Idilli (Teocrito - Pagnini)/XXII
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I DIOSCORI
Idillio XXII
Laudiam di Leda, e dell’Egioco Giove
I due figli, Castorre, e il fier Polluce
Ne’ pugili conflitti intorno intorno
Le man fasciato di bovini cesti.
Due volte e tre laudiam la maschia prole
Della figlia di Testio, i due fratelli
Lacedemonj, onde i mortali scampo
Han ne’ perigli estremi, e gli atterriti
Corsieri in mezzo a’ sanguinosi assalti,
E le navi, che ad onta delle stelle
Ora cadenti, ora nascenti in cielo
Van preda alle indomabili procelle,
Che gran fiotto innalzando o a poppa, o a prora,
O donde lor più aggrada, incontro al legno
L’urtano, e sfascian l’uno e l’altro fianco.
Vanno squarciati penzolando a caso
Tutti gli attrezzi, e la maestra vela.
Precipita di notte un grosso nembo
Dal cielo, e l’ampio mar stride percosso
Da’ venti e dalle grandini indurate.
Ma voi fin dal profondo in su traete
Navi, e nocchier, che aspettano la morte.
Tosto cessano i venti, e mite calma
Regge il mar; qua e là sgombrano le nubi;
Appajon l’orse, e in mezzo agli asinelli
Il foschetto presepio, onde s’annunzia
Tutto propizio al navigar. O amici,
E giovator degli uomini, ambo dotti
In cetera, e cavalli, e lotta, e canto.
Da Castore farommi, o da Pollace?
Ambidue canterò: ma pria Polluce.
Poich’Argo oltrepassò le due fra loro
Cozzanti rupi, e del nevoso Ponto
L’atroce bocca, alle Bebricie sponde
Con l’alma prole degl’Iddii pervenne.
Quivi per una scala un gran drappello
Venne a sbarcar dall’uno e l’altro lato
Della Giasonia nave, e giù discesi
Nella ventosa piaggia distendendo
Ivan trabacche, ed apprestando fuochi.
Castore prode cavalcante, e il fosco
Polluce divagarono in disparte
Da’ lor compagni, ed aspra selva immensa
Spiando intorno alla montagna, un fonte
Sempre vivo trovar di limpid’acqua
Sotto una liscia rupe, e più basso altri,
Che dal fondo apparìan cristallo e argento.
Grandeggiavan là presso e pini e pioppi,
E platani e cipressi alto-chiomati,
E quanti sul finir di primavera
Nei prati vengon su fiori odorosi,
Dolcissimo lavoro all’irte pecchie.
Quivi sedea al meriggio un uom bizzarro,
Orribile a veder, che in fiera guisa
Da’ pugni fracassate avea le orecchie.
Tondeggiava alto il petto, e il largo dosso
In ferrugigne carni somigliava
Martellato colosso, e sotto agli alti
Omeri fuor delle robuste braccia
Risaltavano i muscoli quai pietre
Rotonde, cui torrente vorticoso
Rodendo liscia ne’ suoi vasti gorghi.
Gran pelle di lion gli discendea
Dal collo su per gli omeri annodata
Fra le sue zampe. Il vincitor di giostre
Polluce il primo a ragionar sì prese.
polluce
Buon giorno, galantuom, chiunque sei.
Chi son gli abitator di questo luogo?
amico
Che buon giorno aver posso al veder gente
Non veduta mai più?
polluce
Fa cuor. Non siamo
Di mal affar, nė di malvagia stirpe.
amico
Fo cuor; nè mi convien da te impararlo.
polluce
Sei ben duro, salvatico e sprezzante.
amico
Son qual mi vedi. E non son già sul tuo.
polluce
Vienci pure, e di là ne tornerai
Con ospitali don.
amico
Tienti i tuoi doni.
Io per recarne a te nessun n’ho in pronto.
polluce
Stranio! neppur darestimi un po’ d’acqua
Da ber?
amico
Tel vedrai ben se mai la sete
Faratti rilassar le arsicce labbra.
polluce
Di’, se vuolci danaro, od altro prezzo.
amico
Uno contr’uno alza le mani, o fermo
In atto di dar pugni, a chi t’è incontro
O pontandogli il piè contro lo stinco.
Guatalo fiso, e fa dell’arte prova.
polluce
Con chi degg’io provar le mani e i cesti?
amico
Vicin tel vedi; e non avrai da fare
Con qualche femminuccia.
polluce
E qual è il premio
Fissato alla tenzone?
amico
Io sarò tuo,
Tu mio, s’io vincerò.
polluce
Tai son le zuffe
Che fan gli uccelli dalla cresta rossa.
amico
O uccelli rassembriamo, o pur leoni
Non vo’, che si combatta ad altro prezzo.
