I rossi e i neri/Primo volume/XXIII

XXIII

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XXIII.

Nel quale si racconta come una gentildonna congedasse un innamorato che l’aveva seccata

Appena Lorenzo fu entrato, Cecchina si allontanò. La contessa avrebbe potuto tenerla presso di sè, col pretesto assai naturale della sua acconciatura, e cansare in tal modo il pericolo di una spiegazione a quattr’occhi. Ma, a quanto sembra, ella voleva finirla, e indovinando col suo accorgimento donnesco che quello sarebbe stato un dialogo critico, dal quale ella avrebbe potuto cavar profitto, aveva accennato ella stessa a Cecchina che uscisse.

Rimasero soli; ma per un tratto fu scena muta. Lorenzo era come inchiodato presso l’uscio, e sopraffatto da una commozione fortissima. Allora la contessa si volse, ed accennandogli con la mano un piccolo sofà che era daccanto a lei, incominciò ella stessa il discorso.

- Orbene?... Non debbono esser di molto rilievo le cose che avete a dirmi, se, giunto qui, non mi dite una parola.

- Matilde! - ruppe finalmente a dire Lorenzo, con accento di rimprovero. - Perchè mi parlate voi così? Sapete pure che ho da parlarvi, e se ho resistito al vostro desiderio [p. 196 modifica]di non essere disturbata nella vostra acconciatura è segno che ho da ragionare di cose gravissime.

- Gravissime? Udiamo dunque; ma, ve ne prego, spicciatevi, - disse la bionda contessa, levandosi dallo specchio, e andando a sedersi su d’una poltrona dirimpetto a Lorenzo, - poichè non ho tempo, stasera. -

Salvani aveva il cuore gonfio di amarezza. Non erano poche, nè lievi, le accuse che gli facevano tumulto nell’animo; e tuttavia stette dubbioso, pensando al modo più acconcio di cominciare. Sentiva dentro di sè tutte le furie d’Averno, come dicono i classici; ma quella donna era così bella, ed egli l’amava tanto, ch’egli non ardiva prorompere, e tremava come un colpevole, egli, l’accusatore!

- Avete tanta fretta? - disse egli, col medesimo accento malinconico.

- Sì, - rispose la contessa, facendosi deliberatamente incontro al pericoloso argomento di quella conversazione. - A momenti sarà qui il conte Alerami, e non sono anche vestita. -

Lorenzo si pose una mano sotto la giubba, quasi volesse andare a cercare il cuore e soffocarlo nella stretta. Poi, mettendo ogni sua possa a frenarsi, guardò pietosamente la contessa e temprò la voce più dolcemente che gli venisse fatto, per dirle:

- Matilde, mi amate voi sempre?

- Stiamo a vedere che gli è tutto qui quello che avete a dirmi di grave. Perchè questa domanda, di grazia? -

E così dicendo, la contessa, con un moto grazioso delle membra si strinse nel suo accappatoio e si rannicchiò nella poltrona, sorridendo a Lorenzo. Nel cuore, tuttavia, si struggeva dal dispetto.

Lorenzo non vedeva, non indovinava nulla.

- Mi amate voi sempre, Matilde? - ripetè egli incalzando con aria supplichevole.

- Ma sì; lo sapete pure! - rispose la contessa. - Ma perchè, vi ripeto, perchè questa domanda?

- Per avere il diritto.... - soggiunse esitando il Salvani, - per avere il diritto....

- Di che cosa!

- Di volgervi una preghiera.

- Udiamola, questa preghiera.

- Matilde! per l’amor di mio, per l’amor vostro, che non avete rinnegato, non è egli vero?... non andate a quella festa! [p. 197 modifica]

La contessa finse di cader dalle nuvole a quella conclusione di Lorenzo, che ella pur si aspettava. Giunse le palme in atto di maraviglia, e dopo avere alzato gli occhi al soffitto, esclamò:

- Ma davvero siete un fanciullo! E perchè?

- Perchè.... Ve ne prego, ve ne supplico, non andate!

