I rossi e i neri/Primo volume/XXII
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XXII.
Degli apparecchi che fece la contessa Cisneri per andare ad una festa da ballo
Le necessità del nostro racconto ci conducono da capo in casa della contessa Matilde Cisneri.
Era lo stesso giorno in cui Lorenzo aveva pagato il suo debito al padrone di casa, e sebbene fossero già scoccate le nove di sera, la contessa Matilde era nel suo spogliatoio; santuario della bellezza, dove non era penetrato altri che il gran sacerdote, o vogliam dire il parrucchiere. Ma già il gran sacerdote era partito, dopo aver acconciato mirabilmente i biondi capegli della diva, e sottentrava la sacerdotessa, anzi diciamo la cameriera Cecchina, che disponeva in bell’ordine le sottane insaldate, il crinolino, una magnifica gonna di seta azzurra, ed altri arnesi, i quali aspettavano d’essere stretti intorno alla persona della bella contessa.
Matilde intanto, coperte le spalle da un bianco accappatoio, stava di profilo dinanzi ad uno specchio a bilico, ma guardando di sbieco in una piccola spera che aveva tra mani, la quale, come il lettore ha già indovinato, le faceva vedere tutta l’acconciatura del capo, già riflessa una volta dallo specchio più grande. Così, guardandosi per tutti i versi, la bionda contessa sorrideva; segno che era molto contenta della sua testolina.
Ma perchè e per chi la contessa Matilde si faceva così bella, alle nove di sera? Il sullodato lettore ha già indovinato anche questo. La contessa Matilde si metteva in assetto di guerra per una festa da ballo, alla quale era stata invitata, in casa Torre Vivaldi.
Con quella gran festa i Torre Vivaldi chiudevano la loro stagione di città, pochi giorni innanzi di andare in campagna. Ora, siccome il lettore avrà ad udir molto di quella famiglia, che è già comparsa una volta nel nostro racconto, non sarà inutile che ci fermiamo un tratto a parlarne.
La famiglia Vivaldi, o, per meglio dire, quel ramo della famiglia, di cui la bella marchesa Ginevra era l’ultimo rampollo, non si dipartiva mai dalle sue consuetudini. Da parecchie generazioni era costumanza di tutti gli anni andar presto in villeggiatura e tornare tardissimo.
E i Vivaldi non avevano il torto ad osservarla fedelmente; perchè nel palazzo di Quinto era un magnifico stare, quasi meglio che nel palazzo di Genova, dove gli affreschi, le dorature, le sculture e le tele di valenti pittori d’ogni scuola, facevano sempre un viavai di forestieri, che era una molestia da non dirsi a parole, quantunque tornasse a maggior lustro della casa.
La villa di Quinto era un luogo incantato, una dimora di Alcina, con questo di meglio che la fata regina si chiamava Ginevra, e le grazie della sua persona non erano effimere come quelle della vecchia strega immaginata dal divino Ariosto. Colà era il palazzo, edificato coi disegni di Galeazzo Alessi; il giardino stupendo, piantato con gusto italiano innanzi che i forestieri ci rimpastassero e ci imbandissero come nuova la nostra invenzione; i viali ombrosi, i prati verdeggianti, il laghetto, la Corte di amore, e finalmente il teatro, acconcio alla recitazione di drammi pastorali e commedie villerecce, fatto con erbosi rialzi di terra, siepi di bosso e quinte di alloro. Colà gli opulenti abitatori non avevano certo da rimpiangere la città, e la presenza degli amici consolava della mancanza di tutti quei visitatori, spesso molesti, che tira ai fianchi la consuetudine del vivere cittadino.
Un’altra usanza, stabilita in casa Vivaldi dalla marchesa Tullia, bisavola di Ginevra, e famosa nelle memorie nostrane per la sua stupenda bellezza e per l’ingegno che ebbe grandissimo su tutte le donne ed anco su molti uomini colti del suo tempo, era quella delle due feste da ballo.
Le sale di casa Vivaldi erano aperte ai visitatori consueti in tutte le sere di martedì; ma la gran sala, la sala massima, era illuminata soltanto due volte all’anno, la prima sul cominciare del carnevale, la seconda in primavera, e in quelle due occasioni si facevano inviti formali.