Disse; e postosi al labbro un cavo nicchio
Mugghiar Amico udissi. Al fier rimbombo
Sotto platano ombroso i ben chiomati
Bebrici s’assembraro immantinente.
Tutti non men dalla Magnesia nave
L’intrepido Castor chiamò gli eroi.
Le man guernite di bovine fasce
I combattenti, e cuoi ben lunghi attorno
Alle braccia ravvolti in campo eutraro
Spirando morte un contro l’altro. In pria
Lunga, contesa fu, chi di lor due
Alla spera del Sol voltasse il tergo.
Ma tu, Polluce, al gran gigante innanzi
Per maestrìa passasti; ond’egli tutto
Dardeggiato da’ raggi era nel volto.
Di rabbia invelenito il piè sospinge
Pur oltre, e con la man disegna i colpi.
Ma di Tindaro il figlio, in cima al mento
L’assalitor percote; ei più che mai
Precipitoso il guerreggiar rinforza,
E smisurato gli sta sopra in atto
Di tracollare al suol. Festoso plauso
Fanno i Bebrici; al pro’ Polluce altronde
Coraggio fan gli eroi temendo pure,
Che il peso di quest’uom simile a Tizio
In qualche stretto non l’opprima e schiacci.
Ma il figliuolo di Giove or quinci, or quindi
Si reca innanzi, e ad ambe man lo strazia
Con urti alterni, e soprattien l’assalto
Di quell’immenso figlio di Nettuno.
Ei di piaghe satollo si sofferma
E sputa acceso sangue. Alzàr le grida
A un tempo stesso allor tutti gli eroi
Quando alla bocca, ed alle guance intorno
Vider gli sconci lividori; e nella
Rigonfia faccia impiccioliansi gli occhi.
Il prode pur aizzaval d’ogni banda
Col minacciar de’ colpi. E quando il vide
Cagliar, vibrógli a mezzo il naso in alto
Fra ciglio e ciglio un pugno, e sino all’osso
Tutta gli aprì la fronte. Ei sì mal concio
Si rinversò supin tra l’erbe verdi.
Poi surto rincalzò l’atroce mischia.
L’un l’altro s’ammaccavan con le botte.
Mortifere de’ cesti. In mezzo al petto,
E fuor del collo i colpi dirizzava
Il duce de’ Bebrici; e d’altra parte
L’indomabil Polluce gli bruttava
Di sozzi marchi il volto, e così il corpo
Spremevagli in sudor, che il fe’ d’uom grande
Ben tosto impicciolir; mentr’ei mostrava
In mezzo al faticar più grandi ognora
Le invitte membra, ed il color più vivo.
Ma come al fin di Giove il figlio oppresse
Il vorace gigante, ah! tu, che il sai,
Dillo, tu Dea. Come a te giova, e piace,
Narrator fido ridirollo altrui.
Accinto a una gran prova Amico afferra
Con la sua manca mano a lui la manca,
Schivandone l’assalto obbliquo, e chino.
Dal destro fianco alzato il grosso braccio
Su lui con l’altra s’abbandona, e guai
Al re Amicleo, se mai giugnealo il pugno.
Ma col capo di sotto se gli tolse,
E con la salda man sotto la tempia
Sinistra il colse, e gli saltò sul tergo.
Spicciava dalla tempia boccheggiante
L’atro sangue; ei pestava con la manca
La bocca, e i folti denti sgretolaro.
Doppiando a mano a man più duri i colpi
Sfregiavagli la faccia, e tutte infine
Le guancie sfracellógli. Ei steso in terra
Disanimato, ed omai presso a morte,
Cedendo ambe in un tempo alzò le mani.
Nè già tu allora, o vincitor Polluce,
Alcun gli festi oltraggio. Indi con forte
Giuro a te protestò, dal mar chiamando
Nettuno il genitor, che per l’innanzi
Non più farebbe a’ viandanti oltraggio.
Tu, signor, se’ lodato. Or io cantando
Te, Castore, verrò, Tindaria prole,
Veloce cavalcante, armato il petto
Di fino usbergo, agitator di lancia.
Rapite si recavano i due figli
Di Giove le due figlie di Leucippo.
Correano dietro a lor rapidamente
I duo Germani figli d’Afareo,
Ch’eran già fissi alle fanciulle sposi,
Il forte Ida, e Linceo. Giunti alla tomba
Dell’estinto Afareo tutti in un tempo
Sceser da’ cocchi ad affrontarsi carchi
Di cavi scudi, e d’aste. Allor Linceo
Di sotto all’elmo alto gridò: Deh! quale
Disío di guerra, o sciagurati, è il vostro?
