I rossi e i neri/Primo volume/XX
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XX.
All’insegna degli Amici, buon vino.... e grama Compagnia
Il nostro Michele aveva dunque il suo disegno in capo, e voleva pagar egli la pigione, senza dar molestia a Lorenzo. La pensata era buona e degna dell’ottimo cuore di Michele: ma i nostri lettori, i quali non hanno un grande concetto della sua testa, vorranno sapere in che modo egli s’argomentasse di mandarla ad effetto.
I lettori vengano con noi e lo sapranno. Li condurremo a quest’uopo in una delle tante bettolacce ond’erano ornati, al tempo del nostro racconto, i pressi della via Carlo Felice, bettolacce che si facevano chiamare trattorie.
Erano stamberghe, buie di giorno, a mala pena rischiarate di notte; ma se la luce mancava, c’erano avventori in buon dato e d’ogni risma, i quali si stipavano tra quelle pareti umidicce, su certe pancacce levigate, rilucenti per l’uso continuo, davanti a certe tovaglie largamente chiazzate di vino e d’untume, sulle quali i più schizzinosi facevano stendere un tovagliuolo fresco di bucato.
Là dentro, grossi odori di vivande che si crogiuolavano nelle casseruole, e d’altre che forse da due giorni aspettavano il dente di un meno schifiltoso ghiottone; il tavoleggiante che comandava ad alta voce la pietanza richiesta e lo sguattero che dal fondo della cucina rispondeva il solito «va»; l’ubbriaco che sragionava a tu per tu in un angolo colla sua bottiglia di vino, scambiata per un amico contradditore; i tre o quattro compari già alticci che si accapigliavano per una bazzecola, e la moglie di uno dei tanti che s’industriava a rappattumarli; due spanne più alta su questo guazzabuglio, la padrona carnacciuta che sorrideva agli uni, dava sulla voce agli altri, e rifaceva il resto ad ognuno.
Era un gaio spettacolo, segnatamente dopo l’ora del teatro, quando si fosse fatto il naso a quella mescolanza di odori grossolani e gli orecchi a quel cicaleccio svariato e confuso, nel quale tratto tratto soverchiava una brutta parolaccia, che faceva arrossire sulla sua sedia curule, e in mezzo a’ suoi trofei di mandorle e fichi secchi, la pudibonda padrona.
La più pudibonda di tutte, sebbene la sua taverna ci avesse gli avventori più sboccati di tutti i dintorni, epperò la ci avesse dovuto riuscir manco tenera delle altre, era la Piccina, padrona dell’osteria degli Amici. Perchè si chiamasse la Piccina non sappiamo; certo quel nome non le era venuto dalla persona, che due uomini avrebbero durato fatica ad abbracciare, se pure si può argomentar che ci fossero due uomini al quali potesse venir quell’estro bizzarro.
Regnava la Piccina su d’una stanzaccia, due bugigattoli e una cucina, che erano al piano della strada, ma non aggiustati al medesimo piano tra loro. Dov’era la sala più grande, anticamente doveva essere stato il vestibolo di una casa, e la colonna maestra del primo giro di scale traspariva ancora dallo spessore di una parete, che si ragguagliava alle altre circostanti. La camera più vicina, cavata com’era da un sottoscala, non aveva finestre, e pigliava aria dall’uscio della sala maggiore e da quello della cucina. Immagini il lettore che aria!
In questa cameretta, dove capiva a mala pena una tavola, sulle undici di sera, veniva a dar fondo una coppia di amici. Uno dei due era il nostro bravo Michele; l’altro, indovinate mo’! era il Garasso, il marito della signora Momina, dottoressa in cartomanzia, vestito con quella attillatura popolesca che arieggia il vestire della gente signorile, senza farsi lecito nè il cappello a staio, nè il soprabito di taglio più lungo, nè i panni di colore più fosco.
La grossa padrona fece da lontano un grazioso cenno del capo al Garasso; ed anche il tavoleggiante lo salutò, come si usa con le buone pratiche.