Erano quelle feste come il primo saluto e l’addio, l’ave e il vale della famiglia agli amici suoi e a tutte le sue aderenze cittadine. E in quella guisa che erano solenni, così attiravano tutta la nobiltà mascolina e femminile, e l’alta borghesia mascolina della città. Le signore della borghesia non erano invitate, salvo il caso che fossero nate nobili, o avessero trentasei quarti di bellezza e ricchezza, che possono ben tener luogo di stemma gentilizio.
Delle due feste da ballo di casa Vivaldi si usava parlare per tutta Genova molte settimane innanzi. Erano solennità a cui bisognava prepararsi, i mariti con un esame di borsa, le mogli con una conferenza dalla sarta. In quelle sere poi che si ballava in casa Vivaldi, i palchetti del teatro Carlo Felice erano quasi tutti deserti delle solite deità femminili. Le signore che andavano al ballo dovevano acconciarsi; quelle che non ci andavano, dovevano far credere che ci andassero. Le feste di casa Vivaldi erano eventi strepitosi; nè una gran dama, nè un giovanotto elegante, nè altra persona per la quale, potevano ignorarne impunemente i più minuti particolari.
Il marchese Antoniotto della Torre, marito della Ginevra, aveva rispettata la consuetudine della famiglia, e la considerava come un canone appiccicato a quella grossa eredità che era venuta in sue mani. Però faceva le cose da gran signore, sicchè molti vecchi dimenticavano il fasto dell’ultimo marchese Vivaldi, che pure, in quelle due solennità dell’anno, era splendido al pari de’ suoi antenati.
Ora noi chiediamo a tutti quei lettori che si ricordano delle feste di casa Vivaldi: poteva la contessa Matilde Cisneri, poichè aveva la fortuna invidiabile di essere stata invitata, resistere a quella gran tentazione? Tutti, e prime le nostre lettrici, grideranno di no.
Infatti, come si è già veduto, ella si disponeva ad andare, ed era impaziente di giungervi. Quanto mutata, in breve spazio di tempo! Quanto mutata da quella Matilde che sentiva profondo il tedio della vita di conversazione, dei teatri, delle feste, e loro annessi e connessi! O dove era andato quel santo orrore delle vanità mondane, quell’amore della solitudine, e quel divoto rifarsi alla solitudine dell’amore? Era svanito, andato in dileguo, come la nuvola di fumo, sua sorella germana.
Povero Lorenzo! dirà taluno. Ma anche a questo vanno fatte le debite restrizioni. Anch’egli non ci aveva il suo tanto di colpa? Non era egli l’artefice del suo disinganno? Lorenzo Salvani, con tutto il suo ingegno, con tutta la sua gravità e l’esperienza delle sventure, era ancora un fanciullo. Non volle, e non seppe fermarsi un tratto a considerare l’argomento della sua passione; epperciò non gli venne in mente che certe donne, sebbene mostrino di desiderarli, a lungo andare non patiscono gli amori profondi, gelosi, prepotenti delle anime forti.
E poi, è legge dell’amore, che esso vada sempre dal basso all’alto. Ed anco se vedete un uomo ed una donna ricambiarsi in giusta misura, dite pure che quella legge è osservata a puntino; perchè la donna per un verso, l’uomo per l’altro, si riconoscono scambievolmente tali perfezioni, da far sì che uno dei due creda sempre essere da meno dell’altro. Ora Lorenzo, il quale era sembrato molto alto da principio alla contessa Matilde, non le sembrava più tale. Fu un ragguardevole uomo allorquando ebbe dato una botta nel fianco ad Aloise di Montalto; ma poi non seppe cavar profitto dalle sue gesta, acciuffar l’occasione e pigliarsi un buon posto innanzi alla gente.
Matilde non istette molto ad accorgersi di avere ai fianchi un semplice innamorato; e d’innamorati una donna bella ne trova ad ogni uscio, se pure ella non li trova tutti affollati al suo. Era ricco d’ingegno, e avrebbe potuto salire a grande rinomanza; ma la contessa non era donna da indovinare il futuro, o, quando anche l’avesse indovinato, da legarsi ad un uomo per quella celebrità e per quella potenza che era di là da venire.