- Ma, di grazia, - ripetè spazientita la contessa, - sappiamone prima la ragione. Non è mica una cosa da nulla usare una siffatta scortesia ai Torre Vivaldi; e perchè io mi disponessi ad usarla, bisognerebbe pure ci avessi una ragione.... e che ragione! -

Lorenzo Salvani stava per essere sconfitto dalla logica della contessa. Se la ragione suprema dell’amore non bastava più a persuadere Matilde, tutte le altre erano contro di lui, ed egli non poteva distruggerle.

Però non rispose all’argomentazione della contessa, e con accento di profonda malinconia, si fece a dirle:

- Matilde! Come siete bella, stasera!

- Davvero? - rispose la contessa, guardandosi le dita che scherzavano coi nastri del suo accappatoio.

- Oh sì! Siete troppo bella!

- Stiamo a vedere che vi dispiace anche questo! - proseguì ella, con la stessa aria sbadata.

- No, - rispose Lorenzo, riscaldandosi; - ma voi sarete tale per molti. Molti vi ammireranno, colà dove andate. Sapete pure Matilde; una donna che ama, non deve parer bella a tanti. I desiderii del volgo sono come una profanazione della sua bellezza e dell’amor suo.

- Ah, ah! - esclamò la contessa, dopo una brevissima sosta - siamo nella metafisica, a quel che sembra. Ma anco a voler stare sulle nuvole con voi, signor poeta, io penso che vi si possa rispondere di trionfo. -

Lorenzo fece un cenno del capo che voleva dirle: non credo.

- Sì certo! Quanto più io potessi parer bella a molti, il che non è punto vero, - soggiunse ella con quell’accento d’ipocrisia che sanno metter fuori le donne quando abbiano a parlare della loro bellezza, - tanto maggiore dovrebbe essere l’orgoglio di chi mi ama.

- Oh, lasciate queste gioie meschine al conte Alerami, che per lui saranno forse il colmo della felicità! - interruppe Lorenzo. - Io v’amo ben diversamente, v’amo assai più, o Matilde! -

La bomba era caduta, la gran parola di quel dialogo era detta: e la contessa, punto turbata, si fece arditamente ad affrontare il pericolo. [p. 198 modifica]

- Ma se lo dicevo io, che siete un fanciullo! Adesso salta in ballo il conte Alerami.

- Egli vi ama! - proruppe Lorenzo.

- E questo vi spiace? Vi piacerebbe forse di più che egli mi odiasse?

- Forse. Ma perchè stiamo noi qui a schermir le parole? - disse Lorenzo, armandosi di coraggio. - Appunto del conte Alerami io volevo parlarvi.... e chiedervi un sacrifizio1.... -

La contessa rizzò il capo, e guardandolo con un piglio, in cui non si sarebbe potuto dire se fosse maggiore il disdegno o la compassione, lo fulminò con queste parole:

- Signor Lorenzo! siete voi così dappoco?

- Perdonatemi, Matilde, - gridò egli allora, gettandosi ai piedi della contessa ed afferrando la sua mano che non istette molto a bagnare di lagrime; - ma io soffro, vedete?... Io penso che questa sera andrete a quella festa appoggiata al braccio del conte Alerami, che egli vi farà ridere con le sue arguzie, che il vostro petto palpiterà sopra il suo, nell’ardore della danza. Non vedete voi queste lagrime, Matilde? Il mio cuore si strugge, a questo pensiero maledetto!...

- Perchè pensare a queste fanciullaggini? - chiese la contessa, guardando in aria.

- Perchè sono geloso, Matilde, geloso di chiunque vi parla, geloso perfino della vostra ombra. Non ve ne siete anche avveduta?

- Rifaremo dunque la vecchia storia di Otello? - ripigliò la contessa, cercando di sciogliere la mano dalle strette di Lorenzo.