- Che cosa comanda! - chiese il giovinotto. - Ho da apparecchiare per due?
- Sicuramente, per due. Anzitutto del buon vino, e bada che non abbia ricevuto ancora il battesimo!
- La non dubiti; - rispose l’altro, mentre col lembo del suo tovagliuolo ripuliva il desco di tutte le briciole di pane e d’altri minuti rilievi che testimoniavano l’uso recente della tovaglia. - Ce ne abbiamo del Monferrato, venuto ieri, che risusciterebbe i morti.
- Pur che non sia da avvelenare i vivi, portalo subito! - soggiunse Michele, andandosi ad impancare nell’angolo, con le spalle al muro.
- E che cosa vogliono mangiare? - chiese il tavoleggiante.
- Il meglio della mostra, - rispose il Bello, - se pure c’è qualche cosa che non sia dell’altra settimana.
- Oh, qui c’è tutto buono, signor Garasso; e tutto fresco di giornata.
- Sentiamo; - disse Michele, - leggici la Gazzetta dello stomaco. -
Michele chiamava con questo nome la lista dei cibi. Il tavoleggiante, che stava alla celia come i suoi pari, sciorinò i nomi di tutte le pietanze che c’erano, ed anche di quelle che già erano state smaltite.
- Basta, basta! - gridò il Bello, - finisci quella tua cantafèra, Bernardo. Io, se l’amico ci sta, ho già posto gli occhi su di un pollo arrosto e su d’un guazzetto di tartufi, tanto per aiutare a bere. Al resto penseremo poi. Che ve ne pare, amico Michele, parlo bene?
- Come un libro. La cena riuscirà un po’ troppo copiosa; ma, alla più trista, è meglio cenar molto che non cenare affatto. Chi va a letto senza cena tutta notte si dimena.
- E non basta; - soggiunse, ridendo sgangheratamente, il Bello, - quando s’è ben dimenato, e’ si ricorda che non ha cenato.
- Non la sapevo, quest’altra metà dell’avverbio! - rispose Michele, che incominciava a dirne delle sue.
- Sentiamo un po’ questo vino! - disse il Bello, accostando il bicchiere alle labbra.
Il vino era buono, poichè, dopo averne mandato giù un centellino, egli fe’ scoppiettare parecchie volte la lingua contro il palato; segno non dubbio del suo gradimento. Allora, percuotendo il suo bicchiere contro quello di Michele, disse con voce sommessa:
- Alla salute degli amici, e possa andar tutto bene!
- Bravo! alla salute degli amici! - ripetè Michele, e tracannò tutto d’un fiato.
- Mio caro Michele! Come sono contento di vedervi e di passare un’oretta con voi!
- Ed io? che vi pare? - rispose Michele. - Mi sembrava mille anni, sebbene ci siamo veduti stamane.
- Oh, così di passata! - si affrettò a dire il Garasso. - Ma che negozio era il vostro, da non lasciarvi venire a berne un bicchierino?
- Di mattina! che diamine? - rispose Michele. - Bisogna stare in gambe. Se il signor Lorenzo sapesse che comincio così per tempo a bere, mi manderebbe a quel paese; e ne avrebbe ragione, perbacco!
- Ma voi non siete mica un servitore!
- Oh, questo poi è verissimo. Sono un amico, anzi il cane di casa, e non c’è allegria nella quale il vecchio Michele non ci abbia la sua parte. Vecchio, del resto, così per dire; poichè Michele è appena sui quarantotto, e vuole aver mano ancora in molti negozi, prima di farsi mettere a riposo.
- E non istaremo già molto a menar le mani! - aggiunse il Bello. - Suvvia, Michele, il pollo è trinciato; assaggiate quest’ala. Il signor Salvani, del resto, è un ottimo giovanotto e merita che tutti gli vogliano bene come voi. Iersera si parlava appunto di lui, là dagli amici, e si diceva che se ce ne fosse una ventina di pari suoi a capitanarci, le cose andrebbero assai più spedite. Ci abbiamo in cambio certi sputatondo, i quali non vedono altro che malanni e si spaventano delle prime difficoltà. Costoro vorrebbero i pani a picce e le viti legate con le salsicce.