Pensava in cambio che Lorenzo era un ignoto. Andasse dalla Clelia, dalla Fanny, dalla Caterina (le dame d’alto affare si chiamano col loro nome di battesimo, come per stabilire una differenza tra esse e il volgo di tutte le altre), ella non udiva mai parlare di Lorenzo Salvani. Si lodava il cavallo di un giovanotto, si chiacchierava degli amori di palcoscenico di un altro, e tutti quanti erano, per una cosa o per l’altra, passati in rassegna. Di Lorenzo mai una parola. Per tutta quella gente che, stando un po’, in alto, finisce col reputarsi ogni cosa, Lorenzo Salvani era un nulla e non metteva conto discorrerne.
E qui parliamo di coloro che lo conoscevano, e sapevano anche degli amori della Matilde con lui. Il parlare di tanti altri e raccontarne vita e miracoli, era come un rimprovero a lei che era andata a cercarsi un amante fuori di quella cerchia appariscente dove nascono belli e fatti, che non c’è da desiderare più altro.
Lorenzo dal canto suo, oltre che non aveva cavato profitto dalle sue imprese, andava ogni giorno scemando di pregio, come le cartelle del debito pubblico in tempi burrascosi. Da lunga pezza il suo vestire era trasandato anzi che no. Il suo eterno vestito nero, che di sera poteva passare, in grazia dell’adagio: di notte ogni gatto è bigio, mostrava maluccio alla luce del sole, essendo già un po’ spelacchiato sulle costure. Ora una donna, sia che ne tragga argomento di onore o di vergogna, si accorge sempre di questi nonnulla.
Per dirla in poche parole, l’amore di un uomo come il nostro povero amico Lorenzo, non era uno di que’ romanzetti che una dama galante potesse mettere in mostra e farsene bella al cospetto della gente. Ed oltre tutto ciò, l’umor geloso del giovine stava per vietarle ogni maniera di passatempi; della qual cosa ella avrebbe avuto a dolersi tanto più, in quanto che non amava più abbastanza.
La contessa era dunque ad uno di que’ punti, nei quali si sta per prendere una forte deliberazione. Ella non voleva incatenarsi e pensava a protestare col fatto, innanzi che la piaga si facesse più fonda.
Tutte queste cose contrastano invero coi lieti cominciamenti che il lettore conosce. Ma noi non inventiamo nulla, e Iddio ci guardi così dalla stolta pretensione di mutare il cuore umano, come dalla pericolosa manìa di dipingerlo a nostro talento.
Metteremo fine a queste considerazioni con un aforisma che non ci ricorda di aver mai letto in nessun trattato sull’amore e che però daremo nuovo di zecca ai lettori. «Quando una donna non ama più un uomo, o ne sopporta l’ amore come una grande molestia, il che torna lo stesso, si può giurare che ci abbia già un altro all’uscio del cuore.»
Ora, chi era l’altro della contessa Cisneri? Per non tener a bada oltre il bisogno i lettori, diciamo che da un mese appena le era stato presentato Edmondo Alerami, conte palatino; un bel giovinotto sui trentadue, il quale aveva due occhi assai belli, sebbene dintornati da certe grinze che accennavano una vita scapigliata anzi che no, naso aquilino, baffi folti che gli scendevano sugli angoli delle labbra per rialzarsi superbamente in due punte attorcigliate, e un’ariona da principe indiano, a cui dava maggior risalto il suo viso abbronzato.
Questo signor Alerami non si sapeva donde venisse. Il suo titolo di conte palatino non chiariva nulla, perchè poteva averlo ereditato da’ suoi maggiori, oppure ottenuto egli stesso, poniamo, dal Papa. Egli si diceva nato fuori, di parenti italiani; parlava tutte le lingue, ed era stato dappertutto, ma nell’India più a lungo che altrove.