Perchè volete infellonir per mogli
Non vostre, e in man recarvi i brandi-ignudi?
A noi già molto prima avea Leucippo
Le sue figlie promesse, e fur giurate
Con noi le nozze. Or contra ogni rispetto
Agli altrui letti con le altrui sostanze
E buoi, e muli travolgeste il padre,
E co’ doni furaste il maritaggio.
Spesso in vostra presenza (e non son uso
A far gran motti) avea già detto: Amici,
A gente prode si disdice in mogli
Cercar donzelle, che han gli sposi in pronto.
È grande Elide equestre, e grande è Sparta,
È Arcadia ricca in mandre, e le cittadi
Achee, Messene ed Argo, e tutta quanta
La Sisifia maremma, ove fanciulle
Crescon sotto i lor padri a mille a mille,
Cui nè manca buon’indole, nè senno.
Voi potrete sposarne a vostro grado,
Poichè molti ambiran suoceri farsi
Di valorosi; e voi gran nome avete
Infra tutti gli eroi, com’anco i padri
L’ebbero, e tutto il vostro sangue antico.
Deh! lasciateci, o cari, a fin condurre
Le nostre nozze, e ad appagar voi pure
Noi tutti penserem. Tali, e molt’altri
Furo i miei detti, che portossi il vento
Tra i fuggevoli flutti; e da voi grazia,
Duri, inumani, il mio parlar non ebbe,
Or piegatevi alfin, che a noi pur siete
Ambo cugini dal paterno lato.
Che se pur il cor vostro agogna guerra,
E rotto il freno alle contese, è d’uopo
Che la lite decidasi col sangue:
Ida, e il valente mio cugin Polluce
Le ostili man rimovano dall’armi.
Noi minori d’età, Castore ed io
Ci proveremo in campo, onde ne venga
Minor ambascia ai genitori. Basti
Un morto sol per casa; e restin gli altri
A rallegrar gli amici, e per gli estinti
A sposar le donzelle. Una gran lite
Si giova terminar con picciol danno.
Disse: nė vani i detti suoi fe’ il Nume.
I duo maggior d’età dal tergo in terra
Scaricarono l’armi. In campo venne
Linceo vibrando la robusta lancia
Sotto il primo girone dello scudo.
Castore il forte anch’ei scotea la punta
Dell’asta similmente, e all’uno e all’altro
Sventolavan le piume in cima agli elmi.
Le lance affaticaro in pria tentando
Se mal difesa parte alcun di loro
Nel corpo avea; ma pria di farsi offesa
Confitte si spezzàr ne’ duri scudi
Le punte delle lance. Allor con spade
Isguainate rinnovarsi incontro
I mortiferi assalti, e sosta alcuna
La pugna non avea. Nel largo scudo,
E nel chiomato elmetto assai diè colpi
Castore, e nel suo scudo assai ne rese
Linceo dal guardo acuto, e fea la punta
Strisciar del brando nel cimier ferrigno.
Indi al ginocchio manco gli dirizza
L’acuto ferro; ma col piè lo schiva
Castore, e d’un fendente gli recide
La cima della man. Ferito ei lascia
Il ferro, e a tutta fuga il passo affretta
Ver la tomba del padre, ov’Ida il forte
A mirar siede la civil tenzone.
Ma Castore gli è sopra, e ben addentro
Tra l’umbilico e il fianco il largo ferro
Gl’immerge, e in sen le viscere gli squarcia.
Linceo boccone in terra giacque, e grave
Sonno gli corse giù per le palpebre.
Ma nè pur l’altro de’ suoi figli vide
Laocoossa fra i paterni Lari
Le disiate nozze a fin condurre.
Perocch’Ida Messenio un colonnello,
Che dalla tomba d’Afareo sporgea,
Divelto immantinente, all’uccisore
Del suo germano era a vibrarlo intento.
Ma Giove lo soccorse, e all’altro scosse
Di man l’inciso marmo, e incenerillo
Con infocato stral. Non è liev’opra
Il pugnar co’ Tindaridi. Son essi
Per sè possenti, e d’un possente nati.
Addio, figli di Leda. Agl’inni miei
Per voi si rechi onor eterno e fama.
Tutti i vati a’ Tindaridi son cari,
A Elèna e agli altri Eroi, ond’Ilio cadde,
Quando recaro aita a Menelao.
A voi, regnanti, il gran cantor di Chio
Sovrana laude meditò cantando
Di Priamo la città, le navi Achee,
Le Iliache pugne, e Achille torre in guerra.
Io pure a voi delle canore Muse
I doni, quali son da lor concessi,
E quali tengo in mio poter, presento.
Il miglior don, che a’ Numi s’offra, è il canto.