I rossi e i neri/Primo volume/XXI
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XXI.
La dimani d’una brutta giornata
Ognuno s’immagina come avesse a stare delle membra e dell’animo il nostro Michele la mattina vegnente.
Soltanto il cane, quando ne ha fatto qualcheduna delle sue e nella sua testolina da bestia più ragionevole di tante altre accorgendosi di aver meritate le busse, mette la coda fra le gambe e non trova un angolo abbastanza buio per nascondersi, soltanto il cane, diciamo, potrebbe darci un’immagine di quello che fu il povero veterano d’America, quando i primi raggi del sole furono venuti a svegliarlo.
Intirizzito dal freddo, indolenzito per tutte le giunture, si alzò sui gomiti e, guardatosi dattorno, si avvide di aver dormito sul pianerottolo di casa. Sulle prime non voleva aggiustar fede a’ suoi occhi; però, credendo di sognare, se li stropicciò più e più volte con le ruvide dita. Ma non c’era verso che lo spettacolo mutasse: egli era proprio sul pianerottolo, e lì presso al suo capo era l’uscio di casa.
- Che diamine!... - esclamò egli allora, cercando di richiamare i suoi pensieri a capitolo, come tanti canonici.
E i pensieri vennero, e il nostro Michele allora si risovvenne di tutto, e perfino della corda del campanello ch’egli aveva inutilmente cercata.
Corda del malanno! Essa era là, pendente dalla girella, con le sue fila di lana intrecciata, colla sua nappa in fondo, grazioso lavoro della signorina Maria, e pareva beffarsi del povero Michele.
Egli la guardò un pezzo, come trasognato, e stropicciandosi gli occhi da capo, disse tra sè, ma a voce alta e con piglio malinconico:
- Dovevo esser proprio ubbriaco fradicio, per non ritrovarla! -
Michele era di buon conto a stomaco digiuno, e chiamava le cose pel loro nome, senza rigiri o dimezzature. La sera innanzi ammetteva di essere un po’ brillo; ma la mattina dopo diceva apertamente: ubbriaco, mettendoci anche di costa l’epiteto.
- E adesso come si fa ad entrare? - seguitò egli a dire.
- Che cosa penseranno de’ fatti miei? -
La vergogna di Michele era grande; e fu più grande ancora, quando gli risovvenne di tutti i discorsi fatti col Bello nell’osteria degli Amici.
Le sue ciarle e le faccende domestiche spiattellate al Garasso, non gli parevano la cosa più bella del mondo. Egli non sapeva perchè, ma in fondo al cuore gli doleva di aver detto tanto, e, come dicono a Genova, gli prudeva la coscienza.
- Alle strette, - disse egli, dopo aver meditato un pezzo, - ho parlato a fin di bene. Il Bello è dei nostri, sta come pane e cacio con tutti gli amici, e pel signor Lorenzo si butterebbe nel fuoco. Che male c’è a dirgli come stanno le cose? Oggi intanto avrò i denari della pigione. To’, se non avessi cantato, i fringuelli non sarebbero calati. -
I fringuelli di Michele erano quelle dugento lire che aspettava dal Bello. Questo pensiero gli rimesse il sangue nelle vene; ond’egli si fece animo a tirare, sebbene dolcemente, la corda del campanello.
Poco stante un leggiero mutar di passi e il fruscìo di una gonna lo avvisarono dell’avvicinarsi della signorina Maria. La chiave girò adagino, adagino nella toppa e, apertosi l’uscio, comparve la giovinetta che teneva un dito sulle labbra, per fargli cenno che non parlasse troppo forte.
- Siete voi, Michele? - bisbigliò la fanciulla.
- Oh, signorina! - rispose egli, arrossendo.
- Zitto, zitto, per carità, che Lorenzo non v’abbia a sentire! -
Così dicendo. Maria fece entrare il servitore e richiuse l’uscio con le stesse precauzioni: poi precedette Michele, camminando sulla punta dei piedi, fino all’andito della cucina.
- Orbene, Michele, - disse ella, come furono giunti, - dove siete andato stanotte?
- Oh, signorina! - rispose tutto turbato il nostro Michele. - La mi perdoni.... Anzi no, la mi bastoni, che lo merito. Un amico....
- Vi ha fatto passar la notte fuori, - soggiunse la fanciulla, per compire la frase.
- Oh no, la notte fuori. Ho dormito sul pianerottolo.
- Bravo! E perchè non avete suonato?
- Non ho ardito.... anzi, a dirla schietta, non ho potuto. Ho cercato un pezzo la corda del campanello, e non ne sono venuto a capo. Ero un po’.... mi capisce?