- Come nel paese di Cuccagna, non è vero? - gridò Michele. - Ma il signor Lorenzo non è di quella pasta; egli ci ha il sangue di suo padre nelle vene, e va innanzi badando agli ostacoli come io a questo bicchier di vino. Ma a proposito del signor Lorenzo, sapete che son venuto a chiedervi un servizio?
- Per il signor Salvani e per voi sono pronto a buttarmi nel fuoco. O siamo amici o non siamo. Voi pure saprete quel che vi ho detto una volta....
- Sì, mi avete detto che tra noi la era un’amicizia da Oreste, e.... aiutatemi a dire!
- Da Oreste e Pilade, ve lo ripeto, e sono sempre ai vostri comandi.
- Orbene, vi confido una cosa; ma, intendiamoci, veh!
- Acqua in bocca, non dubitate. Son segreto come la torre del palazzo Ducale.
- Lo credo, e appunto per ciò m’è venuto in mente di aprirmene con voi. Si tratta dei miei padroni, i quali tuttavia non sanno nulla di ciò che vorrei fare per essi. Hanno fatto tanto bene a me, che se potessi farne a loro, mi parrebbe di restar sempre da meno. Insomma, per farvela breve, da due mesi si è debitori della pigione al padrone di casa.
- Oh povero signor Salvani! - disse il Bello, facendosi innanzi coi gomiti sulla tavola, in atto di affettuosa sollecitudine. - E il padrone sarà un cane dei soliti....
- Peggio di un cane! - soggiunse Michele. - Costui, figuratevi, s’è fitto in capo un suo sconcio disegno.... Ma per l’anima di.... l’ho a conciar io come va, quel villano rifatto!
- Ma che c’è? Io non v’intendo.
- Eh, non avete capito? La padroncina, che, a dirvela di passata, è bella come la madre nostra, l’Italia, gli ha fatto gola. Egli ha saputo che la signorina Maria non è altrimenti sorella del signor Lorenzo; e siccome chi mal fa peggio pensa, s’è posto a molestarla con le sue smancerie e con le sue proposte da chiasso.
- Che cosa mi dite voi mai? - esclamò il Garasso, che non perdeva una sillaba di quel discorso, e andava mescendo di tratto in tratto a Michele, per farlo cantare. - Gli è proprio un mascalzone, costui!
- Ah, Garasso! c’è della gran brutta gente a questo mondo! Il signorino con la scusa della pigione, s’è introdotto in casa. Da principio era più riguardoso; ma questa mane, credendosi solo con la signorina, ha lentate le redini. Gli aveva fatto i conti senza Michele, il poveretto! Io son capitato sul buono, e con queste dita che vedete l’ho afferrato pel collo e gli ho dato certe picchiate che se ne vorrà ricordare per un pezzo.
- Bravo Michele! Questo si chiama ragionare. Io bevo alla vostra salute.
- Ed io alla vostra. Datemi da bere. Non so, ma a parlare di quel marrano, mi si rimescola il sangue, e mi s’inaridisce la gola.
- Segno che si ha da bere! - disse con aria grave il Garasso. - E poi, come l’è andata?
- L’è andata che il signorino è montato in bestia, e se domani non ha il suo denaro, manderà l’usciere e la carta bollata. Io non ne ho potuto dir nulla al signor Lorenzo, perchè lo conosco; è uomo che si riscalda facilmente, e, non avendo la pecunia gli rincrescerebbe troppo.... mi capite?
- Sì, di non avere il denaro per poterglielo dare sul grugno.
- Bravo, così appunto volevo dir io. Ed ecco perchè ho pensato a voi. Il mio amico Garasso, ho detto tra me, è uomo a cui non fa nulla un dugento lire di più o di meno, e poichè conosce il signor Lorenzo, e sa che questi non istarebbe molto a restituirgliele, potrà metterle fuori per amor suo e mio; non è vero? -
A queste parole il Bello fece il muso lungo, e dopo essersi dato un colpo della mano sulla fronte, così parlò con aria malinconica:
- Ah, Michele, Michele! Perchè non dirmelo ieri?...
