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— Bisogna mandarlo via corto corto, e senz’altro, M. Claret. Io m’incarico di trovargli del pane. Ma io ò bisogno del suo posto, io: quel posto mi fa d’uopo.

— Come! voi dite...

— Che quel posto mi fa d’uopo.

— Oh! per esempio! Non vi basta dunque quello che avete?

Maitre d’hôtel di madama Thibault! Pouah! Gli è buono per guadagnar danari, codesto.

— Catterone! Ma io credo che il re è alle Tuileries per la stessa ragione.

— Sì: danari della sua intelligenza, non un salario.

— Quanto vi rende il vostro posto?

— Sei mila franchi l’anno, compresi i regali — ma i benefizi sugli affari, in più.

— Corna di un bue! e voi sollecitate il posto di cameriere, che vi darebbe due cento franchi al mese?

— E per ciò appunto io li rifiuto. Voi mi farete l’onore, M. Claret, di comprare ogni mese con i miei onorari un abito alle vostre figliuole o a madama Claret.

— Ma voi fabbricate dunque dei vaudevilles, père Pradau?

— Io fabbrico castelli, M. Claret. Statemi ad udire. Io sono ambizioso. Io ò di già dieci mila lire di rendita, e me ne occorrono ventiquattro.

— Nè più, nè meno?

— Meglio ancora. Io voglio comprare nel Berri un castello, vicino a quello del conte di Vixelles — che mi ricusò un giorno un posto di domestico in casa sua. Voglio vederlo a cacciare sulle mie terre costui, a desinare alla mia tavola con la sua moglie e la sua progenie, e venire, cappello in mano, a sollecitare il mio voto nelle elezioni.

— Il tutto mediante...?

— Ventiquattro o trenta mila lire di rendita, cui io avrò, cui noi avremo, M. Claret.

— Voi dite noi, père Pradau?

— Come! credevate voi dunque che io fossi così egoista di mangiar solo e di lasciare i miei amici razzolar nelle ossa?

— Per esempio! no: ma...

— Ascoltatemi bene, M. Claret, e comprendetemi bene. Che cosa sono io adesso? L’intendente di una donna che