- Sì, vi capisco. Andatevene a letto, povero Michele. Lorenzo non si è avveduto di nulla.
- Andate a letto? No, certo, padroncina. Ho da andare per la spesa.
- Che! avete tempo più tardi, e busserò io all’uscio per risvegliarvi tra un paio d’ore. Andate, Michele, da bravo! Avete gli occhi così gonfi! -
Michele, tra spinte e sponte, se ne andò su per la scaletta fino al soppalco del tetto, dov’era la sua cameruccia, e si pose a letto. Ma non gli venne fatto di prender sonno. Il rammarico di avere alzato un po’ troppo il gomito, il rimorso di aver chiacchierato e l’ansietà di andare al convegno del Bello per le dugento lire, non gli lasciarono chiuder occhio.
Però egli udì Lorenzo alzarsi dal letto, e più tardi uscire di casa. Suonavano appunto le dieci all’orologio delle Vigne. Allora egli, che, se non aveva dormito, s’era almeno levato il freddo dalle ossa, balzò dal letto a sua volta, e volle uscire per la spesa consueta.
La padroncina era più contenta quando egli discese, e si fece anzi a dargli cortesemente la baia per la sua scappatella notturna; la qual cosa gli parve di buon augurio e gli fece andar fuori del capo tutta la malinconia.
- Rida, rida, la mia buona padroncina! - diceva egli in cuor suo. - Ella sarà due volte più allegra quando tornerò a casa coi denari della pigione, e li snocciolerò sulla tavola. Ma che dico sulla tavola? O non sarebbe meglio portarli a dirittura giù a quel brutto muso del padrone di casa? Gli ha già sentito il peso delle mie dieci dita, e non sarà forse male che io gli metta fuori un marenghino per dito, a mo’ di consolazione. Sì, certo, farò così; se non gli garba, mi rincari il fitto, che intanto non s’ha voglia di rimanerci molto, nella sua casa! -
Questi pensieri lo tennero in aria fino alle due dopo il mezzodì. Era quella, se i lettori rammentano, l’ora del ritrovo col Bello; e il nostro Michele, per non far aspettare l’amico, s’era andato ad appostare mezz’ora prima sotto i portici del teatro Carlo Felice.
Ma aspetta, aspetta, il Bello non veniva. Michele ad ogni tratto si affacciava alla invetriata della bottega da caffè del Teatro per misurare sull’orologio, che era presso il banco della padrona, il cammino del vecchio alato che ha la falce e la clessidra in mano. Il tempo passava; erano già le due e un quarto, e l’amico non si vedeva spuntare da nessun lato.
Aspettare e non venire è una cosa da morire; così dice il proverbio. Ora, se Michele non moriva, certo era in agonia, e se non mandava pel prete, si votava per contro a tutti i diavoli dell’inferno. Vennero le due e mezzo, ed egli era ancora a recitare sotto i portici il paternostro della bertuccia. Ma allora andò fuori dei gangheri, e dopo aver dubitato dell’amicizia in genere e perfino di quella esemplarissima di Oreste e.... e aiutatelo a dire, si mosse per tornarsene a casa. Se egli avesse saputo dove stava di casa il Bello, sarebbe andato a cercarlo; ma non sapendone nulla, pensava di ricattarsi la sera in qualche sala da biliardo, o in qualche osteria, dove bazzicava l’amico.
Il nostro Michele non si sarebbe doluto tanto di non vedere il Bello, se avesse saputo perchè la sua padroncina era contenta, quando egli s’era alzato da letto.
Abbiamo narrato nel capitolo precedente che Lorenzo Salvani, uscendo di casa, era andato a’ Banchi per salutare l’Assereto. Quello non era un amico dei soliti, un amico del buon tempo, e Lorenzo poteva dire di lui come Beatrice di Dante: «l’amico mio e non della ventura». L’Assereto aveva notata la tristezza di Lorenzo, e lo aveva tanto incalzato di affettuose domande, che questi gliene aveva detta finalmente la cagione.
L’amico non era ricco; ci correva anzi di molto! Sudava le intiere giornate per tirarla innanzi onestamente, e non aveva i gruzzoli di monete, da far comodo altrui. Ma egli era, come i lettori sanno, un ottimo giovanotto ed aveva molti e schietti amici, in quella classe dove abbondano gli onest’uomini, i cuori larghi tanto, sebbene il nome di mercatanti, di gente da traffichi, sia quasi tolto in mala parte dagli ignari delle costumanze del mondo.
