I suicidi di Parigi/Episodio terzo/VI
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VI.
Un po’ delle cose del duca di Balbek.
Il duca di Landolles, emigrato rientrato e rallegato a Bonaparte imperatore, aveva maritato le sue due figlie con due generali: l’una al conte di Saint-Alleux — morto da una granata a Waterloo; l’altra al conte di Muge — riavvicinato ai Borboni ed ucciso in Africa da Abdel-Kader.
Il duca di Landolles, avendo mangiato ai giuochi di Frascati ciò che gli restava della sua fortuna, non aveva dato in dote alle figliuole che la loro bellezza.
I due generali, non avendo avuto l’opportunità di raccogliere un po’ di dovizie, non avevano legato alle loro vedove che la pensione di diritto per vivere, e l’intrigo per prosperare.
Il conte d’Alleux aveva lasciato un figliuolo, raccomandandolo alla protezione di suo fratello, vescovo allora, ed in seguito arcivescovo e cardinale.
Il conte di Muge aveva lasciato una ragazza, raccomandandola alle cure di sua sorella, superiora al Sacré-Cœur.
I due militari avevano un’assai mediocre stima del carattere delle loro mogli.
Il piccolo conte d’Alleux si chiamava Adriano.
La piccola contessa di Muge si chiamava Vitaliana.
I due fanciulli erano belli. Le due madri sapevano per esperienza che la bellezza è un capitale, di cui il numero di zeri che segue l’unità è indeterminato. Quella due donne accorte sapevano anche di più: sapevano che la bellezza è la locomotiva del mondo — mi scusi l’oro, che se ne crede il re! I due fanciulli erano dunque per le loro madri due cambiali tirate sulla società, cui elleno si promettevano scontare abilmente.
Bisognava però attender per codesto. Imperciocchè non si colloca una figliuola prima di sedici anni; non si fa regalo di un’ereditiera ad un bel giovanotto, il quale non abbia almeno raggiunto i suoi diciannove o venti anni.
Lo zio e la zia complicavano la situazione. Perocchè il cardinale si metteva in misura di tagliare un abate nel figlio di suo fratello, per perfezionarlo in seguito e cavarne un vescovo. La superiora del Sacré-Cœur voleva tenersi sua nipote al convento, onde innalzarla poi fin non so dove — al suo posto forse, quando ella morrebbe, o a quello d’una santa del paradiso. Per conseguenza, Adriano era allevato al seminario di Saint-Sulpice, e Vitaliana nello splendido stabilimento della strada di Varenne.
Le loro madri li visitavano durante tutto l’anno. Ma i due cugini non si vedevano altrimenti che nel tempo delle vacanze.
Si videro così, per quattro o cinque anni, quasi tutti i giorni, nelle sei settimane che passavano presso le loro madri — Adriano smorfiando la messa; Vitaliana la maestra della classe — regalandosi copia d’immagini; raccontandosi parecchi tratti e propositi e parecchie storie di famiglia dei loro compagni reciproci; rivedendosi con gaudio; separandosi con tristezza; promettendosi di scriversi, ed aggiornando altri spassi all’anno venturo.
Adriano toccò così i diciotto anni.
Vitaliana i sedici.
Essi si avevano scambiato fin là dei baci senza importanza, come avevano cambiati i loro volanti, i loro palloni, i loro giuocatoli, le immagini benedette, i piccoli libri pii, i libri da messa legati in rosso e dorati ai tagli. Ma quando si separarono quest’anno, quando si abbracciarono par dirsi: a rivederci! Vitaliana imporporì fino al bianco degli occhi, Adriano impallidì fino alle labbra — quelle ciliege inalterabili. Poi, e’ si guardarono ancora, rivolgendosi, ed entrambi asciugarono una lagrima in silenzio.
Adriano ritornò al seminario.
Vitaliana restò in casa di sua madre, perchè la zia del Sacré-Cœur era morta, e la contessa di Muge si curava poco di fare di sua figlia una maestrina o una beata.
La contessa di Muge non essendo ricca, non si prodigava per feste che esigevano un lusso esorbitante ed una immensa varietà di toilette. Quest’abile donna si mostrava unicamente ai balli delle Tuileries ed a quelli dell’ambasciate d’Inghilterra, di Russia e di Austria — cinque o sei sere nell’anno.