- Oh Matilde! Voi non volete capirmi! - esclamò il povero innamorato. - Quando vi vedo, quando sono daccanto a voi che mi sorridete, poco m’importa di tutte quelle farfalle che vi aleggiano dintorno. Ma, lontano da voi, penso che esse ebbero la virtù di abbagliare i vostri occhi, e che il povero Lorenzo è dimenticato da voi. Sono geloso, Matilde, sono geloso, perchè sento che voi mi sfuggite di mano, che ogni giorno che scorre, mi allontana dal vostro cuore. -

Un affetto vero e profondo ha questo di efficace, che commove, poniamo pure per un momento, il cuore della donna più fredda. Non è egli vero, o lettrici? In mezzo alla noia che v’inspira l’assidua presenza e il piangere di un uomo che non amate e il pensiero di un altro che vi soggioga, s’infiltra pur sempre uno zinzino di compassione per lo sventurato [p. 199 modifica]che è a’ vostri piedi e vi esprime con tanto ardore di parole la grandezza de’ suoi patimenti.

La contessa non seppe resistere a quell’onda di passione disperata; epperò rispose a Lorenzo:

- E chi vi dice che io non v’ami più?

- Oh grazie! - esclamò il giovine, a cui balenò negli occhi il primo lampo di gioia; - grazie di questa cortese parola che vi è piaciuto lasciarvi sfuggirei Ma compite la vostra bell’opera; non andate a quella festa; rimanete in casa, stasera. Fate questo grande sacrifizio al povero Lorenzo, che vi ama come un dissennato. Vedete? Noi rimarremo qui seduti, a parlare del nostro amore, de’ miei disegni pel futuro. Faremo un bel castello in aria, di quei tali che vi piacevano tanto, e che ci facevano star le ore intiere dimentichi del mondo, inebbriati di amore. Vi ricordate, bionda Matilde? Non c’era cosa bella nel creato, che le anime nostre non si facessero sollecite a spiccare dal suo luogo, per abbellirne il nostro sogno, e le più graziose pensate non erano certamente le mie....

- Sì, Lorenzo, ma è impossibile adesso che io vi contenti. Che volete? Sono pure disgraziata! Ho promesso al conte Alerami.... ho accettato ch’egli venisse ad accompagnarmi dai Torre Vivaldi; e senza mettere in conto che io fallirei alle buone creanze verso la Ginevra, il rimanere a casa sarebbe una vera scortesia, usata, senza una ragione al mondo, a quel povero conte.

- Quel povero conte! E perchè non dite invece questo povero Lorenzo che soffre? Oh, maledetto quest’uomo che si pone tra me e la mia felicità!... -

Matilde, giunta a quel segno, doveva farla finita. Ella s’era alzata un tratto, per virtù della rimembranza, sulle ali di Lorenzo; ma l’altezza sterminata del volo la spaventava. Vide da lungi sulla terra il conte Alerami, bello, guardato e vagheggiato da tutte le donne, sfolgoreggiante di diamanti, caracollare superbamente sul suo cavallo arabo, e non seppe tenersi dal sospirare. Si guardò dattorno, e non vide altro che lo spazio muto e freddo; nè valeva a custodirla Lorenzo, che la teneva fra le braccia, Lorenzo, il povero giovine senza speranze, brutto della sua gelosia, e male in arnese per giunta. Sì, fu questo il pensiero che venne in mente alla bionda contessa: male in arnese! Matilde ebbe paura di trovarsi lassù, e fece come una delicata signora che salita in barca rabbrividisce al primo ondeggiare del legno e grida di voler scendere a terra. [p. 200 modifica]

- Ed eccovi da capo con le frasi sonanti! - rispose ella, cogliendo la palla al balzo. - Il conte Alerami è un cavaliere garbato, e voi avreste il torto a credere che io....

- Voi lo difendete! - interruppe Lorenzo. - Ma lo costringerò ben io a cedermi il passo, e se egli si ostinerà ai vostri fianchi, tanto peggio per lui; lo ucciderò.

- Signor Lorenzo, finiamola! Voi non sapete quello che vi diciate, ora. Perchè dovrei io chiudergli l’uscio di casa mia? Per fargli capire ch’egli è un uomo pericoloso, e che voi lo temete? In quanto ad ucciderlo, sarà un’altra faccenda non troppo facile. Voi siete animoso; ed egli non meno. È schermidore valente, e tutti vi diranno che con un colpo di pistola coglierebbe in aria una moneta.

