I pescatori di trepang/24. Il capo Uri-Utanate
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | 23. I prigionieri | Conclusione | ► |
CAPO XXIV.
Il capo Uri-Utanate
l capitano, Hans ed il giovane pescatore, rimasti nel boschetto di noci moscate, invano avevano atteso il ritorno dei cacciatori, lanciati sulle tracce del babirussa.
Dapprima non si erano inquietati, credendo che l’animale li avesse condotti assai lontani, ma vedendo trascorrere le ore senza che apparissero, cominciarono ad agitarsi ed a temere che fosse a loro toccato qualche disgrazia.
Trovandosi in paese selvaggio, abitato da tribù ostili, sospettose e talune antropofaghe e anche popolato da non pochi animali feroci, i loro timori non potevano essere infondati.
Il capitano, le cui apprensioni crescevano vedendo il sole volgere al tramonto, decise di mettersi in cerca dei disgraziati compagni. Dopo d’aver raccomandato ad Hans ed al chinese di non abbandonare il boschetto e di vegliare attentamente, si mise in marcia verso il sud, seguendo le tracce del babirussa, ma avendo anche la precauzione di segnare gli alberi alla sua destra, vibrando di tanto in tanto dei colpi di scure sui loro tronchi per poter ritrovare la via percorsa.
S’inoltrò nella foresta per parecchi chilometri, ma procedendo a casaccio, avendo ben presto smarrite le tracce dell’animale e lanciando di tratto in tratto delle tuonanti chiamate, ma senza ottenere risposta alcuna.
Declinando il sole e temendo di non ritrovare più la via percorsa, fu costretto, suo malgrado, a ritornare, sperando che i compagni fossero già giunti al boschetto percorrendo altro tratto di foresta.
La sua disperazione fu al colmo, quando non vide che Hans ed il chinese.
— Si sono smarriti, disse. Cosa sarà di loro? Gl’imprudenti, nella fuga dell’inseguimento hanno dimenticato di fare delle incisioni agli alberi e chissà dove saranno ora.
— Non possono essersi molto allontanati, zio disse Hans. Il babirussa perdeva sangue e non può aver percorso molta via; forse ritorneranno più tardi.
— Ma la foresta è immensa, Hans, ed è facile perdersi fra migliaia e migliaia di alberi.
— Wan-Horn è un marinaio e tu sai che gli uomini di mare sanno sempre trovare la tramontana, il levante, l’occidente e il mezzodì.
— Sul mare, ma in questi boschi che non lasciano vedere il sole?... Tuttavia non disperiamo.
Costruirono una piccola tettoia con alcuni rami incrociati e delle foglie di arecche e s’accamparono senza osare dormire, per tema di non poter udire i segnali dei loro compagni.
Le ore però passavano senza che Cornelio e Wan-Horn ritornassero. Solamente verso la mezzanotte parve a loro di udire una lontana detonazione e delle grida, ma non si ripeterono.
Il capitano avrebbe voluto partire sull’istante, ma essendo l’oscurità profonda e temendo a sua volta di smarrirsi, fu costretto a rinunciare al progetto.
All’alba, vinti dalla stanchezza e da quella lunga veglia angosciosa, s’addormentarono, ma il loro sonno fu di breve durata, poichè furono bruscamente svegliati da selvaggi clamori.
Stavano per balzare in piedi, quando videro precipitarsi addosso trenta o quaranta papuasi armati di cerbottane, di mazze e di lance, adorni di piume e di collane di denti d’animali e di scagliette di tartaruga.
Hans ed il chinese in un baleno furono atterrati e ridotti all’impotenza prima che potessero far uso delle loro armi, ma il capitano, impugnando una scure, era balzato fuori cercando di guadagnare la foresta, ma giunto colà era stato assalito da una seconda orda di papuasi e fatto prigioniero, malgrado la sua disperata difesa.
Un vecchio papuaso, di alta statura, col capo adorno di piume d’uccelli del paradiso ed i fianchi stretti da una larga fascia di nanchino che gli ricadeva sul dinanzi, avvicinatosi al capitano, gli chiese in lingua malese:
— Dov’è mio figlio?...