- Oh bella! - rispose l’altro trepidante; - perchè ieri non eravamo al punto che vi ho detto. Stamane soltanto siamo venuti alle strette.
- Avete ragione; non ci pensavo più. Ma vedete, il vostro guaio mi fa perdere il capo. Ieri, figuratevi, ho giuocato.... Maledetto vizio! Ma vi assicuro che è stata l’ultima volta, e non mi ci colgono più. Intanto mi sono squattrinato, e salvo quel poco danaro delle male spese, non ho più nulla, più nulla. -
S’immagini il lettore come rimanesse Michele a quel racconto del Bello. Gli cascarono le braccia, e non ebbe più la forza di accostarsi alle labbra una infilzata di fette di tartufi che aveva con tanta cura accomodate sui rebbi della forchetta.
- Ma non vi perdete d’animo! - si affrettò a soggiungere il Bello, avvedendosi del cattivo senso che le sue parole avevano fatto sul compagno; - tranne alla morte, c’è rimedio a tutto. Ho ancora degli amici, e domattina vedremo di accomodarvi. -
Michele respirò, e respirò lungamente. Questo gli era tanto più necessario, in quanto che egli aveva tenuto il fiato fin da quel punto che il Bello gli aveva data la brutta notizia.
- Anzitutto, - proseguì quest’ultimo, - di che somma si tratta?
- Ve l’ho detto: di dugento lire.
- Di Genova?
- No: di Piemonte.
- Tra poco, - soggiunse il Bello, a mo’ di parentesi, - diremo lire italiane, se ci vien fatto il colpo.
- Sicuramente! - rispose Michele, non molto confortato da quella considerazione. - Ma di Piemonte o d’Italia, quando le si hanno a snocciolare, son come zuppa e pan molle.
- Le caveremo fuori, non dubitate. Io intanto vi ringrazio di aver fatto capo a me. Siete un buon amico; qua la mano! -
Michele fu sollecito a stringere la mano del Bello, di quell’ottimo giovanotto a cui egli chiedeva danaro a prestanza e che lo ringraziava per giunta.
- Ma come farete voi? - gli disse egli, dopo la stretta di mano.
- Non ve ne date pensiero. Andrò da un amico, il quale non vorrà negarmi il servizio. I denari degli amici sono nostri. Che cosa sarebbe l’amicizia, se non fosse così? Beviamo intanto, e vada in malora la malinconia. A proposito, questo padrone di casa, come si chiama?
- È un certo Ceretti, Ceretti figlio, per dirvi tutto, ma fa le veci del padre, ed è egli che s’incarica di molestare la gente.
- Lasciate dunque fare a me; - disse il Bello. - Se l’amico ha il denaro, come io credo, potremo metterlo subito a segno, questo signor Ceretti, e fargli passar la voglia di amoreggiare colle sue pigionali.
- Amen! - rispose tra due bocconi il nostro Michele, a cui le buone promesse dell’altro avevano fatto tornare l’appetito.
Il Bello si fermò un tratto, in atto di bere, ma guardando fiso Michele tra l’arco delle sopracciglia e l’orlo del bicchiere. L’aria di tranquillità e di contentezza che sedeva in volto al servitore di Lorenzo Salvani, dovette rassicurarlo senz’altro, perchè si provò a mettere il dito su d’un tasto più delicato, il quale egli non ardiva toccare, se non quando il suo cembalo, che era Michele, fosse inzuppato di vino.
- E quella povera signorina non sa ancor nulla de’ suoi parenti?
- E che volete che sappia? Non vi ho già detto?...
- Sì, m’avete detto che il segreto non si potrà conoscere fino a tanto che la ragazza non vada a marito. Ma questo mi pareva più un consiglio che un comando del colonnello Salvani; e per me, caro Michele, se fossi nei panni del signor Lorenzo, vorrei sapere che cosa c’è nella cassettina d’ebano.