- E qualcheduno potrà aggiungere, - rispose Lorenzo rattenendosi a stento, - che egli si schermisce anche meglio dal pericolo di un duello....

- Oh, questo, poi!

- Oh, questo, poi, lo so di buon luogo. Egli è vile quanto spavaldo. Ma a me non fanno senso quei suoi modi da gradasso, e la mano son certo gli tremerà quando abbia a scendere sul terreno.

- Ma non avete voi detto dianzi, - interruppe la contessa sorridendo ironicamente, - che egli si schermisce da cosiffatti pericoli?

- Sì, - rispose Lorenzo, senza badare al piglio sarcastico della contessa, - quando abbia da fare co’ dolci di sale, e possa dar loro a credere ch’egli è un uomo generoso; ma io lo trascinerò pe’ capegli, il conte Alerami, e gli dirò la gran parola che lo metta a segno per sempre.... Avventuriere! -

La contessa Cisneri si alzò dalla poltrona, e guardando Lorenzo dal capo alle piante, gli disse con voce sottile ma ferma:

- Voi insultate un uomo che io accolgo in casa mia! - Se la nostra lingua italiana consentisse l’uso di certe metafore, diremmo che quella voce sottile ma ferma della contessa Cisneri poteva rassomigliarsi ad una lama di pugnale, che appare così fine, e va diritta nelle carni; che fa un buco da nulla, e tuttavia vi s’immerge nel cuore.

Intanto per Lorenzo Salvani le parole di Matilde furono come una trafittura, e il primo atto del giovine fu quello di recarsi una mano sul cuore, come se appunto colà fosse andato a ferire il dispregio della bionda signora, che stava ritta in piedi dinanzi a lui, guardandolo con piglio sdegnoso. [p. 201 modifica]

Egli tuttavia non disse parola. L’assalto era stato così repentino e violento, che egli non seppe che cosa rispondere. A volte anco il silenzio è sublime, e Lorenzo fu sublime tacendo, in quella che guardava la contessa con aria di doloroso stupore.

- Signor Salvani, - proseguì la contessa, - siete voi dunque disceso così in basso, da calunniare i gentiluomini che vi danno molestia? -

Lorenzo impallidì a quella seconda percossa; quindi per naturale contrasto, gli divampò il volto, all’improvviso rifluire del sangue alle tempia. Si cacciò una mano ne’ capelli, e strinse così forte, come se volesse strapparseli.

- Calunniare! calunniare! - ripetè egli con una terribile progressione di accento. - Oh, voi lo amate, signora.... Voi lo amate! Adesso vi porreste invano a negarlo. -

Matilde rispose crollando le spalle, e stringendo le labbra; quindi si mosse per andare allo specchio.

Era quello uno stato di cose difficilissimo per ambedue. Lorenzo aveva già posto mano al cappello per andarsene, quando si udì il fruscio d’una veste, e subito dopo un batter di nocche sull’uscio.

- Avanti! - disse la contessa, rivolgendosi da quel lato. L’uscio si aperse, ed entrò la cameriera ad annunziare l’arrivo del conte Alerami col marchese De’ Carli.

- Ah! lo sapeva che non sarebbero stati molto a giungere! - esclamò la contessa. - Signore, eccovi dunque contento! Il marchese De’ Carli è la lingua più lunga di tutta Genova, e si piglierà certamente una satolla de’ fatti miei.

- Signora, - rispose Lorenzo, facendo ogni sua possa per rattenersi, - perdonatemi! Me ne andrò.

- Sì, ve ne andrete adesso, perchè vi vedano uscire, e tutti abbiano a risapere che eravate qui solo nel mio spogliatoio. -

Il giovine Salvani chinò gli occhi, e si morse le labbra, per non rispondere altro.

- Che cosa avete detto a que’ signori? - chiese la contessa a Cecchina.

- Ho detto che la contessa non aveva anche potuto por mano a vestirsi.