Che cosa avesse fatto in India non diceva. Da’ suoi discorsi si poteva qualche volta trapelare che avesse guerreggiato contro gli Indiani, o che avesse passato il suo tempo alla caccia delle tigri e degli elefanti, od ancora che avesse sfruttato una miniera di diamanti. Il conte Alerami parlava molto; ma, con tutte le sue chiacchiere, stava sempre chiuso come un nocciolo di pesca.
Questo signore s’era messo ai fianchi della bionda contessa; era sempre in sua casa, e la accompagnava sovente a teatro e a passeggio per le vie della città. La qual cosa non è a dire come tornasse molesta a Lorenzo Salvani.
Il nostro Lorenzo aveva avuto la poca accortezza di dolersene; di modo che la contessa potè rispondergli di trionfo come a lei fosse impossibile disfarsi del conte Alerami; il mondo aver le sue leggi, le quali nessuno poteva impunemente violare, e una donna assai meno di un uomo; la gelosia essere poi una brutta bestiaccia che bisognava soffocare nel suo covo innanzi che crescesse, tanto da divorarvi; alla perfine doversi aver fede nella donna amata, e va dicendo.
Dopo questi discorsi, Lorenzo non seppe più che cosa rispondere, e passò ancora per un uomo di poca fede, come l’apostolo Pietro sul lago di Nazaret; per un orso, per un nemico giurato delle costumanze civili; per un ribelle alle leggi della convenienza, e peggio. La contessa Matilde, quando scendeva a ragionare, non ci si metteva per poco, e voleva, come suol dirsi, vederne l’acqua chiara.
E fin qui non sarebbe stato gran male, se il cuore della contessa avesse durato nell’antico affetto. Ma il peggio si fu che le gelose smanie del povero Lorenzo non fruttarono altro che qualche sorriso di più al conte palatino.
Costui l’aveva ammaliata col suo sfarzo, co’ suoi diamanti, colle sue nuvole indiane, col suo parlare alla spiccia di tutte le parti del mondo, col suo usar dimesticamente con tutti i gran signori forestieri. Non c’era infatti milordo inglese, o principe russo, o barone tedesco, il quale venisse a Genova e non fosse, un giorno dopo il suo arrivo, il fido Acate del conte Alerami. Tutti parlavano di lui, dei suoi modi eletti, de’ suoi diamanti che venivano direttamente da Golconda, del suo cavallo arabo che era dono del pascià d’Egitto, ed era della razza medesima del cavallo di Maometto. Egli sapeva dir cose gentili alle signore; perdeva allegramente il suo denaro ad una tavola di whist o d’altro giuoco signorile; nessuna meraviglia adunque che fosse lodato e accarezzato da tutti. Che più? Era stato ammesso nelle case più ragguardevoli, dopo che la vecchia marchesa Jolanda Pedralbes, detta più comunemente Violante, la quale nasceva dai Monrion de Saint-Hubert, prima nobiltà francese, e che era schizzinosa anzi che no nel fatto delle sue attinenze, gli era andata a braccetto nella prima festa invernale in casa Torre Vivaldi, e lo accoglieva nella ristretta cerchia de’ suoi visitatori, tutta gente la cui nobiltà scendeva in linea non interrotta dai superstiti del diluvio universale.
Il bel cavaliere che tutti di qua e di là si strappavano, non aveva occhi se non per la contessa Cisneri, e la corteggiava con tutte le formalità prescritte dal codice della galanteria. Ciò solleticava l’amor proprio della signora, ed era per lei una rivincita su tutte le nuove bellezze che erano venute a sopraffarla, inspirandole quel tedio della vita che i nostri lettori hanno veduto a suo luogo, e che ella aveva combattuto coll’amore del giovine Salvani.
Ma il tedio era sparito, dopo le prime visite del conte Alerami. La contessa Cisneri moriva dal desiderio di farsi scorgere in trionfo, bella della sua nuova conquista, e l’unico tedio che ancora sentisse era quello del povero giovine, il quale era innamorato più che mai, nè voleva capire che il suo regno era finito.
Le cose erano dunque a questo segno. L’amante di casa, o per dir meglio il tiranno, era tuttavia Lorenzo Salvani. L’amante di fuori, il cavalier servente, quello per cui si indossava una nuova veste, per cui si meditava una notte sul colore più acconcio di un cappellino, era già il conte Alerami; il conte Alerami che quella sera doveva venirla a cercare, per accompagnarla alla festa da ballo, in casa Torre Vivaldi.