Ad uno di questi amici pensò l’Assereto di chiedere a prestanza il denaro che poteva occorrere a Lorenzo, e frattanto lo confortò a star di buon animo, che la mattina vegnente egli avrebbe accomodato ogni cosa.
E tenne la promessa. Aveva avute nella sera trecento lire, e quando Lorenzo tornò a’ Banchi nella mattina, il buon Assereto si procacciò la consolazione di far da banchiere all’amico.
Le cose narrate spiegano il perchè Maria apparisse tanto gaia a Michele, quando egli scese dalla sua cameretta. Lorenzo, prima di uscire di casa per andare a prendere il danaro, aveva narrato alla sorella del cortese aiuto proffertogli dall’Assereto; e la buona Maria s’era dimenticata di tutti i suoi dolori, per partecipare alla contentezza del giovine. Essa non gli aveva detto nulla dell’insolenza del Ceretti e de’ suoi ardimenti ingiuriosi. Però il Salvani, appena fu tornato dalla piazza de’ Banchi, salì tranquillamente al primo piano, in casa Ceretti.
Il biondo Arturo era seduto alla sua scrivania, in mezzo a fasci di carte bollate e non bollate, scritte di locazione, atti di citazione, conti di capomastri e va dicendo. Impallidì, come vide Lorenzo entrar nella camera, e pensò che fosse venuto a chiedergli ragione della scena del giorno innanzi; laonde stette con l’animo sospeso, aspettando che parlasse.
- Signor Ceretti, - disse Lorenzo, - vengo a pagarle la pigione. Ella vorrà tenermi per iscusato, se l’ho fatto aspettare. -
Il biondo Arturo rispose con un cenno del capo che pareva significasse una cortese condiscendenza, e non era altro che effetto del suo turbamento.
- Che egli non sappia nulla? - chiese tra sè, cominciando a ricogliere il fiato.
- Ecco dunque le dugento lire; che a tanto ascende il mio debito, se non m’inganno.
- Sta bene! - rispose il Ceretti, e si fece a contare il denaro, che Lorenzo gli aveva posto dinanzi.
Ma lo contava con le dita, e la sua mente non vigilava il conto. Egli infatti temeva che, saldato il debito, Lorenzo Salvani uscisse fuori con qualche sfuriata, e a questo pensiero i polsi gli davano le battute doppie.
La commozione non gli impedì tuttavia di notare che Lorenzo Salvani, quello spiantato, com’egli lo chiamava, ci aveva le sue brave monete d’oro (usavano ancora, a que’ tempi!) e dopo aver date a lui le dieci che entravano nel conto della pigione, gliene rimanevano ancora parecchie nel cavo della mano. Ora notar questa cosa e sapergli male fu tutt’uno.
Ma gliene sapesse male, o no, il denaro della pigione era lì sulla scrivania, e il biondo Arturo non potea farci un bel nulla, salvo la ricevuta, che infatti egli scrisse e diede a Lorenzo senza aggiunger parola.
Egli s’aspettava sempre che dopo il pagamento venisse la sfuriata. Ma Lorenzo, messa in tasca la ricevuta, si congedò dal Ceretti, dopo avergli stesa la mano, che questi si affrettò a stringere, più turbato che mai.
- Non ne sa nulla! - disse il Don Giovanni tra sè, appena Lorenzo fu uscito. - Tanto meglio. È stato un brutto quarto d’ora. Per buona sorte l’innocentina non ha parlato. Ma, tant’è, mi debbo vendicare di costoro. -
Vendicarsi! Era presto detto; ma in che modo? Qui stava il busilli. Così pensando, Arturo s’era alzato dal banco e passeggiava per la camera, con le mani raccolte dietro le spalle e contando con gli occhi i quadrelli del pavimento. Ma i quadrelli non gli insegnavano nulla. Lo spediente di mettere quello spiantato fuori di casa gli era parso il più acconcio; ma era anche l’unico al quale egli avesse potuto appigliarsi. Intanto quello spiantato era venuto fuori col denaro; la pigione era pagata fino all’ultimo giorno di giugno, e non c’era neanche da fare assegnamento sulla disdetta, perchè il contratto di locazione andava fino all’ultimo di settembre.
Mentre egli stava, o, per dir meglio, andava ruminando a quel modo, senza poter cavare un costrutto da’ suoi proponimenti feroci, udì un timido picchiar di nocche nella invetriata che gli teneva luogo d’uscio nelle ore di giorno.
- Avanti! - diss’egli, non senza un po’ di dispetto per quella improvvisa seccatura.
L’invetriata si aperse, e gli si parò davanti un giovinotto biondo, che i lettori conoscono.
- È qui il signor Ceretti? - chiese costui.