Ella metteva questa parsimonia sul conto della sua fierezza e del suo disdegno pel piccolo mondo alla maschera aristocratica. In quei balli, d’altronde, ella incontrava ciò che ella voleva. Come ella poi si spacciava per malata — e perciò non avendo tempo a perdere — si decise a presentare quest’anno Vitaliana nel mondo.
Vitaliana era troppo giovane d’anni; ma l’adolescente aveva di già le forme della donna — quantunque tutta magrolina ancora e scolorata dallo spossamento della crescenza.
Madama di Muge non ebbe certo a lagnarsi dell’effetto che produsse Vitaliana alle Tuileries, ove ella l’esibì per la prima volta. Tutti gli occhi, tutte le lenti si diressero sulla giovinetta, e ciascuno dimandò al vicino:
— Conoscete voi, signore, il nome di quella fanciulla?
Pochi la conoscevano. E coloro che sapevano chi ella fosse, non ignoravano probabilmente pure il carattere della madre, lo stato della possidenza e la loro posizione sociale. Di guisa che, quell’anno, non svolazzarono intorno alla bella figliuola che dei ballerini e degli stranieri.
Un solo uomo considerevole invitò Vitaliana a ballare e cicalò con lei qualche istante dell’opera del Conte d’Ory e della Favorita. Costui fu il duca di Balbek, uno dei lions del mondo parigino. Vitaliana rispose — arrossendo un po’ della sua ignoranza — che ella non era ancora stata nè agl’Italiani, nè all’Opera.
L’anno passò così.
Era il secondo anno dell’ambasciata del duca di Balbek a Parigi, ove egli teneva già il bordone della fashion e sguazzava nella più alte regioni dell’ebrietà dei suoi successi.
— La campagna è stata cattiva! sì — disse la contessa di Muge, ritirandosi nella sua terra a primavera. Nonpertanto ò provato le armi. Esse sono buone.
Ed ella contemplava sua figlia con gli occhi di un mercante di schiavi in Oriente.
L’aria delle montagne dei Vosges, ove si trovava il piccolo castello della contessa — ella lo addimandava così — fu di un effetto prodigioso per Vitaliana. Il suo sviluppo si compiè: l’abbozzo divenne opera. Non una delle promesse aveva fallito. Nessuna dalle speranze di una madre ambiziosa era stata tradita. Non una delle opulenze annunziate, che non si fosse lussuosamente realizzata. Non un gioiello che non divenisse un tesoro. Quando la contessa di Alleux e suo figlio vennero al castello di Muge, essi restarono abbarbagliati dallo splendore che Vitaliana aveva acquistato in sei mesi.
La contessa di Alleux se ne compiacque.
Adriano ne pianse di furto.
Questa volta i due cugini si trattarono infinitamente con più riserbo. Non si abbracciarono più.
Vitaliana raccontò ad Adriano tutto ciò che ella aveva visto nel mondo l’inverno scorso; il numero di volte che aveva ballato; il nome de’ suoi cavalieri: i propositi che le avevano susurrato all’orecchio — ma ciò con molte reticenze — in uno, quella grande festa della vita che si presenta ad ogni fanciulla come un incanto di fate, e che, qualche anno più tardi, termina talvolta così lugubremente.
Durante quei racconti alle piume d’oro, ai profumi stupefacenti, Adriano si taceva, ed i colori si alternavano sul suo viso. Non osò questa volta dar la replica con le sue storie di seminario e con i suoi vagheggiamenti di — non più lontano che l’anno scorso! — sciorinarla da vescovo in una messa pontificale! Egli massacrava invece Vitaliana di mazzetti, cui andava a frugacchiare sotto i cespugli della montagna, di farfalle, cui dava la caccia nelle praterie, e di ogni specie d’insetti ai colori brillanti, cui acchiappava al volo come un’allodola.
Aveva cura però di ripigliare tutt’i fiori cui Vitaliana aveva appassiti, sia nei suoi capelli, sia nel suo busto; d’impossessarsi di quanto Vitaliana avesse toccato; di bere di nascosto nel bicchiere di lei; di raccogliere le briciole di fettuccia, gli stracci, i fogli di carta scritti, tutto ciò che Vitaliana aveva sfiorato e che svolazzava sotto la finestra della camera da letto di lei — spiando perfino il capello cui la brezza le involava quand’ella si pettinava.
