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Teocrito - Idilli (III secolo a.C.)
Traduzione dal greco di Luca Antonio Pagnini
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I DIOSCORI

Idillio XXII

Laudiam di Leda, e dell’Egioco Giove
     I due figli, Castorre, e il fier Polluce
     Ne’ pugili conflitti intorno intorno
     Le man fasciato di bovini cesti.
     Due volte e tre laudiam la maschia prole
     Della figlia di Testio, i due fratelli
     Lacedemonj, onde i mortali scampo
     Han ne’ perigli estremi, e gli atterriti
     Corsieri in mezzo a’ sanguinosi assalti,
     E le navi, che ad onta delle stelle
     Ora cadenti, ora nascenti in cielo
     Van preda alle indomabili procelle,
     Che gran fiotto innalzando o a poppa, o a prora,
     O donde lor più aggrada, incontro al legno
     L’urtano, e sfascian l’uno e l’altro fianco.
     Vanno squarciati penzolando a caso
     Tutti gli attrezzi, e la maestra vela.
     Precipita di notte un grosso nembo
     Dal cielo, e l’ampio mar stride percosso
     Da’ venti e dalle grandini indurate.
     Ma voi fin dal profondo in su traete
     Navi, e nocchier, che aspettano la morte.
     Tosto cessano i venti, e mite calma
     Regge il mar; qua e là sgombrano le nubi;
     Appajon l’orse, e in mezzo agli asinelli

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     Il foschetto presepio, onde s’annunzia
     Tutto propizio al navigar. O amici,
     E giovator degli uomini, ambo dotti
     In cetera, e cavalli, e lotta, e canto.
     Da Castore farommi, o da Pollace?
     Ambidue canterò: ma pria Polluce.
Poich’Argo oltrepassò le due fra loro
     Cozzanti rupi, e del nevoso Ponto
     L’atroce bocca, alle Bebricie sponde
     Con l’alma prole degl’Iddii pervenne.
     Quivi per una scala un gran drappello
     Venne a sbarcar dall’uno e l’altro lato
     Della Giasonia nave, e giù discesi
     Nella ventosa piaggia distendendo
     Ivan trabacche, ed apprestando fuochi.
     Castore prode cavalcante, e il fosco
     Polluce divagarono in disparte
     Da’ lor compagni, ed aspra selva immensa
     Spiando intorno alla montagna, un fonte
     Sempre vivo trovar di limpid’acqua
     Sotto una liscia rupe, e più basso altri,
     Che dal fondo apparìan cristallo e argento.
     Grandeggiavan là presso e pini e pioppi,
     E platani e cipressi alto-chiomati,
     E quanti sul finir di primavera
     Nei prati vengon su fiori odorosi,
     Dolcissimo lavoro all’irte pecchie.
     Quivi sedea al meriggio un uom bizzarro,
     Orribile a veder, che in fiera guisa
     Da’ pugni fracassate avea le orecchie.
     Tondeggiava alto il petto, e il largo dosso
     In ferrugigne carni somigliava
     Martellato colosso, e sotto agli alti
     Omeri fuor delle robuste braccia
     Risaltavano i muscoli quai pietre
     Rotonde, cui torrente vorticoso

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     Rodendo liscia ne’ suoi vasti gorghi.
     Gran pelle di lion gli discendea
     Dal collo su per gli omeri annodata
     Fra le sue zampe. Il vincitor di giostre
     Polluce il primo a ragionar sì prese.
polluce
Buon giorno, galantuom, chiunque sei.
     Chi son gli abitator di questo luogo?
amico
Che buon giorno aver posso al veder gente
     Non veduta mai più?
polluce
                                             Fa cuor. Non siamo
     Di mal affar, nė di malvagia stirpe.
amico
Fo cuor; nè mi convien da te impararlo.
polluce
Sei ben duro, salvatico e sprezzante.
amico
Son qual mi vedi. E non son già sul tuo.
polluce
Vienci pure, e di là ne tornerai
     Con ospitali don.
amico
                                        Tienti i tuoi doni.
Io per recarne a te nessun n’ho in pronto.
polluce
Stranio! neppur darestimi un po’ d’acqua
     Da ber?
amico
                    Tel vedrai ben se mai la sete
     Faratti rilassar le arsicce labbra.
polluce
Di’, se vuolci danaro, od altro prezzo.
amico
Uno contr’uno alza le mani, o fermo