— Tuo figlio!... esclamò Wan-Stael. Non so chi sia.
— Era qui venuto per uccidere il capo degli Arfaki.
— Non l’ho mai veduto.
— Tu menti, bianco, gridò il papuaso. Tu l’hai ucciso.
— Ma se ti dico che non l’ho mai veduto.
— Gli uomini bianchi sono nostri nemici.
— Io non sono mai stato tuo nemico.
— Tu vuoi ingannarmi, ma sei mio e diventerai mio schiavo o ti farò mangiare dai miei sudditi.
— Tu sei ubbriaco, papù, disse il capitano, che perdeva la sua calma. Quali istorie vieni a raccontarmi?...
— Cosa facevi in questi boschi?...
— Sono naufragato su queste coste spintovi dalle tempeste e cercavo di raggiungere la Durga per poi guadagnare le isole Arrù e di là tornarmene in patria.
— E non hai veduto gli Arfaki?...
— Nemmeno uno.
— Ma cos’è avvenuto di mio figlio?
— L’avranno ucciso.
— Sono tuoi amici gli Arfaki?
— Mi avrebbero mangiato, se li avessi incontrati.
— Non ti credo: sarai mio schiavo finchè non avrò ritrovato mio figlio.
— Come vuoi, ma bada, papù, che se tocchi un capello ai miei compagni, io ti ucciderò, dovessi poi venire divorato dai tuoi sudditi. Dov’è il tuo villaggio?
— Sulla Durga.
— È la mia via, mormorò il capitano. Cornelio e Wan-Horn sanno che noi dovevamo recarci a quel fiume, speriamo quindi che ci raggiungano colà. Sarà però meglio avvertirli, nel caso che ritornino qui.
Strappò dal suo libretto una pagina e scrisse quelle parole che più tardi dovevano venire lette dai suoi compagni, e la gettò in mezzo all’erba.
— Cos’hai fatto? gli chiese il capo.
— Una offerta al mio genio protettore, rispose il capitano. Ti consiglio di non toccarla, se non vuoi morire.
Il papuaso, superstizioso come tutti i suoi compatrioti che credono ai geni del mare e della notte, si guardò bene dal toccarla; anzi per tema che fosse qualche polente malefizio dell’uomo bianco, s’affrettò a dare il segnale della partenza.
Convinto che ormai suo figlio fosse stato ucciso o dagli Arfaki o dai suoi prigionieri, ritornava al suo villaggio.
La marcia attraverso a quelle grandi boscaglie fu penosa, soprattutto pei tre naufraghi ai quali erano state legate le mani dietro al dorso per impedire che si ribellassero o che fuggissero durante le fermate notturne.
All’alba del terzo giorno però, la tribù giungeva sulle rive della Durga, grande fiume dal corso rapido, che solca gran parte della vasta isola verso occidente e che scaricasi presso il capo Valke, in quel tratto di mare che bagna l’arcipelago delle isole Arrù.
Un grande villaggio acquatico, occupava un lungo tratto della sponda sinistra. Era formato da una quarantina di enormi capanne rettangolari, con terrazze spaziose comunicanti fra di loro e sorrette da grossi bambù, i quali immergevano le loro estremità inferiori nella corrente.
Alcuni ponti mobili le univano alla riva e sotto di essi, legati a quella selva di pali, si vedevano galleggiare gran numero di quelle doppie barche, scavate nei tronchi di colossali cedri, fornite di bilancieri, di alberi e di vele.
I papuasi, attraversati i ponti, entrarono nel villaggio, accolti dagli abitanti da grida di giubilo e trassero i prigionieri nella abitazione del capo, che era situata nel centro e che era la più vasta di tutte, avendo una lunghezza di oltre quaranta metri su una larghezza di venti.
Il capitano ed i suoi compagni dovettero eseguire una ginnastica indiavolata, essendo i pavimenti delle terrazze composti, come quelli delle case aeree, di travi distanti l’uno dall’altro venti o venticinque centimetri e senza tralicci. Più volte corsero il pericolo di cadere, senza l’aiuto dei loro guardiani, i quali invece non mettevano mai i piedi nel vuoto, tanto sono abituati a quei pavimenti incomodi sì, ma che hanno il vantaggio di lasciare cadere le immondizie della casa senza bisogno di scope.