- Oh! - interruppe Michele. - I vecchi hanno raccomandato che non si aprisse, e ci avranno avute le loro buone ragioni. Che cosa importa in fin dei conti che la signorina Maria sappia da chi nasce, se lo stato suo non ha da averne miglioramento? Quando la dovesse andare a marito, non dico di no! Bisogna pure che un uomo sappia con chi si ammoglia....
- Avete ragione; - incalzò il Bello; - ma, tant’è, la non m’entra. Il signor Lorenzo potrebbe, se non per dirlo alla signorina, almeno per suo governo, ficcar gli occhi là dentro, in cambio di tenere quella cassettina chiusa nella scrivania.
- Nel cassettone, nel cassettone! - disse Michele. - E sta bene dov’è. Il signor Lorenzo venera la memoria di suo padre, e non sarà mai per contraffare a’ suoi ultimi desiderii. Onora il padre e la madre! dice il primo comandamento del Catalogo. -
Il Bello sapeva quello che gli premeva di sapere, che la cassettina d’ebano non era stata aperta, e che era sempre chiusa nel cassettone in camera di Lorenzo Salvani; però fece mostra di convenire nella sentenza di Michele.
- Non voglio contraddirvi. Quello che dite è sacrosanto, e mi pare che il fatto torni a maggior lode del nostro signor Salvani.
- E in che modo?
- In quella cassettina, - soggiunse il Bello, - qualunque cosa ci sia, egli potrebbe pur sempre trovare un principio di fortuna. I segreti valgono tant’oro, e talvolta anche più dell’oro. Ora, se il signor Salvani credesse utile pel bene della sua sorella adottiva di aprire la cassettina, a chi farebbe egli danno? Che male ci sarebbe?
- Nessuno certamente! - disse Michele.
- Orbene, egli intanto non pensa a cavar profitto dal segreto, e si contenta, poveretto, di vivere onoratamente alla sera....
- Ahimè! - interruppe il servitore, - voi non sapete che non guadagna più nulla?
- Io no; ma come la è andata?
- Oh, gli è proprio il destino, che ha fisso il chiodo di tormentarlo. Figuratevi che quindici giorni or sono, anzi, se non piglio errore, pochi giorni dopo che io vi avevo parlato di quel poco guadagno che il signor Lorenzo faceva, il bottegaio, senza dirgli nè can nè gatto, lo ha mandato con Dio. -
Il Bello, mentre Michele parlava, si messe a centellare il fondigliolo del bicchiere, spiando con gli occhi il volto del compagno. Il candore di Michele lo rassicurò. - Che diamine? - pensò egli. - Se il bighellone sospettasse di me, non si lascerebbe più cogliere col vino in corpo, e non aprirebbe più becco. -
Fatto questo discorso tra sè, il Bello depose il bicchiere, dicendo con aria di compassione:
- Oh povero signor Salvani. E adesso fame e sete?...
- Sì, certo, fame e sete! Si sta in piedi per quella santa della signorina Maria! Se vedeste come lavora dì e notte, con quei ditini, per aiutar la casa! Vedete, quando ci penso, non mi dà più l’animo di mangiare nè di bere....
- Ottimo Michele! Ma consolatevi; tutti questi malanni debbono finire. Il signor Lorenzo, sebbene non paia, è nato vestito. Dov’è l’uomo che non ci abbia avute mai le sue burrasche? Il sereno presto o tardi ritorna; fateci assegnamento. E poi, se non vi dispiace, a queste necessità del signor Lorenzo ci ho da pensare un tantino ancor io.
- Davvero? Farete questo?
- E perchè no? Uno per tutti e tutti per uno, a questo mondo. Alla salute del signor Lorenzo e della signorina Maria! -
E così dicendo il Bello versò da bere per Michele e per sè.
- Sono brindisi ai quali non mi vedrete mancar mai; - gridò Michele; - ma prima che io beva quest’altro, che sarà forse il ventesimo....