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     In atto di dar pugni, a chi t’è incontro
     O pontandogli il piè contro lo stinco.
     Guatalo fiso, e fa dell’arte prova.
polluce
Con chi degg’io provar le mani e i cesti?
amico
Vicin tel vedi; e non avrai da fare
     Con qualche femminuccia.
polluce
                                        E qual è il premio
     Fissato alla tenzone?
amico
                                        Io sarò tuo,
     Tu mio, s’io vincerò.
polluce
                                        Tai son le zuffe
     Che fan gli uccelli dalla cresta rossa.
amico
O uccelli rassembriamo, o pur leoni
     Non vo’, che si combatta ad altro prezzo.
Disse; e postosi al labbro un cavo nicchio
     Mugghiar Amico udissi. Al fier rimbombo
     Sotto platano ombroso i ben chiomati
     Bebrici s’assembraro immantinente.
     Tutti non men dalla Magnesia nave
     L’intrepido Castor chiamò gli eroi.
     Le man guernite di bovine fasce
     I combattenti, e cuoi ben lunghi attorno
     Alle braccia ravvolti in campo eutraro
     Spirando morte un contro l’altro. In pria
     Lunga, contesa fu, chi di lor due
     Alla spera del Sol voltasse il tergo.
     Ma tu, Polluce, al gran gigante innanzi
     Per maestrìa passasti; ond’egli tutto
     Dardeggiato da’ raggi era nel volto.
     Di rabbia invelenito il piè sospinge

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     Pur oltre, e con la man disegna i colpi.
     Ma di Tindaro il figlio, in cima al mento
     L’assalitor percote; ei più che mai
     Precipitoso il guerreggiar rinforza,
     E smisurato gli sta sopra in atto
     Di tracollare al suol. Festoso plauso
     Fanno i Bebrici; al pro’ Polluce altronde
     Coraggio fan gli eroi temendo pure,
     Che il peso di quest’uom simile a Tizio
     In qualche stretto non l’opprima e schiacci.
     Ma il figliuolo di Giove or quinci, or quindi
     Si reca innanzi, e ad ambe man lo strazia
     Con urti alterni, e soprattien l’assalto
     Di quell’immenso figlio di Nettuno.
     Ei di piaghe satollo si sofferma
     E sputa acceso sangue. Alzàr le grida
     A un tempo stesso allor tutti gli eroi
     Quando alla bocca, ed alle guance intorno
     Vider gli sconci lividori; e nella
     Rigonfia faccia impiccioliansi gli occhi.
     Il prode pur aizzaval d’ogni banda
     Col minacciar de’ colpi. E quando il vide
     Cagliar, vibrógli a mezzo il naso in alto
     Fra ciglio e ciglio un pugno, e sino all’osso
     Tutta gli aprì la fronte. Ei sì mal concio
     Si rinversò supin tra l’erbe verdi.
     Poi surto rincalzò l’atroce mischia.
     L’un l’altro s’ammaccavan con le botte.
     Mortifere de’ cesti. In mezzo al petto,
     E fuor del collo i colpi dirizzava
     Il duce de’ Bebrici; e d’altra parte
     L’indomabil Polluce gli bruttava
     Di sozzi marchi il volto, e così il corpo
     Spremevagli in sudor, che il fe’ d’uom grande
     Ben tosto impicciolir; mentr’ei mostrava
     In mezzo al faticar più grandi ognora

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     Le invitte membra, ed il color più vivo.
     Ma come al fin di Giove il figlio oppresse
     Il vorace gigante, ah! tu, che il sai,
     Dillo, tu Dea. Come a te giova, e piace,
     Narrator fido ridirollo altrui.
Accinto a una gran prova Amico afferra
     Con la sua manca mano a lui la manca,
     Schivandone l’assalto obbliquo, e chino.
     Dal destro fianco alzato il grosso braccio
     Su lui con l’altra s’abbandona, e guai
     Al re Amicleo, se mai giugnealo il pugno.
     Ma col capo di sotto se gli tolse,
     E con la salda man sotto la tempia
     Sinistra il colse, e gli saltò sul tergo.
     Spicciava dalla tempia boccheggiante
     L’atro sangue; ei pestava con la manca
     La bocca, e i folti denti sgretolaro.
     Doppiando a mano a man più duri i colpi
     Sfregiavagli la faccia, e tutte infine
     Le guancie sfracellógli. Ei steso in terra
     Disanimato, ed omai presso a morte,
     Cedendo ambe in un tempo alzò le mani.
     Nè già tu allora, o vincitor Polluce,
     Alcun gli festi oltraggio. Indi con forte
     Giuro a te protestò, dal mar chiamando
     Nettuno il genitor, che per l’innanzi
     Non più farebbe a’ viandanti oltraggio.
Tu, signor, se’ lodato. Or io cantando
     Te, Castore, verrò, Tindaria prole,
     Veloce cavalcante, armato il petto
     Di fino usbergo, agitator di lancia.
Rapite si recavano i due figli
     Di Giove le due figlie di Leucippo.
     Correano dietro a lor rapidamente
     I duo Germani figli d’Afareo,
     Ch’eran già fissi alle fanciulle sposi,

