchio e serio, capace di passare davanti a uno specchio senza dare almeno una sbirciatina alla propria seducente immagine, gli uomini celebri, il consigliere, il grosso generale protestarono che questo non era vero e che la vanità mascolina si manifestava in altri modi. Tosto due brevi sottili risatine trillarono in aria. Ciascuno credette che avesse riso la vedova, e la vedova credette che avesse riso l’inglese, l’altra signora. Invece chi rise fu un diavolino di quelli che girano intorno alla gente per far dire bugie e commettere peccati di vanità. Il discorso morì lì, anche perchè suonava mezzanotte. Le due signore si alzarono e la padrona di casa invitò molto amabilmente tutta la compagnia a pranzo per l’indomani alle sei.
All’indomani, che fu una giornata gaia e calda di aprile, gl’invitati si recarono al pranzo, le signore in carrozza, gli uomini a piedi, ciascuno per proprio conto. Il consigliere e il generale abitavano in via Alessandro Manzoni; degli altri chi in vìa del Monte, chi in via S. Andrea, chi in Borgo Spesso, chi in Borgo Nuovo. Insomma ciascuno passò per la Galleria De Cristoforis e benché vi passassero tutti fra le cinque e tre quarti e le sei, il caso volle che non sì accompagnassero fra loro, neppure in due. Tu sai che la Galleria De Gristoforis ha due bracci ad angolo retto e che uno specchio è infitto nel canto che la gente rade svoltando dall’uno nell’altro braccio, in faccia alla birraria Trenk. Dietro a questo specchio si insinuò il maligno spirito e stette aspettando gl’invitati per un suo diabolico scherzo. Passa, per il primo, il generale, si guarda nello specchio con la coda dell'occhio, e si vede raccapricciando, una macchia d’inchiostro sulla guancia sinistra. Mancavano cinque minuti alle sei, non c’era più il tempo di ritornare a casa. Il generale affretta il passo tenendosi il fazzoletto sul viso, e appena entrato nell’anticamera della contessa, chiede al domestico una salvietta e un po’ d’acqua. Il domestico lo introdusse in una camera da letto e stava versandogli l’acqua nel catino, quando fu da capo suonato all’uscio. Ecco il consigliere che entra tenendosi il fazzoletto sulla guancia sinistra e dice: — Presto, per carità, una salvietta e dell’acqua. — Il domestico lo conduce in un’altra camera da letto e gli versa l'acqua. Si suona; è il tenente che si tiene una mano sul viso e dice: — Mi rincresce, ho dei guanti che lasciano il colore; avete dell’acqua? — Il domestico si meraviglia molto e lo conduce in una terza camera da letto. Quarta scampanellata; è il maestro di musica, che dice brusco: — Dell’acqua! Conducimi in camera. — Signore, — risponde duro duro il cameriere — ci sono già tre signori che si lavano in tre camere e di libera non c’è più che la camera della contessa. Se crede Le porto qua l’acqua e una salvietta. — Porta — risponde il maestro. Il cameriere va, ritorna con l’acqua e la salvietta. Colui si frega il viso, e guarda se la salvietta n’è sudicia e siccome la salvietta è sempre pulita, frega e guarda, frega e guarda, rifrega come un disperato. Ancora un colpo di campanello. Ecco il poeta celebre che vede l’amico stropicciarsi e dice: — Bravo. Oh bella, occorre anche a me. — Son pulito? — gli chiede l’altro mostrandogli la faccia. — Perfettamente. Il maestro, felice, entra dalla contessa dove trova il generale e le altre signore. Poi suonano, uno dopo l’altro, tre dei giovinotti eleganti e ciascuno vuole acqua salvietta e anche sapone. Il domestico si trattiene a grande stento dal ridere e non sa più dove battere il capo. Gli mancano salviette, deve chiederne alla guardarobiera, corre da lei; la guardarobiera si arrabbia; intanto suonano all’uscio e nessuno apre; suona anche la contessa perchè vadano ad aprire, torna a suonare e nessuno si muove; esce lei e chiama la sua gente. Allora il quarto giovinetto che aspettava fuori dall’uscio con l’idea egli pure d’avere uno sgorbio sul viso, udendo la voce della dama, e, temendo incontrarla nell’anticamera, si bagna il fazzoletto nella saliva e assicuratosi che nessuno gli vede fare questa porcheria, si frega la guancia sinistra a più potere, come gli altri. Finalmente tutti gl’invitati si raccolgono in sala e la contessa, che intanto ha potuto saper qualche cosa dal domestico, dice sorridendo: — Cos’avete fatto, caro generale, a quella guancia che siete così rosso? — Subito gli altri personaggi mascolini pensando aver pure una guancia rossa, si recano per istinto la mano al viso; la contessa ride; ride uno dei giovinetti, un secondo, un terzo, scoppia una risata generale; la contessa, poiché il ghiaccio è rotto, racconta il caso alle due signore e tutte voglion sapere il come di questa epidemia straordinaria.