- Per l’appunto. Ceretti padre e figlio. Chi cerca dei due?
- Il figlio. E sarà Vossignoria....
- Sì, sono io. In che cosa posso servirvi?
- Ho da dirle due parole a quattr’occhi. Posso parlarle?
- Parli pure; qui non c’è altri. Ma chi è Lei?
- Oh! - rispose il nuovo venuto; - il mio nome importa poco. Vengo da parte del signor Bonaventura Gallegos.
- Io non conosco questo signore! - soggiunse il Ceretti.
- Lo so, - si affrettò a dire quell’altro, - e appunto per ciò il signor Bonaventura mi ha incaricato di dirle queste due paroline all’orecchio. -
E si accostò al biondo Arturo, il quale, incerto com’era, lo lasciò fare. Ma appena quelle paroline gli furono bisbigliate, il Ceretti rizzò il capo, e arrossendo esclamò:
- Ma chi è questo signore? Come sa egli?...
- È un signore che sa molte cose, - rispose l’altro, - e che può aiutarla ne’ suoi disegni. Egli dimora in via Nuova, palazzo Torre Vivaldi, ultimo piano, e l’aspetta in casa fino alle otto.
- Sta bene, ci andrò. -
Ciò detto, Arturo si diede da capo a passeggiare. L’altro se ne andò via, dopo avergli fatto un inchino.
- Che cosa vorrà da me questo signore? Il nome mi sa di forestiero. Sarà forse qualche usuraio, il quale avrà delle cambiali del Salvani, e penserà di appiopparmele! Ma in che modo ha egli da sapere i fatti miei? Vendicarvi del Salvani! Sono parole magiche, e cascano proprio in taglio. Andiamo dunque, e vedremo di che si tratta. -
Intanto che il biondo Arturo si disponeva ad andare in casa del padre Bonaventura, il messaggero scendeva le scale sollecito. Pareva non vedesse l’ora di esserne fuori.
Ma eccoti, in quella che era per mettere il piede dalla soglia sulla strada, s’imbattè nel nostro Michele, che aveva già alzato il suo dalla strada alla soglia.
- Michele! - esclamò il primo, con aria d’ingrata meraviglia.
- Garasso! - esclamò l’altro. - Ed io che vi ho aspettato finora sotto i portici del Teatro! -
Per andare dal Ceretti a far l’ambasciata del padre Bonaventura, il Bello aveva scelto appunto quell’ora ch’egli aveva stabilita pel suo ritrovo con Michele, sotto i portici del Teatro. Egli era sicuro per tal modo che Michele non lo avrebbe incontrato.
Infatti Michele, che stava ad aspettarlo, non lo aveva veduto entrare: e il Bello era per farla netta, quando nell’uscire dal portone di casa, s’imbattè nell’unico uomo che avrebbe voluto non trovarsi tra’ piedi.
Se Michele odorava la trappola, il Bello potea dire per fermo d’aver rotte l’ova in sull’uscio. Ma Michele non poteva aver sospetto di nulla, e l’amico non era uomo da affogare in un bicchier d’acqua.
Egli però, correggendo il suo primo atto d’uomo colto sul fatto, si fece ad esclamare:
- To’! cercavo appunto di voi.
- O come? - rispose Michele, fresco ancora della sua aspettazione e de’ suoi paternostri.
- Sì; che volete? - soggiunse il Bello. - Ero un po’ in cimberli, iersera, e questa mane non son venuto a capo di ricordarmi dove diamine vi avessi dato appuntamento.
- Anche voi? - disse Michele. - Dovevate esser proprio più fradicio di me, poichè io non ho dimenticato nè le due dopo il mezzodì, nè il primo pilastro dei portici del Teatro.
- Ah, per Diana! L’avrei giurato io, che s’aveva a vederci sotto i portici; ma quel maledetto Monferrato m’aveva messo il cervello a soqquadro.
- Ed ora, - ripigliò Michele, - venivate a cercarmi?
- Sì, ma giunto all’ultimo piano, e mentre stavo lì per dare una strappata al campanello, ho pensato che non era prudente farmi scorgere dai vostri padroni. Il signor Lorenzo poteva vedermi, e voler forse sapere che negozi io ci abbia con voi.
- E non avete suonato?
- No. Garasso, dissi tra me, non facciamo sciocchezze! Scendiamo in istrada, ed aspettiamo Michele. È un uomo casalingo; se è fuori per cercare di noi, non istarà molto a ritornare. -
Michele non poteva trovar nulla a ridire nel discorso del suo Oreste. Egli trovava il Bello nella sua scala, e questo era segno che l’amico non lo aveva punto dimenticato. Il vino gli aveva fatto uscir di mente il luogo del ritrovo: ma che perciò? Quel liquido malaugurato aveva pure impedito a lui di trovare la corda del campanello!