— Ed ora, cosa intendi di fare? chiese il capitano al capo, quando si vide rinchiuso in una stanzuccia assieme ai suoi compagni.
— Il consiglio degli anziani della tribù deciderà la tua sorte rispose il selvaggio. Se voi avete ucciso mio figlio, morrete.
— Capo testardo! esclamò il capitano, che usciva dai gangheri. Ti ho detto che noi non siamo tuoi nemici.
— Gli uomini bianchi sono miei nemici.
— Gli altri forse, ma non noi.
— Fa lo stesso, poichè anche voi siete bianchi.
— Ma se io non ho mai veduto tuo figlio.
— L’avranno ucciso gli Arfaki tuoi alleati.
— Sei una canaglia!...
— Sono Uri-Utanate.
— Un brigante! urlò il capitano, esasperato.
— Bada!... Uomo bianco!...
— Non ho paura dei tuoi uomini.
— Me lo dirai più tardi.
— Bada, vecchia pelle negra, che ho dei compagni ancora liberi nella foresta e che se tu tocchi me o mio nipote od il chinese, ti faccio incendiare il villaggio.
— I miei guerrieri lo difenderanno.
— Oh furfante!...
Il capitano, furibondo, si era alzato tendendo le pugna verso il papuaso, quando improvvisamente udì echeggiare due colpi di fucile e subito dopo dei clamori assordanti.
— Degli spari!... esclamò Hans. Forse sono Cornelio e Wan-Horn!...
Il capo papù si era precipitato fuori dell’abitazione colla mazza in pugno, forse credendo che degli uomini bianchi assalissero il suo villaggio. Ad un tratto emise un grido di gioia.
— Uri!... Uri!... gridò, correndo attraverso alle terrazze, sulle quali si era radunata l’intera popolazione.
Un papuaso, che era seguìto da due uomini bianchi, superato un ponte, gli correva incontro colla velocità d’una freccia.
— Padre!... esclamò.
Il capo, che pareva estremamente commosso, se lo strinse al petto dicendo:
— Vivo, vivo ancora!...
— Sì, padre: gli Arfaki non mi hanno ucciso, come ben vedi.
Poi, dopo d’aver lanciato un rapido sguardo all’ingiro, chiese:
— Hai fatto prigionieri degli uomini bianchi?
— Sì, rispose il capo.
— Dove sono?... Voglio vederli!...
— Sono nella mia capanna.
Il giovane papuaso balzò attraverso alle terrazze ed entrò nella stanza dove stavano il capitano, Hans ed il chinese.
Si avanzò verso di loro e con un gesto che non mancava d’una certa nobiltà, disse:
— Siete liberi e ospiti graditi del capo Uri-Utanate.
— Ma chi sono costoro? chiese il capo, che lo aveva raggiunto. Non sono nostri nemici?
— No, padre, essi sono i fratelli degli uomini bianchi che mi hanno strappato dalle mani degli Arfaki, quando ero già votato alla morte.
In quell’istante Cornelio e Wan-Horn, apparvero sulla porta. Quattro grida echeggiarono.
— Zio!...
— Nipote!..
— Hans!...
— Wan-Horn!...
I quattro naufraghi, che credevano di non più rivedersi, si abbracciarono, mentre il chinese, fuori di sè per la gioia, sgambettava per la stanza come se fosse impazzito.
— Uomini bianchi, disse Uri-Utanate, che ormai sapeva ogni cosa. La mia casa, i miei guerrieri e le mie barche sono a vostra disposizione. Voi mi avete ridato il figlio, l’erede del mio grado: io vi ridò la libertà.
— Padre, disse il giovane guerriero. Questi uomini vengono dai lontani paesi situati all’ovest, e vogliono raggiungere le isole Arrù per ritornare in patria. Io li guiderò fino all’arcipelago.
— Mio figlio è un valoroso: segua e protegga gli uomini bianchi fino alle isole.
— Grazie, Uri-Utanate, disse il capitano. Quando sarò tornato in patria, dirò che se nella Papuasia vi sono degli uomini cattivi, non mancano però gli uomini generosi.