— Per conto mio — rispose il poeta -— convien dire che un’amica d’infanzia, la duchezza Y. una vera sorella per me, abbia oggi mangiato del carbone perchè prima di venir qua fui ad incontrarla alla stazione e mi ha dato un bacio proprio qui sulla guancia sinistra.
— Io invece — disse il consigliere d’appello, — credo di essermi macchiato con la tintura del ministro B. che oggi è a Milano e mi ha fatto chiamare per un affare importantissimo. Siamo amiconi, e lui, scherzando, mi ha preso una guancia fra l’indice e il medio. Siccome si tinge, è facilissimo che avesse le dita sudicie.
— Quanto a me — disse il tenente, dimenticando la storia dei guanti che lasciano il colore, — promisi un acquarello a Sarah Bernhardt, e ci ho lavorato fino all’ultimo perchè le preme assai. Certo mi sarò spruzzato dell’inchiostro della China sul viso.
— Io — disse a sua volta il maestro di musica — uscivo di casa quando mi è venuta una idea per il preludio del mio quarto atto. Sa, un lampo elettrico proprio. Lo dico perchè non ne ho merito; le buone idee mi vengono così, misteriosamente. Sono corso a buttar giù otto battute, e certo, nella foga dello scrivere, mi sarò sgorbiata la faccia.
— Ecco — disse il generale, che aveva passata la sessantina. — Io faccio molta ginnastica ogni giorno. Oggi alle cinque ho fatto parecchie elevazioni con gli anelli. Può essere che uno degli anelli non fosse pulito e che mi abbia sfiorato il viso.
— Non so davvero come ciò abbia potuto succedermi — disse uno dei giovinetti eleganti. — Proprio oggi, mezz’ora fa, ho adoperato il Shetland-soap una novità inglese che ho fatto venire io da Londra e che forse nessuno a Milano conosce! — Come, come? — esclamarono due de’ suoi colleghi, — Se io l’ho da ieri! — Se io l’ho da ier l’altro! — Allora — replicò il primo, — sarà certo un difetto dello Shetland-soap. — Ma no — esclamò il quarto, quello che aveva fatto pulizia fuori dell’uscio. — L’ho anch’io e non credo d’esser macchiato, guardatemi. — Ma, signori — osserva la contessa, — voi altri mi dite: sarà stato il sapone, sarà stato l’inchiostro di China, sarà stato questo, sarà stato quello. Vorrei un po’ sapere, adesso, come abbiate fatto ad accorgervene di queste macchie sul viso, e come non ve ne siate accorti che fuori di casa!
Vi fu un silenzio lunghetto.
— Un amico... — incominciò il poeta con imbarazzo; ma il generale si decise nello stesso momento, a rispondere francamente:
— Diciamola! Per parte mia Le confesso, contessa, che mi son guardato nello specchio della Galleria De Cristoforis.
— Oh bella! Oh diavolo! — Oh perbacco! — esclamarono involontariamente il maestro di musica, il tenente ed uno dei giovinetti eleganti. — Oh, ohi — fecero allora alla loro volta le signore indovinando; e costrinsero quei tre a confessare che anche loro si erano guardati nello specchio: poi le signore e i quattro rei confessi diedero addosso con un gran baccano agli altri per far confessare anche loro, e tutti, salvo il poeta che si ostinò col suo amico, finirono col metter fuori quel maledetto specchio della Galleria.
— Dite benedetto signori, — osservò ridendo la contessa — perchè capisco che se non c’era lui mi capitavate in una bella figura.
— Pur troppo — rispose il generale — lo domandi a Federico.
Federico, il cameriere, entrò in quel punto ad annunciare il pranzo.
— Non è vero, Federico — gli disse il generale, — che avevo il viso conciato bene? Io e anche gli altri, non è vero?
— Per verità — rispose Federico, — del signor generale, del signor consigliere e del signor tenente non lo posso dire perchè tenevano la faccia coperta, ma gli altri signori ho veduto benissimo che non avevano niente.
Tutti protestarono e il cameriere tenne fermo, lasciando intendere che sospettava la stessa cosa del generale e del tenente.
«— Come, come? — esclamò la contessa. — Questa è magìa! Non si va a pranzo se non si scopre questo mistero!
— Il tavolino, contessa! — disse la signora inglese ch’era spiritista e faceva spesso delle esperienze con la padrona di casa. — Bisogna interrogare il tavolino.
Detto fatto, fu portato il piccolo tavolino che si mise subito a girare, scricchiolando tutto come se ridesse; e interrogato sul dove, sul come e sul quando delle famose macchie, debitamente rispose:
Ogni specchio è casa mia,
Son le macchie mia bugia,
Tutte l'altre son bugie
Delle loro signorie.
Il Follettino della Galleria
I signori uomini non attesero che finisse e si diedero a schiamazzare: — A tavola! A tavola! Presto! Presto! Storie! Fandonie! A tavola! A tavola! — E, portando seco le signore che ridevano come pazze di loro e sopratutto del poeta, della sua duchessa e del suo amico, si precipitarono nella sala da pranzo come un uragano.