Adesso riuscirà agevole intendere perchè la bionda contessa stesse così a lungo ritta di profilo contro lo specchio a bilico, guardandosi doppiamente riflessa, in quello e nella piccola spera che aveva tra mani.
Era la sua grande serata, la festa trionfale che aveva sospirata così lungamente, e la contessa, bella naturalmente della persona, bella della sua contentezza, voleva essere inappuntabile nella terza bellezza della sua acconciatura. Donde si vede che Matilde si atteneva fedelmente al vecchio dettato: omne trinum est perfectum.
In quella che essa così amorosamente si guardava per tutti i versi, udì suonare il campanello all’uscio di casa. Quella scampanellata la scosse assai più che non paresse dicevole per un suono così naturale, e voltandosi alla cameriera, disse con molta speditezza queste parole:
- Cecchina, andate voi stessa ad aprire. Se è il conte, fatelo entrare nel salotto, e ditegli che mi aspetti. Se è l’altro, ditegli che sto per vestirmi, che debbo andar fuori e che non posso riceverlo. -
L’altro, per chi non l’intendesse, era il nostro amico Lorenzo.
- Vado; - rispose Cecchina, muovendosi verso l’uscio.
- Accomiatatelo, in ogni modo. Ditegli che domani sto in casa, e che lo aspetto; - aggiunse la contessa, con un sospiro che somigliava maledettamente ad uno sbadiglio.
La vispa Cecchina corse, per ubbidir la signora; ma il servitore aveva già aperto l’uscio, ed ella non aveva anche posto il piede fuori del salotto verde, che si trovò dinanzi Lorenzo Salvani.
Il giovine era molto scombuiato nel viso, e gli si leggevano negli occhi tutti i tristi presagi del cuore. Cecchina, che lo aveva nel suo calendario assai più del conte Alerami, quantunque da lunga pezza il giovine non le facesse più sdrucciolare gli scudi nella tasca del grembiale, si sentì stringere il suo cuoricino da cameriera, e rimase turbata innanzi a lui, senza trovare una parola da dirgli.
- È in casa la contessa? - chiese Salvani.
- No.... sì.... cioè.... - rispose impacciata la cameriera. - La signora contessa è nel suo spogliatoio, e si prepara ad uscire.
- E dove va ella?
- Alla festa da ballo in casa Torre Vivaldi; - rispose Cecchina.
Lorenzo stette un tratto sovra pensiero; poi, scuotendo il capo, come se volesse discacciare una immagine molesta, soggiunse:
- Sta bene; l’aspetterò. -
Ciò detto, andò a sedersi sul canapè, pigliando sbadatamente in mano un giornale parigino ch’era posato sulla tavola.
Cecchina, ritta in mezzo al salotto, non sapeva che dire per farlo andare via, e non le dava l’animo di congedarlo con quelle asciutte parole che le aveva detto la signora.
- Signor Salvani! - si provò finalmente a dire la buona ragazza.
- Orbene? - disse egli. - Andate pure dalla vostra signora che avrà bisogno di voi. Io rimango ad aspettarla.
- Oh, l’andrà per le lunghe! - soggiunse la cameriera.
- Non importa; ditele che faccia pure il comodo suo. ho tempo da aspettarla finchè non abbia finito.
- Ma.... - ripigliò Cecchina, che non sapeva più cosa dire. - Ella ha da sapere che la signora, appena vestita, dovrà uscire in compagnia del conte Alerami.
- Ah! il conte Alerami! - esclamò Lorenzo, deponendo giornale e balzando in piedi. - Cecchina, io debbo parlare a Matilde.
- Oh, non vada in collera, signor Salvani! - disse Cecchina, indietreggiando dinanzi al giovine, che le si era avvicinato impetuoso. - La signora non può dispensarsi dall’andare a questa festa, e mi ha raccomandato di avvertirla che domani rimarrà in casa ad aspettarla. Veda che testa! avevo già dimenticato di dirlo. -
Cecchina nel suo turbamento aveva dimenticato le parole della contessa; ma, come i lettori vedono, correggeva la dimenticanza dei primi momenti, ripetendole con quella buona grazia che la contessa non avea posto a proferirle.