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     Il forte Ida, e Linceo. Giunti alla tomba
     Dell’estinto Afareo tutti in un tempo
     Sceser da’ cocchi ad affrontarsi carchi
     Di cavi scudi, e d’aste. Allor Linceo
     Di sotto all’elmo alto gridò: Deh! quale
     Disío di guerra, o sciagurati, è il vostro?
     Perchè volete infellonir per mogli
     Non vostre, e in man recarvi i brandi-ignudi?
     A noi già molto prima avea Leucippo
     Le sue figlie promesse, e fur giurate
     Con noi le nozze. Or contra ogni rispetto
     Agli altrui letti con le altrui sostanze
     E buoi, e muli travolgeste il padre,
     E co’ doni furaste il maritaggio.
     Spesso in vostra presenza (e non son uso
     A far gran motti) avea già detto: Amici,
     A gente prode si disdice in mogli
     Cercar donzelle, che han gli sposi in pronto.
     È grande Elide equestre, e grande è Sparta,
     È Arcadia ricca in mandre, e le cittadi
     Achee, Messene ed Argo, e tutta quanta
     La Sisifia maremma, ove fanciulle
     Crescon sotto i lor padri a mille a mille,
     Cui nè manca buon’indole, nè senno.
     Voi potrete sposarne a vostro grado,
     Poichè molti ambiran suoceri farsi
     Di valorosi; e voi gran nome avete
     Infra tutti gli eroi, com’anco i padri
     L’ebbero, e tutto il vostro sangue antico.
     Deh! lasciateci, o cari, a fin condurre
     Le nostre nozze, e ad appagar voi pure
     Noi tutti penserem. Tali, e molt’altri
     Furo i miei detti, che portossi il vento
     Tra i fuggevoli flutti; e da voi grazia,
     Duri, inumani, il mio parlar non ebbe,
     Or piegatevi alfin, che a noi pur siete

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     Ambo cugini dal paterno lato.
     Che se pur il cor vostro agogna guerra,
     E rotto il freno alle contese, è d’uopo
     Che la lite decidasi col sangue:
     Ida, e il valente mio cugin Polluce
     Le ostili man rimovano dall’armi.
     Noi minori d’età, Castore ed io
     Ci proveremo in campo, onde ne venga
     Minor ambascia ai genitori. Basti
     Un morto sol per casa; e restin gli altri
     A rallegrar gli amici, e per gli estinti
     A sposar le donzelle. Una gran lite
     Si giova terminar con picciol danno.
Disse: nė vani i detti suoi fe’ il Nume.
     I duo maggior d’età dal tergo in terra
     Scaricarono l’armi. In campo venne
     Linceo vibrando la robusta lancia
     Sotto il primo girone dello scudo.
     Castore il forte anch’ei scotea la punta
     Dell’asta similmente, e all’uno e all’altro
     Sventolavan le piume in cima agli elmi.
     Le lance affaticaro in pria tentando
     Se mal difesa parte alcun di loro
     Nel corpo avea; ma pria di farsi offesa
     Confitte si spezzàr ne’ duri scudi
     Le punte delle lance. Allor con spade
     Isguainate rinnovarsi incontro
     I mortiferi assalti, e sosta alcuna
     La pugna non avea. Nel largo scudo,
     E nel chiomato elmetto assai diè colpi
     Castore, e nel suo scudo assai ne rese
     Linceo dal guardo acuto, e fea la punta
     Strisciar del brando nel cimier ferrigno.
     Indi al ginocchio manco gli dirizza
     L’acuto ferro; ma col piè lo schiva
     Castore, e d’un fendente gli recide

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     La cima della man. Ferito ei lascia
     Il ferro, e a tutta fuga il passo affretta
     Ver la tomba del padre, ov’Ida il forte
     A mirar siede la civil tenzone.
     Ma Castore gli è sopra, e ben addentro
     Tra l’umbilico e il fianco il largo ferro
     Gl’immerge, e in sen le viscere gli squarcia.
     Linceo boccone in terra giacque, e grave
     Sonno gli corse giù per le palpebre.
     Ma nè pur l’altro de’ suoi figli vide
     Laocoossa fra i paterni Lari
     Le disiate nozze a fin condurre.
     Perocch’Ida Messenio un colonnello,
     Che dalla tomba d’Afareo sporgea,
     Divelto immantinente, all’uccisore
     Del suo germano era a vibrarlo intento.
     Ma Giove lo soccorse, e all’altro scosse
     Di man l’inciso marmo, e incenerillo
     Con infocato stral. Non è liev’opra
     Il pugnar co’ Tindaridi. Son essi
     Per sè possenti, e d’un possente nati.
Addio, figli di Leda. Agl’inni miei
     Per voi si rechi onor eterno e fama.
     Tutti i vati a’ Tindaridi son cari,
     A Elèna e agli altri Eroi, ond’Ilio cadde,
     Quando recaro aita a Menelao.
     A voi, regnanti, il gran cantor di Chio
     Sovrana laude meditò cantando
     Di Priamo la città, le navi Achee,
     Le Iliache pugne, e Achille torre in guerra.
     Io pure a voi delle canore Muse
     I doni, quali son da lor concessi,
     E quali tengo in mio poter, presento.
     Il miglior don, che a’ Numi s’offra, è il canto.