- Eh via! Stiamo a vedere che avrete bevuto tutto voi.
- So quello che dico. E prima che io perda a dirittura la bussola, voglio dirvene una, col cuore in mano. Ma sapete, Garasso, che voi siete un vero amico? Quando dicevano che di voi non c’era da fidarsene! -
Il Bello si turbò fortemente a quelle parole; ma Michele, già alticcio com’era, sebbene non avesse bevuto i venti bicchieri che diceva, non si addiede punto del senso che le sue parole avevano fatto sul compagno.
- Chi ha detto ciò? - proruppe il Bello, aggrottando le ciglia.
- Non date retta; - si affrettò a dire Michele, battendo amorevolmente della mano sul braccio del Bello; - non date retta! sono i soliti invidiosi; perchè vi vedono scialarla nella bucolica e andar vestito come un signore. -
Il Bello respirò, e tanto più largamente, quanto più forte ed improvviso era stato il timore che alcuna delle sue malizie fosse trapelata.
- A dirvela schietta. Michele, - rispose egli allora, - io non giudico gli uomini dai cenci che hanno dattorno, come è costume dei cani. Sotto le vecchie ciarpe c’è quasi sempre un uomo dabbene....
- Certo! - interruppe Michele. - Bandiera vecchia fa buon brodo.... Cioè, piglio un granchio a secco; volevo dire gallina vecchia onor di capitano.
- Che guazzabuglio fate voi ora?
- No, non volevo dire nemmeno cotesto. Ma dove diamine ho il capo? Insomma, dicevamo che i cenci....
- Sono rispettabili, Michele mio; - ripigliò il Bello, - ma i cenci vanno a finire a Voltri nelle cartiere; e quando si può farne senza, non intendo il perchè non s’abbia a vestir pulito ed avere i buoni bocconi in quel concetto che si meritano. Spendo forse qualcosa d’altri? Oh, Michele, guardate un po’! La vita politica è piena di amarezze. Coloro che vi gridano la croce addosso saranno poi certuni per i quali vi sarete cavato, sto per dire, la camicia!...
- Può darsi anche questo! - rispose Michele. - Costoro vi pettinavano con le unghie, ed aggiungevano ancora, come un grosso delitto, che andavate a giuocare nelle bische. Ma io v’ho difeso, veh! Ce ne va tanti a sdanaiarsi in que’ luoghi, senza che s’abbia a dirne corna! È un guaio, lo so; ma alla stretta de’ conti non è la morte Domini.
- E poi, giuoco così poco! - soggiunse il Bello, - Non si sa che fare, in queste lunghe serate. I compagni vi tirano, e voi sapete che in compagnia anco il prete prende moglie. Ma vi so dir io che non mi ci colgono più, dopo che m’hanno strinato in modo da non poter più fare servizio a un amico come voi!
- Garasso, sentite una cosa! - disse Michele. - Oramai vi ho conosciuto; e chi ardirà sfringuellare sui fatti vostri l’avrà a fare con me. Michele, il veterano, il legionario d’America, si sente ancora in gambe, come a venticinque anni, e giurammio?...
- Proviamole dunque un tantino, le vostre gambe! - soggiunse il Bello, levandosi da sedere. - È ora di andarcene.
- E perchè mo’?
- Non vedete? Si chiude la bettola. È già il tocco dopo la mezzanotte, e se passano i sergenti della Questura, pigliano l’ostessa in contravvenzione ai regolamenti.
- Peccato! - rispose Michele, senza muoversi ancora. - Si stava così bene! Maledetti regolamenti! Ma che cosa ha da farsene la Questura, che la gente ne beva un gotto di più? La si occupi dei ladri, lei, e lasci stare i galantuomini a far la digestione!
- I sergenti della Questura, - disse il Bello, - vogliono andarsene a dormire, e bisogna pure contentarli.
- Ah, quando è così, non parlo più. Un ultimo bicchiere almeno, alla salute di Oreste e Come diamine si chiama quell’altro?
- Pilade.