- Domani! - esclamò con accento di amarezza Lorenzo. - C’è qualcuno di là. La signora è già vestita per uscire, e il conte Alerami è già venuto. Ecco perchè mi dite di andarmene.
- Oh, signor Salvani! Le giuro che la s’inganna.
- Orbene, andrò io stesso a sincerarmene.
- No, no, si cheti! - si affrettò a dire la cameriera.
- E che cosa, direbbe la signora contessa, se io lasciassi entrar Lei, mentre essa sta per vestirsi?
- Avete ragione, ed io sono un pazzo. Buona Cecchina, andate dalla vostra signora, - ripigliò il giovine con voce più tranquilla, ma con evidente fermezza di propositi, - andate, e ditele che non mi muovo di qui. Se ella non vuole per nessun conto che io la veda, è segno che in quella camera c’è qualcheduno. Andate, aspetto la risposta. -
Non c’era più nulla da opporre a quelle parole; e Cecchina, chinando il capo, rientrò nelle stanze della signora.
Frattanto Lorenzo si pose a passeggiare, poco cortesemente invero, ma molto umanamente, su e giù pel salotto della contessa. In quel momento egli aveva la mente ad altri pensieri che a quello delle buone creanze. Anche la sua sfuriata innanzi alla cameriera troverà scusa, speriamo, presso le signore, se porranno mente che la cameriera sapeva ogni cosa per filo e per segno, e che Lorenzo era fuori di sè.
- Donne! donne! - diceva egli, ripetendo le eterne considerazioni di tutti gli uomini scottati dall’amore. - Ben disse Francesco Primo: Donna non tien mai fede, e matto è chi ci crede. Esse non hanno gradazioni nei loro affetti. Là miti ed austere come la mia buona sorella Maria; qui vanitose e volubili come Matilde. Ed io l’ho amata, costei! E l’amo ancora, questa donna che si getta nelle braccia di quell’avventuriero del conte Alerami, che ama e disama ad un tempo, che ha il cuore.... Dove lo ha, il cuore? Oh, perchè mi sono lasciato prendere il mio da costei? E quell’altro bellimbusto che mi si mette tra’ piedi, e ci ha ancora l’aria di proteggermi!... Già, un omaccione pari suo, che ha girato mezzo mondo, che è stato come pane e cacio coi sovrani, che ha già freddato i suoi quattro uomini coll’aggiustatezza de’ suoi colpi.... Che diamine, aver paura di me? Certo, egli ha da essere molto addentro nelle grazie della signora, per assumere quel piglio da barba Giove! E’ vogliono farmi andare fuori dei gangheri, costoro! Il conte Alerami non accetterà la disfida.... La sua perizia conosciuta.... e da chi? e poi la generosa sollecitudine pel buon nome della contessa.... il timore di farla correre su tutte le bocche, gli daranno ragioni da vendere. E sarò io il tristo, l’ingrato; io il nemico di Matilde; egli il grand’uomo, il suo salvatore. A te Lorenzo! A te, cialtrone! In questo modo tu sarai messo di punto in bianco fuori dell’uscio. -
Il giovine Salvani ragionava dirittamente. Non era quella la prima volta che l’ira, contro il consueto aiutasse a indovinare la verità.
Egli era a quel punto delle sue considerazioni, quando l’uscio per cui era scomparsa Cecchina, si riaperse, e la cameriera si affacciò al salotto, dicendo:
- Entri pure, signor Salvani. La collera di Lorenzo svaporò a quell’invito, o per dir meglio sbollì; e il giovine non si ricordò più di que’ tristi pensieri che essa gli aveva destato nell’animo. Un solo concetto rimase, e fu l’amore; quell’amore che consiglia tante e poi tante corbellerie ai miseri mortali.
Lorenzo si gettò sulle orme della cameriera, ed entrò nelle camere della contessa, fino allo spogliatoio, dove la trovò ancora vestita in quel modo che i lettori sanno, ma seduta dinanzi allo specchio.