Poi, egli faceva sul piano dei prodigi, per ricordarsi, per inventare, se occorreva, per suonare tale aria, tale sinfonia, tal duetto cui Vitaliana preferiva. Se la sua mano, se il suo piede toccavano la veste stessa di sua cugina, Adriano allibiva, aveva i brividi. Egli smagriva, scoloriva. Non dormiva più la notte. Mangiava appena. Insomma, era proprio tempo che il mese di novembre arrivasse e mettesse termine alle vacanze.
Quando i due cugini si abbracciarono per dirsi addio — Addio! disse Adriano, mentre Vitaliana diceva: All’anno venturo! — Quando le labbra di Adriano toccarono le guance di Vitaliana, questa si sentì scorrere lungo la spina dorsale un fluido incognito, il quale le rivelò che ella era donna, e dette una forma ai sogni nebulosi che agitavano talvolta le sue notti.
Adriano le aveva inoculato quella scintilla negli occhi, quel languore nella parola, quel formicolare nelle labbra, quella elettricità divina del bacio, quell’irradiamento della respirazione, quel flusso e riflusso del sangue luccicante di pagliette di oro, quel brivido inebbriante, quel delirio stellato che chiamasi amore, voluttà — e che Dante riassume in una parola: indiare!
Poi non si rividero più. E forse in quel cuore, ove aveva regnato Adriano, restò una ferita, ed in quello, ove aveva regnato Vitaliana, una cicatrice.
L’inverno giunse.
I balli cominciarono.
Vitaliana rientrò nel mondo al primo ballo delle Tuileries.
L’effetto che vi produsse fu immenso. Ella ecclissò tutto ciò che l’Inghilterra, la Polonia, la Francia avevano riunito di quei fiori di stufa, il cui splendore appanna le stelle.
Questa volta non furono più i giovanotti che ronzarono intorno a lei. Erano gli uomini, dallo sguardo concentrato e stupefatto, che le si avvicinarono tremando. Gli era il blasé che risuscitava; il milionario che sperava; il potente che dimandava grazie; la forza che si trovava impotente; il desiderio che si sentiva delirio; la vita seria che vagava atterrita intorno a quel filtro dei cieli — il quale si presentava con l’innocenza dell’olezzo di una rosa, il bagliore grave di una perla, la soavità di un’alba di primavera, la neghiazza divina della verginità — quel candore che ignora sè stesso, cui si scorge nell’angelo del Cimabue e nelle madonne dell’Angelico.
All’istante in cui il duca di Balbek la distinse, di un varco fu a lei.
Egli infieriva di orgoglio per aver scoverto, indovinato, profetizzato Vitaliana nel superbo embrione dell’anno precedente. Questa vanità sola sarebbe bastata per infiammarlo.
E’ s’impossessò della giovinetta per tutta la sera.
Vitaliana non ne sembrò punto tòcca.
Ma sua madre vedeva tutto, s’informava, calcolava.
Il generale di Hauteville presentò il duca alla contessa di Muge.
Questa lo accolse con una grazia squisita, ma dall’alto. Si parlò di frascherie. Il duca di Balbek aveva uno spirito triviale — reso brutto dalla fatuità e sformato dallo sforzo cui faceva per metterlo in evidenza.
Non si à mai così poco spirito che quando si piglia a partito di mostrarne dovizia. Questo fiore spontaneo, sì delicato, diviene scialbo o eteroclito, come tutti quei prodotti scipiti di cui il giardiniere sollecita lo sboccio.
La contessa non commise lo sbaglio di mostrarsi al secondo ballo della Corte ed a quello dell’ambasciata di Russia.
Ella non apparve, che come baleno, al ballo dell’ambasciata d’Austria. Ma si mostrò in tutto il suo splendore in quello dell’ambasciata d’Inghilterra — perchè ebbe l’accorgimento d’impegnare tutt’i suoi parenti, della più alta aristocrazia del Faubourg, a non mancarvi — e trovò per Vitaliana una toilette d’una semplicità e d’un’eleganza che trasformava quella fanciulla in cherubino.
Il colpo che ella voleva portare ferì di punta.
Il duca di Balbek dimandò alla contessa l’onore di presentarsi a lei.
Due mesi dopo, Vitaliana era duchessa di Balbek.