- Sta bene. Andate, e fateli entrar qui. E voi intanto, signore, sedetevi e ricomponetevi.

- Non temete, signora! - rispose Lorenzo con piglio modestamente contegnoso; - i miei occhi si sono rasciugati, e spero non avrete ad arrossire più oltre per cagion mia. [p. 202 modifica]

- Tanto meglio! - soggiunse la contessa, e andò per sedersi allo specchio; ma poi, pensando che quella positura avrebbe potuto parere studiata, corse al sofà dov’era già seduto Lorenzo, col suo cappello in mano, e gli si pose daccanto, in atto di chi prosegue un discorso.

In quel punto entrarono i due signori annunziati da Cecchina, l’uno il conte Alerami, che i lettori conoscono per quel tanto che ne abbiamo già detto, l’altro il marchese De’ Carli, un vecchio sui sessanta, o in quel torno, tutt’e due in falda e coi guanti paglierini.

- Ah! ah! - esclamò il marchese, che rideva sgangheratamente ad ogni tratto, e tartagliava per giunta; - entriamo dunque nel santuario?

- Sì, per l’appunto; entrate, Onofrio, - gridò allegramente la contessa, - e non vi spaventate, per carità, se troverete la dea vestita ancora da casa. Stavo qui domandando il parere del signor Salvani sull’abbigliatura che debbo indossare; ma egli non ha voluto dirmi nulla; di guisa che pregavo il cielo che mi mandasse qualche buon consigliere. Ed ecco, capitate voi, che siete il buon gusto incarnato. -

La scaltrita contessa voleva con tutti que’ vezzi accattarsi la benevolenza del vecchio marchese, e la sua perorazione era tale da farlo andare in brodo di succiole.

Era un ridevole personaggio, quel marchese Onofrio De’ Carli, o marchese Tartaglia, come gli si diceva alle spalle da certi burloni. Da giovine aveva fatto il vagheggino, e perseverava ancora, come se gli anni non fossero venuti. Si tingeva baffi e capegli, avendone l’aria di un vecchio Cupido rimpennato e ritinto. Quando parlava, era necessario tenersi alla larga; se no, con la sua lingua impacciata, vi schizzava addosso le bollicine di saliva. Sapeva la storia di tutti, e faceva il gazzettiere nei salotti, dettando anche sonetti e madrigali per ogni occasione, come un vecchio Arcade. Le signore lo mandavano ogni tanto a cercare, e tra perchè temevano la sua linguaccia e perchè si pigliavano spasso de’ fatti suoi, non potevano stare un giorno senza di lui. Questo sapevano tutti, epperò si faceva a chi gli desse più argutamente la baia intorno alle sue avventure galanti; ed egli a gongolare, a ridere più sgangheratamente che mai, ed aspergervi della sua eterna rugiada.

- Il signor Salvani ed io, - disse egli, andando a sedersi nella poltrona accanto a Matilde, - possiamo darvi ottimi consigli, ma il vostro specchio ve li darà migliori. Sarete la regina della festa, o ce ne saranno due. Quella pettinatura, poi, [p. 203 modifica]vi sta a meraviglia. A cavalcioni su que’ biondi cernecchi se ne stanno gli amori, saettando vicini e lontani....

- Basta, basta, Onofrio! Siete un vero diluvio.

- Nel quale la vostra bellezza va incolume come l’Arca. -

E detta quest’arguzia, il marchese Onofrio arrovesciò il capo sulla spalliera della poltrona, ridendo a crepapelle e sfrombolando l’aria co’ suoi eterni sbruffi.

Lorenzo non aveva ancora aperto bocca. Egli stava rannuvolato guardando il conte palatino, il quale, dopo aver baciato la mano alla contessa, si era fatto in disparte, e taceva, come un innamorato in ufficio.

- Suvvia, non ci perdiamo in chiacchiere! - disse Matilde. - Sarà tardi, io credo.

- Sono le dieci! - soggiunse l’Alerami, cavando dalla tasca del panciotto il suo orologio contornato di brillanti.