- Avete ragione; - diss’egli adunque. - Ritorno infatti dal luogo che mi diceste ier sera. Perdonatemi ora, se ho pensato un po’ male di voi.
- Oh, Michele! - esclamò l’altro, con aria dolente. - potevate voi credere che dimenticassi l’amico?
- L’ho creduto, ho fatto male, e vi prego di perdonarmi. Ma veniamo al buono; i cum quibus?...
- Ho fatto l’impossibile per averli e portarveli; ma la m’è andata male. Giornata infame, caro Michele, giornata maledetta! Già, dicano pure che è una superstizione; ma in martedì non s’avrebbe mai da far nulla, perchè tutto va alla peggio.
- Ahi! ahi! - disse Michele, facendo il muso più lungo della quaresima. - Siamo fritti, dunque?
- No, no; quello che non s’è fatto oggi può farsi domani. C’è un tale a cui ho fatto capo, il quale mi ha detto che tornassi domani, e m’avrebbe dato la risposta. In quanto all’altro, sul quale facevo assegnamento, m’ha girato nel manico. Oh, Michele! che mondo! Come son fatti gli uomini! Tutti per sè, tutti fradici d’egoismo.
- Piove sul bagnato! - rispose Michele, il quale era filosofo in certi casi. - Sono storie che io so a menadito. Ma se domani gira nel manico anche l’altro?...
- Oh, non voglio crederlo! E poi, c’industrieremo tanto, che troveremo quel che vi occorre. La vedremo, perdio! Vedremo se due galantuomini come voi ed io, hanno a limosinare dugento lire e non trovarle da nessuna banda. Io (vedete, Michele?) fo già conto di averle in saccoccia.
- Amen! - conchiuse Michele. - A domani, dunque. E dove ci vedremo?
- Nello stesso luogo. Oggi son sano, e non lo dimenticherò certamente. Ma, a proposito, non andiamo a bere un bicchierino?
- Acquavite? No! - rispose Michele, aggrottando le ciglia. - Nè acquavite, nè altro. Ho deliberato di non ber più altro che acqua di pozzo, fino a tanto non sia condotto a fine questo negozio.
- Michele, badate! L’acqua rovina i ponti. Per buona sorte il vostro voto non ha da durare se non ventiquattr’ore.
- Diceste il vero! Ed io vi prometto per domani di far con voi a chi beve di più.
- E birba chi manca! - rispose il Bello, stringendogli la mano. -
Poco dopo questo dialogo di Michele col Garasso, Arturo Ceretti andava dal padre Bonaventura.
Costoro s’intesero per bene, quantunque il primo non sapesse le ragioni del secondo. Il padre Bonaventura non era uomo da lasciarsi leggere nell’animo; e il Collini medesimo, tanto più addentro di ogni altro nelle segrete cose, era a mala pena al frontispizio.
Arturo, del resto, non cercava d’indovinar nulla. Aveva capito che c’era uno, il quale voleva male al Salvani, e non gli premeva punto di sapere il perchè, sebbene quest’uno sapesse il suo. Di questo modo si accordarono presto.
Il padre Bonaventura, messo al chiaro di ogni cosa dai racconti solleciti del Bello, aveva veduto d’un subito il gran profitto che si poteva cavare da un Don Giovanni scornato e picchiato, desideroso di vendetta e corto d’ingegno per giunta. Poi che lo ebbe giudicato di veduta, si raffermò nel proposito, e in quella che l’altro si lasciava andare a lui come la biscia all’incanto, nacque in mente al padre Bonaventura quel disegno infernale che vedremo uscir fuori tra breve.
In quanto ai denari che Michele chiedeva a prestanza dal Bello, questi avrebbe pure voluto darglieli subito. Ma il padre Bonaventura, anco ammettendo, giusta il parere del Bello, che quell’imprestito gli avrebbe reso Michele più maneggevole, aveva saviamente notato che i denari potevano migliorare lo stato di casa Salvani, e che anzitutto occorreva abboccarsi col Ceretti. Aspettasse dunque, e facesse aver pazienza a Michele.
Ma dopo aver parlato col biondo Arturo, entrava anche meno nei disegni del gesuita di metter fuori le dugento lire. La pigione era stata pagata; nè Arturo, ne il padre Bonaventura, per quanto si stillassero il cervello, potevano indovinare donde fosse caduta a Lorenzo Salvani quella pioggia di Danae.