Ella entrava nella vita con un’immagine negli occhi; un rêve nel cuore; un sentimento profondo del suo dovere; una stima che lambiva l’idolatria per la persona, pel carattere, per la dignità, per la virtù di suo marito. Ella non lo amava, ma lo venerava.
Egli la desiderava più che qualunque altra cosa.
A capo di un anno, ella fu madre.
Ella era madre a diciotto anni. Ma niuna vergine aveva più di serenità nello sguardo, più freschezza nelle labbra. La sua innocenza in tutte le emanazioni dell’anima, il suo pudore in tutto il portamento della persona, facevano di lei una madonna.
Ecco la sua aureola, ed ecco il suo torto.
Si sarebbe dimandato, malgrado ciò, se ella era felice o noncurante; se era insensibile o ipocrita. Imperciocchè, in generale, quelle quietudini profonde sono raramente sincere, se non ànno l’idiotismo per base.
Un giorno suo marito le dimandò, folleggiando con i capelli di lei:
- Vitaliana, che diresti se ti raccontassero, per esempio... che io ò... perdonami la parola... una ganza?
- Non so troppo - rispose la giovane. Ma io credo che sarei affatto sorpresa che tu non ne avessi che una.
- Come sorpresa? - sclamò il duca. Tu non mi ami dunque? Tu non sei mica gelosa?
- Io ò sempre pensato, amico mio, che la gelosia fosse una rivolta di amor proprio, anzichè un’esplosione di amore. Otello era un negro egoista.
Un altro giorno il duca le disse:
- Tu ti devi annoiare sovente di codesta vita un po’ solitaria, a cui la mia posizione nel mondo ed il ritiro di tua madre col figliuolo alla campagna ti condannano.
- Tu sai che il tuo mondo non mi seduce enormemente - rispose Vitaliana - e che i saloni mi attirano mediocrissimamente. Io non ò spirito quanto occorre per regnare. E, d’altronde, sono restata, in fondo in fondo, la pensionaria del Sacré-Cœur.
— L’è vero.
— E poi, credi tu, caro, che i più spiritosi dei nostri poeti, Victor Hugo, Musset, Dumas, che so io, Balzac, egli stesso, potrebbero dirmi altra cosa che me ne dicono il mio specchio od i miei fiori? L’uno mi piaggia così compiacentemente; gli altri m’incantano. Se tu sapessi come cantano quei piccoli birboncelli lì, quando mi veggono zonzar per la stufa!
Tre o quattro giorni dopo il colloquio del principe di Tebe con il principe di Lavandall, a colazione, il duca le disse:
— A proposito, sai tu, piccina mia, chi ò intraveduto ieri sera?
— No.
— Tuo cugino, il conte d’Alleux.
— Povero Adriano! deve essere ben triste dopo la morte di sua madre.
— In fede mia, mica troppo!
— Oh sì! egli l’amava tanto!
— È possibile. Ciò però non impedisce che io lo abbia veduto per qualche minuto in un palco ai Français contar fronzoli ad una giovane bellezza, quasi sola.
— Come! una prefazione di abate nel palco di una bella ai Français?
— Gli è che e’ non è più l’abate cui vedemmo piangere ai funerali di sua madre, nei mesi scorsi. La larva è scoppiata, ed à sprigionato uno zerbino dei più graziosi e dei più eleganti. O’ pensato un istante d’ingannarmi. Ma egli mi à salutato della testa, sbirciandomi. Era ben desso.
— E’ non sarà dunque più vescovo, allora?
La conversazione fu interrotta dall’arrivo di una lettera. Il duca la prese, dimandò a sua moglie il permesso di aprirla e lesse:
- «Caro duca,
«Devo presentare nel mondo una mia giovane parente di una eclatante bellezza. Ora, come voi siete il lion dei nostri lioncini parigini della moda, vi dimando quale giorno sarete libero per venire al mio ballo, onde io lo assegni, e lo indichi in seguito agli ambasciatori di Russia, di Spagna e di Turchia, ed ai nostri signori del Faubourg. Fatemi la grazia di una parola di risposta, ecc., ecc...
«Augusta Thibault.»
— Chi à portata questa lettera? — dimandò il duca al lacchè.
— Una specie di messere, che aspetta la risposta.
— Fatelo aspettare.
E Pradau non dimandava di meglio che aspettare.