- Orbene, - proseguì la contessa, - poichè mi avete detto il vostro parere, andatevene nel salotto, ch’io mi vestirò in fretta.

- Oh, non istate a darvi tanta premura, - disse il marchese. - Purchè andiamo alle undici, giungerete sempre in tempo, anzi comparirete sul più bello, come una dea di Omero nel più forte della mischia.

- Benissimo; lasciatemi dunque indossar l’armatura. Se volete giuocare, aspettandomi....

- Vi obbediremo, contessa; - disse il conte Alerami. - Signor Salvani, vuole Ella fare una partita?

- Non giuoco, signore.

- Giuocheremo una partita innocente. Appena una piccola posta, tanto per tener vivo il giuoco.

- Tanto meglio per Lei, signore; - ripigliò Lorenzo con asciutta cortesia; - la sua borsa non ne patirà danni troppo gravi, nel caso che il marchese De’ Carli fosse il fortunato. -

Matilde, avvedutasi della brutta piega che stava per prendere la conversazione, si affrettò a soggiungere in quella che volgeva un’occhiata severa a Lorenzo:

- Il proverbio dice: chi ha fortuna in amor non giuochi a carte. -

Il marchese Onofrio fece un inchino e una risata, per ringraziar la contessa. Lorenzo, dal canto suo, stette saldo, aspettando che il conte palatino gli dicesse qualche altra impertinenza. Egli, in fin de’ conti, non aveva fatto altro che respingere, con modi cortesi, sebbene asciutti, un assalto del suo fortunato rivale.

Ma questi, che si sentiva punto sul vivo dall’accento sarcastico [p. 204 modifica]di Lorenzo, volle aver la rivincita, e rispose con aria burbanzosa:

- A me non fa caso il perdere.

- E nemmeno a me, - disse di rimando Salvani, - fa gran caso sapere se il giuoco sia innocente, o no. Ogniqualvolta potrò aver la ventura di giuocare con Lei, non sarà certo la posta che mi metterà in pensiero.

- Ella parla come un Creso, signor Salvani! - rispose l’Alerami, impaniandosi sempre più.

- Non c’è bisogno d’essere un Creso per parlare come io faccio, e tutti i tesori del famoso re di Lidia non varrebbero la posta che il più meschino degli uomini potrebbe giuocare. Ella che è stato in India, signore - (Lorenzo non diceva mai signor conte) - conoscerà certamente la posta che mettono talvolta gli Indiani su d’una partita a scacchi.

- Non la conosco, in fede mia!

- Orbene, la servirò io: si giuocano gli occhi.

- Diamine! - esclamò il marchese Onofrio, che non capiva un’acca di tutto quel battibecco.

Matilde, pallida, sbigottita, si era accasciata sul sofà, aspettando la fine di quel dialogo ch’ella s’era inutilmente industriata a sviare.

- Sicuro, gli occhi! - proseguì Lorenzo, guardando sempre fissò l’Alerami. - Ad ogni partita che un giuocatore vince, cava un ferruzzo leggerissimo, e fa con gran maestria saltare un occhio all’avversario. Ella capirà benissimo che non si possa far più di tre partite, a questo bel giuoco; e l’ultimo occhio che rimane incolume all’uno dei due, gli serve per andarsene pe’ fatti suoi, dopo avere accompagnato il perdente fino all’uscio di casa. Ella è dunque avvertita; io soglio giuocar grosse poste, e quando le piaccia, sarò sempre ai suoi riveriti comandi.

- Eh! chi sa che non me ne venga la voglia! - disse il conte Alerami, che la rabbia aveva fatto diventar bianco come un cencio lavato.

- Si accomodi, signore! E adesso, - conchiuse Lorenzo volgendosi con un grazioso sorriso ai muti spettatori di quella scena, - signora contessa, signor marchese, loro servo divoto! -

Con queste parole si accomiatò, lasciandoli tutti sbalorditi.

Grama vittoria, nondimeno! Il povero Lorenzo si sentiva schiantare il cuore, uscendo da quella casa, che era stata la culla ed era la tomba dell’amor suo.


Note

  1. Nell’originale "sacrififizio".