- Sì, alla salute di Oreste e Pilade. Benedetto vino! L’ultima goccia è sempre migliore della prima. Basta, leviamo la seduta; ed ora vi farò vedere come vado ritto al banco della padrona. -
Ciò detto, il nostro Michele si mosse; ma per quanto si studiasse di tenersi ritto, le gambe, che forse si erano avvedute di un peso soverchio, lo portavano a sghimbescio contro la parete.
- Ah! Michele! Giuochiamo forse a mosca cieca? Badate al muro.
- Avete ragione; le gambe mi fanno fico. Per fortuna la testa è salda.
- Venite qua a braccetto; Oreste e Pilade non usavano fare diverso in simili casi.
- Credete? Allora son qua. E a proposito abbiamo pagato il conto?
- Non ve ne date pensiero; qui faccio a credenza.
E così, tolto Michele a braccetto, il Bello lo condusse all’aria aperta; nè ebbe a sudar poco per metterlo all’uscio di casa.
- Bravo Garasso! ottimo amico! - andava balbettando Michele. - Non so che diamine io ci abbia nelle gambe, che non vogliono star ritte. Ma tant’è, vi voglio bene. Siamo Oreste e.... aiutatemi a direi Questo benedetto nome non vuole mai venirmi in mente. Oreste e.... Oreste e....
- E pilastro! - soggiunse ridendo il Bello. - Eccovi infatti a casa vostra.
- Sì, è proprio casa mia! Cioè.... di mastro Ceretti. Se fosse mia, l’avrei già venduta.... per pagar la pigione.... Ma, a proposito, e quella faccenda?... Mi avete promesso.... Sapete pure!...
- Non dubitate. Domattina andrò dall’amico. Alle due vi aspetto sotto i portici del teatro Carlo Felice, per darvi la risposta. Andate dunque, da bravo!
- Sotto i portici?... Sta bene; - proseguì Michele con quella cascaggine di discorso e di gesti che è propria degli ubbriachi. - Vi aspetterò sotto i portici, accanto al primo pilastro. Pilastro! A proposito. Oreste e Pilastro, non è egli vero? Pilastro, sicuro; amici come Oreste e Pilastro. Bravo Garasso! Vi voglio un gran bene. -
Al Bello ci volle di molto per liberarsi dalle strette di Michele; e certo, se non era il ricordo di tutte le cose che gli aveva cavate di bocca e la speranza di cavargliene ancora, quello squassaforche avrebbe perduto la pazienza e avrebbe mandato il suo Pilade a quel paese.
- Andate, suvvia, andate, e soprattutto badate a non dar del naso per le scale. Tenetevi al muro!
- Oh, non dubitate. Non sono mica ubbriaco, io. Ho le gambe un pochino impacciate.... ma la testa è salda, la testa! Bravo Garasso! Amicone! Buona notte, e il cielo vi guardi dalle cattive disgrazie.
- Sì, state sano; buona notte! -
E così dicendo, il Garasso, per non aver più tempo a perdere con Michele, se ne andò via difilato verso Soziglia.
Michele si provò a dargli ancora la buona notte; ma, non udendo risposta, si inerpicò al buio fino all’ultimo piano; viaggio che durò una buona mezz’ora, con tutte le fermate, con tutte le peripezie dei viaggi, e con un monologo scucito per giunta alla derrata.
Come fu all’ultimo piano, il nostro Michele trovò faccia di Legno. Stette un po’ come smemorato, ora tastando l’uscio per cercare la corda del campanello, che pure ci aveva ad essere, ora le tasche della giubba, per cercare la chiave, che non c’era per fermo; finalmente, traendo una giustissima conseguenza da due premesse ignote, uscì in queste parole:
- Non c’è che dire; sono un po’ brillo. Dalla confessione alla penitenza non c’era altro che un passo. E Michele, per fare la penitenza, si lasciò andare sul pavimento, si accoccolò alla meglio col capo sulla soglia di casa, e non passarono cinque minuti che egli aveva già legato l’asino a buona caviglia.